Sono molti anni che esamino la situazione politica e un disordine così complicato non l’avevo mai visto, per cui partirei da questa frase: se non sei confuso, vuol dire che non hai capito niente, perché la situazione di oggi è una situazione che non ha precedenti nella storia. Prima di tutto vorrei fare un’osservazione iniziale di inquadramento: il mondo oggi sta di fatto voltando le spalle alla democrazia come noi la concepiamo e sta (unanimemente o meno) volgendo lo sguardo a un aumento dell’autoritarismo. Non sto parlando in questo momento dell’Europa, sto parlando di tutto il mondo che ci sta attorno.
Prendiamo la Cina che è sempre stata un Paese autoritario, dobbiamo andare ai tempi di Mao Tse-Tung per avere un accentramento del potere così forte nelle mani di un solo leader: il partito, il Governo, l’esercito e in più tutte le commissioni militari, le commissioni sui problemi economici, tutto è nelle mani del presidente e di un gruppo ristretto. Naturalmente questi sono fattori che possiamo anche comprendere; si tratta di un Paese che ha compiuto metà della sua rivoluzione in cui vivono 700 milioni di persone e che ne deve inurbare nel prossimo decennio 200 milioni. Dunque possiamo comprendere come concentri la propria autorità. Di fatto è un processo che noi non ritenevamo accettabile tre o quattro anni fa, ritenevamo invece che fossimo di fronte ad un allargamento dell’autorità. Per cui la Cina in fondo in questa fase storica è un po’ l’inverso di quello che Tommaso di Lampedusa descriveva di Palermo: “A Palermo tutto doveva cambiare affinché tutto potesse rimanere uguale”. A Pechino tutto deve rimanere fermo e uguale affinché la società possa cambiare. È un concentramento che non ci aspettavamo.
In India (in misura minore) sta avvenendo la stessa cosa. Anche qui abbiamo diverse giustificazioni: le 20 lingue ufficiali, le tre tribù ufficiali, il miliardo di persone, il problema degli investimenti pubblici, tutto quello che volete… Ma una concentrazione di potere come quello che c’è oggi nella democrazia indiana non si era mai visto. Nelle Filippine dove il nuovo presidente con l’appoggio di tutti ha fatto giustiziare 1500-2000 trafficanti di droga con sistemi di cui forse è meglio non parlare. Poi in Russia abbiamo avuto un forte concentramento del potere per ragioni altrettanto comprensibili, ma è un dato di fatto che bisogna tornare indietro all’Unione Sovietica per avere una concentrazione di potere di questo tipo. In Turchia quando arrivò Erdoğan al potere mi ricordo che lo accogliemmo come il leader democratico della Turchia moderna, quello che proseguiva il processo di modernizzazione controllando l’esercito che fino allora aveva abusato del proprio potere. Poi penso all’Egitto…
Le statistiche dell’ONU affermano: “Nell’Africa di oggi abbiamo un avanzare della democrazia, abbiamo un numero di Paesi che partecipano alle elezioni maggiore di quello che c’era trent’anni fa”. Poi andiamo ad analizzare come vanno le cose ed è vero che abbiamo le elezioni imposte anche dai Paesi europei, però chi vince le elezioni si definisce poi il padrone del Paese e ne diventa il proprietario. Tutte le tensioni che ci sono quest’anno in Africa non sono per motivi di democrazia o meno, ma perché leader eletti democraticamente non se ne vogliono andare perché il Paese è diventato una loro proprietà.
Quando dico che ci sono orientamenti nuovi parlo di un problema serissimo. Solo l’Europa finora è immune a questo processo, ma bisogna prestare attenzione a tutti quei partiti nuovi che chiamiamo populisti (che poi sono i movimenti anti-autorità), poiché hanno una caratteristica comune: avere un leader indiscusso. Anche questo processo è in armonia alla tendenza mondiale, e lo ritengo estremamente preoccupante. Viene a mancare quel ruolo del popolo, la volontà popolare, che è sempre stata una caratteristica del mondo moderno.
