Il poeta russo Aleksandr Blok afferma: “tutto ciò che è russo è triste”. Io potrei definirmi cronista di questa civiltà delle lacrime e della sofferenza. Da vent’anni ormai scrivo la storia del piccolo uomo e della grande utopia. Questo paese, il paese dell’utopia, dell’utopia comunista non esiste più e tanto più questa esperienza si allontana nel tempo, quanto più diventa un mito e perde la capacità di rendere la realtà di ciò che è stata. Perché l’utopia comunista, così come è stata realizzata era sanguinaria, ma continua a ipnotizzare le menti degli uomini. Da vent’anni sto raccontando la sua storia attraverso le voci di coloro che l’hanno vissuta. Il mio modo di scrivere e di narrare è nato nel momento in cui mi sono resa conto che l’arte non riusciva a star dietro alla vita umana: il mondo cambia in fretta e l’arte non riesce a intuire molte cose della vita. Per il fatto di essere cresciuta in campagna e di essere giornalista ho viaggiato molto per il paese, ho parlato con numerose persone, mi son resa conto che in ogni uomo c’era un testo, piccolo o grande che fosse. Allora mi sono chiesta: perché non ricavare da tutte queste voci una o due pagine, così da ottenere un tessuto, un romanzo in cui entri ogni persona? Quello che mi raccontavano spesso mi stupiva, o mi coinvolgeva più di ciò che leggevo nei libri. Così è nato questo mio genere letterario e il primo libro che ho scritto è stato sulle donne in guerra, le donne soldato. Il vissuto di queste donne era stato fino allora trascurato dalla nostra letteratura, sebbene costituisse un fatto abbastanza unico: un milione di donne soldato parteciparono attivamente alla seconda guerra mondiale, donne russe arruolate anche come tiratrici scelte, come addette all’artiglieria. Fino ad allora esisteva solo lo sguardo dell’uomo sulla guerra, cioè quello che andava bene al sistema. Un giorno andai in casa di una donna che aveva combattuto la guerra, ero andata a trovarla per un servizio giornalistico quando all’improvviso proprio da lei sentii un possibile testo che mi sconvolse: era stata comandante di artiglieria e mi disse: “Vuoi trovare parole adatte a descrivere quello che è stato? Ho letto molti libri sulla guerra ma ciò che ho vissuto non l’ho trovato in nessuno di questi libri”. Ero abbastanza giovane da ritenere che non tutto potesse essere detto, descritto dalla parola. No, al contrario pensavo che la parola fosse in grado di descrivere ogni cosa. E all’improvviso mi sono resa conto che in realtà c’era un qualcosa, un mistero che mi sfuggiva, legato alla parola. La donna narrò che quando cominciavano le scariche di artiglieria gli intestini erano completamente in subbuglio e perfino le usciva sangue dalle orecchie e dalla bocca. Era in un battaglione in cui c’erano trenta ragazze e tutte quante per l’intera durata della guerra non ebbero più le mestruazioni, erano convinte che non avrebbero più potuto avere figli. Allora ho capito che in realtà la guerra delle donne non la conoscevo. Da allora ho cominciato a incontrare le donne soldato e non più i loro mariti. In qualche modo la società sovietica attendeva lo sguardo delle donne sulla guerra; del libro sono state stampate due milioni di copie, così ho capito che c’era bisogno di questi libri.