Ci siamo sempre illusi che la volontà popolare avanzasse, e così è stato dal Dopoguerra fino a quindici anni fa, poi è cominciato questo processo indotto (sia dai populisti europei che dagli Stati Uniti) da una gestione sbagliata della globalizzazione e dalla paura. Paura del migrante, paura della concorrenza cinese o di altri Paesi, paura del cambiamento del mondo in un periodo in cui non vi è un accordo collettivo e questo è simboleggiato da un’estrema debolezza delle Nazioni Unite. Quando ho cominciato ad interessarmi di politica l’obiettivo della crescita di potere e di influenza di autorità, anche solo morale, dell’ONU era assolutamente indiscusso. Oggi è cambiato il nuovo segretario (è una persona molto seria) e quasi non è stata neppure data la notizia in Italia, e poco all’estero. Ban Ki-moon ha infatti lasciato il potere all’ex-ministro portoghese Guterres. Un tempo si sarebbe pensato che fosse un cambiamento di enorme importanza, ma sui nostri giornali c’erano solo delle colonnine di modeste dimensioni. Ormai c’è quest’idea che il potere sia nelle mani delle grandi potenze e non si accetta un ruolo sovranazionale (nelle Nazioni Unite come in Europa).
L’Europa si trova sotto questo aspetto in un cammino “comune” agli altri Paesi del mondo: questa paura che vi ho descritto ha spinto sia alla debolezza delle istituzioni europee, sia all’elezione di Trump; in estrema sintesi alla caduta della classe media.
Fenomeno comune a tutto il mondo, dalla fine della seconda guerra mondiale fino al 1980 c’è stato un progressivo avvicinamento delle diverse classi sociali, tra i ricchi e poveri si era un pochino ristretta la differenza. Mentre dal 1980 in poi si rovescia in tutto il mondo questa tendenza. Quando vi dico in tutto il mondo sono compresi anche i Paesi comunisti, compresa la Cina, con le uniche eccezioni dei Paesi Scandinavi, del Brasile (sotto Lula per qualche anno e adesso è invece ricominciata una tendenza inversa) e per due o tre anni della Francia. Nel resto del mondo la differenza tra ricchi e poveri è assolutamente continuata fino ad avere adesso delle statistiche impressionanti, in cui si dice che metà della ricchezza del mondo potrebbe stare in un pullman con ottanta-novanta persone, che sono livelli impressionanti di concentrazione della ricchezza. Credo che il fenomeno del cambiamento del potere, la ricerca dell’autorità e della differenziazione siano fenomeni che vanno insieme e di fronte ai quali diventa molto difficile porre rimedi; perché? Perché trenta o quarant’anni fa il dibattito politico avveniva fra più tasse o più servizi sociali. Da quando è avvenuta la dottrina di Reagan e della Thatcher questo discorso non si fa più, e chi parla di tasse perde le elezioni. Vi posso assicurare che ne sono un buon testimone…
Abbiamo questa democrazia che si è evoluta in modo in cui in campagna elettorale tutti promettono una diminuzione delle imposte che poi sostanzialmente non avviene, ma è un tributo che deve essere pagato per la legittimazione elettorale e allora diventa molto difficile riaggiustare il tiro. Negli ultimi anni, in Europa, nella moderna economia, mentre il lavoro rimane fisso e il lavoratore ha le sue radici, il capitale non lo è più, ed è quindi cominciata una concorrenza fiscale tra i diversi Paesi. Questa concorrenza, per sua stessa definizione, deprime il livello salariale. Se il costo del lavoro aumenta scappano le imprese, scappa il capitale… È un problema di un’importanza enorme. Addirittura abbiamo un primo ministro britannico che, prima in modo velato e poi più esplicito sostiene che farà della Gran Bretagna un paradiso fiscale tanto quanto l’Irlanda.
Nessuno riflette su queste questioni quando subiamo le tensioni a causa della mancata disciplina delle grandi variabili dell’economia moderna. Qualche mese fa, proprio perché l’Irlanda per attrarre le multinazionali straniere applicava imposizione zero a tasse per i profitti aziendali, le autorità europee hanno imposto al Governo irlandese di far pagare alla Apple 13 miliardi di dollari. È naturalmente cominciata una controversia legale; per cui non sappiamo quando e se questi soldi verranno pagati, ma nel bilancio della Apple ci sono oltre 250 miliardi di liquidi. Si va per vie legali per far pagare 13 miliardi e ci sono 250 miliardi lì, fermi, che sono più nel prodotto nazionale lordo di un Paese medio. La distorsione del potere economico-finanziario è diventata un fatto enorme, di fronte al quale si dimostra sempre di più l’impotenza del potere politico. Questo è uno degli altri elementi che anche in Europa sta agendo in modo profondo, sta trasformando le nostre società, perché i Governi diventano impotenti di fronte a questi grandi avvenimenti.
Ed è in questo quadro che Trump vuole fermare il declino dell’America con un’inversione di tendenza (vedi il discorso “America First / America soprattutto”). Dobbiamo essere molto prudenti prima di giudicare a fondo la politica di Trump, anche perché ogni giorno ne ha una nuova, ma se analizziamo le sue vere decisioni vediamo ad esempio che il grande nemico nella sua campagna elettorale era la Cina: posti di lavoro, concorrenza ecc. Trump prima favorisce la Cina attaccando il trattato commerciale del Pacifico che la escludeva, poi riceve il Primo ministro giapponese offendendo i cinesi, in seguito in qualche modo cerca di rimediare ma improvvisamente fa una lode di Taiwan dicendo che ci sono due Cine. Scoppia l’ira di dio, esce con una dichiarazione di marcia indietro completa: “C’è una solo Cina, ed è la Repubblica Popolare Cinese”. Questo conferma quella che è la sua visione del mondo, ci sono due grandi potenze: la Cina e gli Stati Uniti.
Veniamo all’Europa: ha cinquant’anni di storia, ma io voglio parlare subito di futuro, la storia conta molto ma dobbiamo pensare a cosa succederà nel futuro. Il discorso di Trump sull’Europa prevede un cambiamento radicale: gli Stati Uniti negli ultimi trent’anni hanno appoggiato in modo indiscusso la rinascita dell’Europa, si pensi al piano Marshall… Gli americani avevano capito benissimo che per tenere in mano il mondo avevano bisogno di alleati forti e quindi di un’Europa vigorosa. Questo dura fino a che l’Europa non diventa un po’ troppo forte economicamente, per cui negli ultimi trent’anni gli Stati Uniti hanno sempre appoggiato l’Europa, hanno sempre voluto che nuotasse, ma che ogni quattro o cinque bracciate bevesse un poco d’acqua in modo da non fare concorrenza eccessiva. Se voi analizzate l’andamento della crisi economica e osservate come le banche americane appoggiate dal governo la hanno gestita, indubbiamente l’Europa cominciava ad essere vista come un grande concorrente nella situazione mondiale, amica fino a un certo punto. Ora per la prima volta non solo Trump ha lanciato il messaggio “l’Europa beva un goccio d’acqua”, ma vuole che ne beva tanta. È intervenuto nella politica europea in modo assolutamente inusuale, non solo lodando la Brexit (cioè l’uscita della Gran Bretagna dall’Europa, quindi la rottura dell’Europa), ma attaccando la struttura stessa dell’Unione Europea accusando i tedeschi di stare schiavizzando l’Europa e i non tedeschi di lasciarsi schiavizzare. Questa è un’entrata in scivolone dentro alla politica europea, qualcosa di inaspettato, accompagnata anche da una posizione discutibile (un po’ più sfumata e in questo caso con qualche pentimento) riguardo alla Nato, che prima va male, poi va bene, però gli europei se la devono pagare.
Da questo punto di vista – del mondo e degli Stati Uniti – è indubbiamente una contraddizione il fatto che economicamente l’Europa sia ancora il numero uno nel mondo. Le statistiche non comprendono la Brexit, ma l’uscita della Gran Bretagna non cambia enormemente gli equilibri in gioco: l’Europa ha il prodotto lordo uguale agli Stati Uniti, come produttori industriali siamo i primi al mondo, come esportazioni pure. Con la crisi economica e con il rovesciamento della situazione politica l’Europa passa in una posizione molto più debole rispetto a quella americana.
Analizzando ciò che è successo in Europa, ci si domanda il perché di questa debolezza. La situazione è influenzata dal cambiamento radicale delle strutture e del Governo europeo che abbiamo avuto negli ultimi quindici anni. Sono stato Presidente della Commissione Europea dal 1999 al 2004-2005 e la Commissione era il punto di riferimento della politica europea. Un’osservazione: pensate alla nostra televisione: era la Commissione Europea che dominava i telegiornali sui problemi europei, oggi c’è sempre il Consiglio che rappresenta gli Stati e non la Commissione, che rappresenta l’aspetto supernazionale dell’Europa. Questo perché il potere è effettivamente cambiato. Quando abbiamo costruito l’Euro, la Commissione, l’allargamento, il grande momento di rafforzamento di espressione dell’Europa, i poteri dei Paesi si accodavano, obbedivano alle disposizioni europee. Il potere è ora passato dalla Commissione al Consiglio e quando il potere passa agli Stati nazionali è evidente che quelli più potenti assumano un ruolo maggiore di quanto non avevano prima.