Ognuno di noi ha dei segreti, e se si trova il modo di esplicitarli attraverso la scrittura si possono costruire libri. Sì, c’è una massa di parole, di quadri e tante volte c’è uno iato tra ciò che rappresentano e ciò che noi sappiamo essere la realtà. È come se ai nostri sentimenti, alle sofferenze non ci sia una risposta adeguata da parte di ciò che viene fissato dalla parola scritta o dall’opera d’arte. Quando sentiamo il racconto di un’altra persona possiamo spesso constatare che è interessante per noi; quando ho cominciato a scrivere il libro su Černobyl, per completarlo ci ho messo più anni che per gli altri libri, quasi dieci anni, ho capito ancora di più che una sola persona non può raccontare un tema del genere, non può farlo in solitudine. Quando si pronuncia la parola Černobyl nei vari paesi del mondo in cui è stato pubblicato questo mio libro la prima reazione istintiva è di rifiuto, come se già conoscessimo tutto di questo argomento. Ma in realtà non è così; non è che abbiamo dimenticato Černobyl, semplicemente non lo abbiamo mai capito. Forse solo l’11 settembre ci ha indotti a pensare che il male ha assunto un nuovo volto e allora abbiamo ripensato Černobyl. Un male del quale non abbiamo la percezione perché non abbiamo la conoscenza. Un male che supera non solo la nostra conoscenza ma la nostra immaginazione. Non voglio qui ripetere il mio libro, ma riportare qualche impressione dei primi giorni immediatamente successivi alla catastrofe: non era solo paura ma uno smarrimento generale. Molte persone e molti mezzi, elicotteri e aerei furono inviati sul posto, ma sul volto di tutti, dei soldati, come anche degli scienziati e dei tecnici c’era lo smarrimento più completo. La gente in pratica non sapeva cosa fare, perché si trattava di una realtà completamente nuova. Nei primi giorni la sensazione generale era che ci fosse un male di tipo nuovo, impalpabile: non lo si sentiva, non lo si vedeva, non lo si poteva toccare. Questo era particolarmente evidente quando mi capitava di incontrarmi con i contadini della Bielorussia, il paese che più ha sofferto le conseguenze di questo incidente perché il vento, quando ci fu l’esplosione, soffiava da quella parte. La Bielorussia è un paese prettamente agricolo e non dimenticherò mai i volti e le espressioni di quei contadini; il loro mondo era semplice, fatto di strumenti come la vanga e la zappa, cavalli, vacche e alberi. Erano persone abituate a vivere in armonia con la natura che apparentemente era rimasta la stessa del giorno prima, però nelle scuole e sui muri delle case i cartelli avvisavano: vietato mangiare le mele, vietato mangiare i cetrioli. Come in un quadro assolutamente pazzesco, anzi surreale ricordo una mandria di vacche al pascolo, proprietà comune dell’intero villaggio, e trenta-quaranta donne mungevano le vacche e lasciavano cadere il latte direttamente per terra, non nei secchi, mentre tutt’intorno la polizia sorvegliava che il latte non fosse in alcun modo raccolto, ma che venisse veramente versato per terra. Allo stesso tempo il villaggio era pieno di soldati che lavavano i tetti e le case, che lavavano per terra e persino la legna: sembrava di non esser più su questa terra, ma in un mondo assolutamente irreale. Nessuno in realtà sapeva come comportarsi e cosa fare. Tutti si davano un gran da fare, ma nessuno era sicuro del senso del suo agire. Oggi si lava la casa, si alza un po’ di vento e la casa richiede di essere nuovamente lavata. Rimasi stupita perché fino a quel momento eravamo un popolo di materialisti, ma all’improvviso questo mondo materialista e ateo, del quale eravamo così certi, era esploso insieme alla centrale di Černobyl. Né la fisica, né la matematica potevano spiegarci alcunché di quanto era accaduto. La gente cercava di orientarsi in questo nuovo mondo, ma aldilà dello smarrimento e della paura non trovava nient’altro. Subito si riempirono le chiese. Quando vidi le chiese stracolme di gente, uno spettacolo assolutamente inedito, eravamo ancora in epoca sovietica, mi meravigliai molto. Chiesi allora alla gente: ma la religione è in grado di spiegarvi ciò che è successo? Una vecchia mi rispose: “spiegarlo è impossibile, ma in chiesa trovo consolazione”, cioè le persone cercavano un punto fermo, un punto d’appoggio, perché tutta la precedente costruzione del mondo era percorsa da crepe, tutto sembrava voler crollare. L’essere umano non può restare a lungo in tale condizione. Per la nostra gente fu un tempo di grandi prove per la coincidenza di due catastrofi, si percepiva infatti che l’impero dell’utopia vacillava, e alla catastrofe sociale si aggiunse quella che definirei cosmica di Černobyl. L’uomo era rimasto del tutto solo in tali circostanze: tacevano i nostri filosofi e i nostri letterati, era un tempo di grande e generale paralisi. Durante i molti anni dedicati alla stesura di questo libro mi sono resa conto che esso avrebbe dovuto parlare di questa nuova consapevolezza, acquisita proprio in seguito a Černobyl. Ho intuito che la nostra esperienza non era valida soltanto nello spazio sovietico e per i suoi abitanti, ma penso che debbano farne tesoro tutti. Il mio libro non è solo su Černobyl, ma tratta delle nuove paure che ci stanno davanti. Siamo in un mondo diverso da prima, la nostra anima deve affrontare molte prove e reimparare il coraggio di vivere. Di tutto questo ho scritto in “Preghiera per Černobyl”.
Intervento di Svetlana Aleksievic tenuto a Brescia il 9 ottobre 2002 in occasione della presentazione del suo libro “Preghiera per Černobyl” su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura. Testo non rivisto dall’Autore, che nel 2015 è stata scelta come Premio Nobel per la letteratura.