Quando c’è stato l’allargamento per cui 9-10 Paesi sono stati ammessi nell’Unione, il primo maggio del 2004, il concetto di Europa poteva esser riassunto da un episodio che ho vissuto. Oggi si critica l’allargamento, si dice che è stato fatto troppo in fretta, ma se non ci fosse stato oggi la Polonia sarebbe come l’Ucraina. Disciolta l’Unione Sovietica non si poteva lasciare un vuoto in mezzo, bisognava assolutamente riempirlo e l’allargamento ha adempiuto a questo ruolo in un momento di grandissima collaborazione e di lavoro. Per anni sono state messe a confronto le istituzioni di questi Paesi, abbiamo confrontato tutte le regole dei singoli Paesi per adeguarle adagio adagio a quelle europee e farle poi approvare dal Parlamento di quei Paesi. Non è stato un lavoro sporadico, ma una formazione di democrazia. Credo infatti che l’allargamento sia stato nel mondo l’unico caso di esportazione di democrazia riuscito. In uno dei miei viaggi in Romania, un Paese che è diventato membro dell’Unione dopo che avevo finito il mio lavoro, mi trovo a iniziare i negoziati nel Parlamento rumeno che era entusiasta dell’entrata in Europa. Ogni partito fa il suo discorso e poi si alza un omone con la barba, grande, alto e si definisce membro della minoranza ungherese del Parlamento rumeno (questo per dirvi la complicazione dei problemi), che tiene un meraviglioso discorso in favore dell’Europa. Io gli domando il motivo di tanto calore; e lui mi risponde così: “Guardi, mio nonno è stato ucciso perché membro di una minoranza, mio padre mandato in esilio perché membro di una minoranza, io voglio entrare in Europa perché l’Europa è un’unione di minoranze”. È una definizione magnifica!
Ora è cambiato tutto, passando al Consiglio non è più un’unione di minoranze e, soprattutto, all’interno dei Paesi europei sono cambiati i poteri. A quei tempi erano tre i Paesi più forti degli altri: Gran Bretagna, Francia, Germania, seguiti da Italia, Spagna e Polonia. La Francia ha perduto enormemente potere sia economico che politico con tutte le tensioni e i problemi che la attanagliano, la Gran Bretagna si è sostanzialmente suicidata.
Quando ero alla Commissione Europea pensavo di entrare in un luogo comandato dalla burocrazia francotedesca e ho trovato che invece la burocrazia più forte era quella britannica; questo prima di tutto perché sono bravissimi, in secondo luogo perché mentre con gli italiani, coi tedeschi, coi francesi potevo sapere immediatamente se un funzionario era socialista o democristiano, con gli inglesi tutt’ora (anche dei miei più stretti collaboratori) non so nulla, sono figli della Regina e basta. Questo dà loro una forza politica enorme, ma nel momento in cui la Gran Bretagna tre anni fa ha annunciato il referendum, tutti i Paesi che si equilibravano tra Germania, Francia e Gran Bretagna sono finiti sotto l’ombrello tedesco. L’Europa oggi è sotto l’ombrello tedesco non per i vizi né per le virtù, ma perché la Germania è forte, perché ha avuto continuità di Governo, perché ha saputo tenere il Paese unito.
Quindi non sto demolendo l’Europa, ma semplicemente constatandone la diversità rispetto a qualche anno fa. Pensiamo al fattore più importante di tutti del caso greco: non è stato affrontato in un rapporto tra Bruxelles e Atene ma tra Berlino e Atene. Questo è molto significativo per campire i cambiamenti, ma è stato possibile perché – e non intendo in alcun modo giustificare la Grecia – Francia e Germania sotto presidenza italiana anni prima negarono alla Commissione il diritto di essere il “guardiano dei conti” e non vollero nemmeno che fosse costituita una Corte dei Conti europea per controllare i bilanci. Gli altri Paesi ne hanno approfittato e la Grecia ha esagerato nell’approfittarne, falsando i bilanci come non mai. Ad ogni modo, si trattava di un problema grave ma non gravissimo perché in Grecia (il 2% del prodotto lordo europeo) con 30 miliardi di euro si sarebbero messe le cose posto, ma – e qui veniamo ad un altro grande problema di evoluzione della democrazia – c’erano tre mesi dopo le elezioni in una regione importantissima della Germania, la Renania Settentrionale-Vestfalia, che è vicina a 17 milioni di abitanti (per l’Italia sarebbe come le elezioni in Lombardia) e la Cancelliera non voleva che gli elettori interpretassero come debolezza un aiuto alla Grecia. L’intervento è stato realizzato tre mesi dopo le elezioni ma i 30 miliardi erano diventati 300, perché nel frattempo la speculazione aveva fatto il suo mestiere. Ecco come il passaggio da questi fatti nazionali porta evidentemente ad una divisione crescente tra i Paesi europei e ad una divisione di cui si approfittano tutti, partendo dall’America, per intervenire e picchiare sulla debolezza e sulla divisione europea. Qui vi è la trasformazione, l’Europa è diventata debole non tanto perché sia stato un errore fare l’Euro o l’allargamento, ma perché è stato fatto a metà e un pane cotto a metà è cattivo, non è buono.
In un colloquio con il Cancelliere tedesco Helmut Kohl dicevo che per fare l’Euro era necessario costruire la solidarietà finanziaria e le regole bancarie insieme. Mi ricordo la sua risposta, politicamente molto saggia: “I tedeschi non vogliono l’euro perché sono troppo legati al marco; io voglio l’euro perché mio fratello è morto in guerra, voglio una Germania europea e non un’Europa germanica”. Quando vado a parlare di Europa ai giovani e parlo di pace, non importa niente a nessuno perché ritengono che sia garantita. Occorre invece spiegare che dall’Impero romano in poi non ci sono mai state tre generazioni senza guerra. I nostri paesi e le nostre città sono pieni di monumenti ai caduti e adesso non ne abbiamo più, ma la memoria storica è debolissima di fronte alla vita, per cui il concetto di pace, il concetto di solidarietà va rinnovato ogni giorno. Negli ultimi anni non l’abbiamo rinnovato; capite quindi quella che è la debolezza politica dell’Europa? Le nuove generazioni sono estranee a questi problemi perché non li hanno vissuti.
Le politiche nazionali prevalgano sulle politiche europee, abbiamo un Europa che non riesce a prendere le decisioni che prenderebbe se gli Stati fossero solidali. Ad esempio, parliamo dei rapporti con la Russia. È un discorso estremamente semplice: avviene la guerra in Ucraina, la tensione di Crimea, l’America impone sanzioni e l’Europa la segue con una sola differenza; l’America non è affatto danneggiata – o lo è minimamente – perché i suoi rapporti commerciali con la Russia sono pochi e perché hanno costruito le sanzioni con alcune eccezioni. Poi, improvvisamente, Trump sostiene di volere un rapporto con la Russia; questo è un problema perché è chiaro che un’Europa che fa la propria politica, toglie le sanzioni e si mette al sicuro è assolutamente impensabile. Per cui noi abbiamo le sanzioni che sono state imposte dagli americani, abbiamo obbedito – e credo che l’obbedienza ad un’alleanza sia un fatto positivo, doveroso –, ma l’alleato tutto d’un tratto ha deciso di sposarsi con la Russia e noi stiamo qui a guardare il matrimonio.
Quando si è divisi in questo modo diventa difficilissimo fare una politica che convenga a tutti e sulla separazione, sulle divisioni all’interno dell’Europa ci hanno giocato tutti trasformando via via la grande forza europea in debolezza. Siccome dobbiamo guardare al futuro, penso che se questa provocazione di Trump potesse portare ad una maggiore unità, potrebbe anche essere positiva.
L’altro giorno la Cancelliera tedesca Angela Merkel ha parlato di un’Europa a più velocità aprendo un dibattito. Cosa vuol dire un’Europa a più velocità? È una proposta che era stata fatta già qualche anno fa, che io stesso avevo condiviso. Vuol dire che non avendo più l’energia per far convergere tutti assieme in un progetto condiviso all’unanimità – perché l’unanimità è la regola europea -, allora su alcuni punti particolari si possa fare un passo in avanti solo in alcuni, purché siano almeno 10 Paesi e purché la porta sia aperta a tutti.
Intendo dire che se si vuole fare una politica della circolazione della mano d’opera più aperta oppure delle collaborazioni sui temi tecnologici, dieci Paesi possono mettersi d’accordo e andare avanti. Non è un modo perfetto di far procedere l’Europa ma è il modo realistico quando l’unanimità diventa difficile.
C’è un secondo concetto di più velocità, cioè l’Europa del nord che va forte e l’Europa del sud che va adagio. Nell’opinione pubblica tedesca c’è anche chi la pensa in questo modo, ma non nel governo. Interpreto la posizione della Merkel come una posizione che si può definire “positiva” e in cosa può e in che cosa dovrebbe concretizzarsi in futuro il concetto di più velocità? Prima di tutto la cosa più semplice sarebbe l’esercito europeo (senza aumentare subito le spese militari perché i nostri bilanci non lo sopporterebbero), mettere insieme le forze militari esistenti per avere una forza molto maggiore nel mondo. In pochi sanno che, nella guerra di Libia, Francia e Germania non sarebbero state in grado di battere Gheddafi se non ci fosse stato un massiccio aiuto americano sia nel rifornire le munizioni sia nelle telecomunicazioni. Nell’esercito europeo in Libia è successo ciò che accadde all’esercito belga della Prima guerra mondiale in cui gli ufficiali parlavano francese, i soldati fiammingo e non si capiva assolutamente niente.
Tanti altri campi possono dare l’occasione di una reazione europea a questo cambiamento improvviso e imprevisto della politica americana. C’è qualcosa in movimento e mi auguro che possa sortire risultati positivi, perché nella globalizzazione di oggi i Paesi europei non contano niente di fronte alle grandi potenze mondiali. Mi viene in mente una vecchia barzelletta che si usava negli anni ‘60: “L’esercito Svizzero ha invaso la Cina, Presidente Mao”, e il Presidente Mao rispondeva: “In che albergo sono?”
Una cosa che dico sempre agli studenti per far capire che cos’è il mondo di oggi (anche all’estero fa impressione), è che gli Stati italiani nel Rinascimento erano davvero i primi in tutto, e non è retorica… Nelle armi, nella tecnologia di allora che era l’ottica, nella finanza, nell’arte, a Venezia nei traffici ecc. Poi è venuta la prima globalizzazione: la scoperta dell’America! Bisognava fare delle caravelle più grandi e nessun arsenale italiano era capace di farle, invece i galeoni li facevano solo gli spagnoli, gli inglesi, i francesi.
Adesso è venuta la seconda globalizzazione che comprende tutto il mondo. Cosa sono i galeoni nuovi? Google, Apple sono i giganti, le reti che avvolgono il mondo e non c’è nulla di europeo, sono americane e cinesi. In Italia Amazon sta ormai prendendo tutto il mercato dei libri e sta andando poi in altri settori, ma potrei moltiplicare questi esempi perché la dimensione di oggi è diversa e neanche la grande Germania può avere un ruolo in questo mondo globalizzato. Questo è il grande problema che abbiamo di fronte, senza affrontarlo rimarremo evidentemente schiavi o perlomeno di secondo rango. Intelligenti, bravi, simpatici, con delle grandi raffinatezze tecniche ma senza dire una parola nel grande contesto mondiale. Per questo parlo del bisogno di Europa che esiste in modo assolutamente prioritario.
Ho fatto un discorso che non ha nulla a che fare con la retorica ma con i problemi che abbiamo di fronte per le nuove generazioni. Certo che è un processo difficilissimo, anche perché abbiamo dietro una storia complessa. Quando ci fu l’allargamento mi trovai di fronte a dei problemi impressionanti: nell’Unione Europea in Commissione ci sono solo tre lingue di lavoro: due ufficiali, francese e inglese, poi il tedesco. Quando entravo in Commissione non pronunciavo una sola una parola di italiano (mentre in Parlamento, che è il luogo dell’identità nazionale, parlavo solo italiano), ma questo significa che servono degli interpreti Il numero degli interpreti è pari al numero delle lingue, quindi 22 lingue. Adottammo quindi il cosiddetto “sistema sovietico”: nelle riunioni dell’Unione Sovietica c’era la lingua Pivot (cioè dal kazako al russo, dal russo all’ucraino) e adesso in Europa abbiamo questa necessità, gli interpreti hanno la lingua Pivot che di solito è l’inglese ma potrebbe essere anche il maltese, quindi il parlamentare maltese parla maltese anche se a Malta non parla mai maltese e questo viene tradotto in inglese e dall’inglese allo svedese o all’italiano ecc. Evidentemente ci troviamo di fronte a queste difficoltà, perché nasciamo da una storia di tensioni, di liti, di guerre, ma con queste grandi tradizioni comuni che ha avuto l’Europa. Il cosiddetto “stato sociale” un minimo di decenza e di assicurazione per tutti lo ha avuto solo per l’Europa. Nel disgraziato secolo scorso con le guerre mondiali, l’Europa si può vantare dello stato sociale, che è stata la più grande invenzione di quegli anni e che non esiste in nessun altra parte del mondo.
La lotta che ha fatto Obama per estendere la salute è impressionante, in Cina solo adesso si trovano di fronte al problema della sanità assicurata a tutti i cittadini. Negli ultimi anni ho insegnato a Shanghai e mi sono trovato di fronte ad alcuni miei colleghi universitari che sostenevano che la salute fosse un bene come gli altri: chi ha i soldi la paga, chi non li ha non la paga.
Questo è il mondo con cui l’Europa si confronta, abbiamo alle nostre spalle una seria innovazione sociale, abbiamo una preoccupazione che altri continenti non hanno avuto, una cultura di questo tipo, ma con la disunione non siamo capaci di metterla in pratica e di tradurla in linea politica. Questa è la situazione in cui ci troviamo, il salto in avanti sarebbe cercare una politica comune anche con i rimedi parziali che sono le cooperazioni rafforzate, che sono l’Europa a più velocità, proprio perché dobbiamo avere questo grande obiettivo senza il quale non vi è la sopravvivenza. Ecco il nostro problema del futuro, senza risolvere questo noi non riusciremo ad affrontare le difficoltà che stanno mettendo a dura prova tanti Paesi ma soprattutto l’Italia, ossia la politica mediterranea e quella africana.
Il problema dell’immigrazione ci è scoppiato addosso adesso ma dura da moltissimo tempo e, in termini quantitativi, prima della crisi non era diverso da oggi. La grande diversità è che negli ultimi anni per effetto delle due guerre – di Siria e di Libia – quest’immigrazione è diventata del tutto incontrollata e ha portato paura. Voglio essere molto chiaro: d’immigrazione l’Europa ne ha bisogno, ci sono 4 grandi Paesi che sono in sfacelo demografico: la Polonia, la Germania, la Spagna, l’Italia… Si salvano la Francia e la Gran Bretagna. L’Italia entro la metà del secolo perderà 4-5 milioni di abitanti e la Germania il doppio. L’età mediana italiana è di 47 anni. Di fronte a noi abbiamo nell’Africa sub-sahariana un età mediana che è di 17 anni, metà degli abitanti del Niger, del Ciad, della Nigeria hanno meno di diciassette anni. Di fronte a questo fatto l’immigrazione è un’assoluta necessità, con i problemi che comporta ma anche con la chiarezza che si vanno a toccare due mercati del lavoro assolutamente diversi. I nostri boschi se non li tagliano i bosniaci o gli abitanti dell’ex-Jugoslavia, i nostri cittadini non li tagliano. Si pensi alla mungitura delle mucche alla mattina, il mio Parmigiano Reggiano se non ci fossero i tunisini e i marocchini non si potrebbe più mangiare perché alle 3 di mattina non si alza più nessuno. Abbiamo queste grandi contraddizioni all’interno della nostra società: da un lato la paura e dall’altro questa necessità. I tedeschi sono riusciti a fare un patto con la Turchia che gli ha chiuso quasi tutto il flusso proveniente dalla Siria, noi invece abbiamo un flusso completamente aperto. Quante volte Gheddafi mi ha minacciato di mandarmi i barconi di migranti, lo faceva sempre! Però si riusciva a trattare, lui requisiva un po’ di pescatori, io gli telefonavo e tutto sommato tra una democrazia e uno stato dittatoriale c’erano elementi di convivenza. La guerra ha fatto finire tutto e finché non cesserà il problema non sarà risolto!
Naturalmente la fine della guerra è condizione necessaria ma non sufficiente, perché è chiaro che occorre una politica di sviluppo dell’Africa e quindi un impegno europeo per la rinascita dell’Africa. L’Africa è oggi in una condizione storica un po’ meno tragica del passato, ma si tratta comunque di una condizione drammatica. In ogni caso, la percentuale del prodotto lordo africano oggi è la stessa del 1980 (c’è stato prima un peggioramento, poi un leggero miglioramento), ma siamo ancora in una situazione difficile. Occorre quindi un grande sforzo collettivo di investimenti in Africa, che può essere solo europeo. Finché c’è stato il problema dell’allargamento, cioè di mettere al sicuro le aree del nord, c’è stata una solidarietà (anche italiana), poi quando si è proposto di prendere accordi con i Paesi africani per lo sviluppo le cose hanno iniziato a complicarsi e non si è giunti a una conclusione.
Le proposte concrete erano realizzare una banca del Mediterraneo con metà dirigenti del nord e metà del sud per gli investimenti comuni e una che non costava niente: realizzare le università miste. Una sede universitaria a Catania, una a Tripoli, una a Barcellona e una a Marrakech con metà professori del nord e metà del sud, metà studenti del nord e metà del sud, due anni di studi al nord e due al sud. Questa proposta è del 2003, e pensate alle Primavera araba se ci fossero stati questi rapporti di cooperazione tra nord e sud! Sarebbe stata tutta un’altra cosa, alcune migliaia di giovani avrebbero portato dialogo e comprensione.
Un altro grande progetto era il cosiddetto “anello degli amici”. L’Unione Europea è europea, l’unico punto interrogativo poteva essere la Turchia – altro capitolo interessante – perché quando cominciarono le negoziazioni per averla come membro tutti i Paesi furono d’accordo. Fu proposto nel ’99, improvvisamente, da Chirac, quando eravamo in Finlandia a un Consiglio Europeo. Si diceva che bisognasse cominciare i negoziati con la Turchia, tutti erano concordi esclusa l’Austria che, spinta dalla memoria, ricordava l’assedio di Vienna. Ad ogni modo cominciarono i negoziati, poi Chirac tornò in Francia e si accorse che i francesi erano contrari e, da buon politico, iniziò a parlare della necessità di un referendum popolare prima di decidere le sorti legate all’adesione della Turchia. Successivamente è avvenuta una complicazione storica: la Turchia è diventata una potenza regionale e, mentre prima era l’Europa che rallentava i negoziati, successivamente la Turchia si rivelò in inadatta ad essere membro di una Unione Europea visto che cambiò la sua politica con Israele, con la Russia e si rivelò del tutto autonoma per quello che riguardava la politica economica.
Con la proposta di costruire il cosiddetto “anello degli amici” s’intendeva che tutti i Paesi intorno all’Europa dalla Bielorussia sino ad Israele potessero stabilire con l’Europa dei negoziati su singoli capitoli: sulla tecnologia, sugli scambi culturali o commerciali, doganali, ecc. Su questo progetto i Paesi del Nord si sono opposti perché c’è una diversa sensibilità per il Mediterraneo. Sto insistendo su questi aspetti perché l’Italia è Paese del Mediterraneo e, se non sviluppiamo questo, anche il nostro Mezzogiorno difficilmente può fare passi in avanti. Questo discorso sul Mediterraneo è vitale per aiutare la nostra sopravvivenza, ma naturalmente si apre un altro grande problema perché la nostra politica non è stata capace di interpretare la nuova centralità del Mediterraneo. Adesso la Cina ha comprato metà del Pireo (per darvi un’idea dello spezzettamento degli interessi), c’è un dibattito in corso (poco discusso in Italia) perché i cinesi stanno costruendo una ferrovia dal Pireo ad Atene, alta velocità fino a Budapest, per poi andare da Vienna fino ai mercati del nord, di modo che le navi cinesi risparmino cinque giorni di circumnavigazione dell’Europa per arrivare ai grandi porti del nord. Questo è il mestiere nostro! Questa è la vocazione dei porti dell’Alto Adriatico e dell’Alto Tirreno ma abbiamo le attività portuali che si perdono in scaramucce: Venezia contro Trieste, Genova contro La Spezia ecc. Morale della favola: c’è una crescita impetuosa delle nuove città del Mediterraneo, perché il Mediterraneo centro del mondo con la scoperta dell’America vi è ritornato con il boom asiatico, la via della Seta e questo grande progetto cinese di legami con l’Europa, nei cui confronti siamo in questo momento estranei. Ecco perché il problema del mescolarci a una politica europea diventa essenziale soprattutto per l’Italia, che è un Paese periferico. Queste sono le linee su cui riflettere per il futuro, una speranza c’è, ma naturalmente tutto è condizionato dai cambiamenti politici di quest’anno. Ci sono tre elezioni importantissime, forse una quarta che è quella italiana, ma l’Italia ha la caratteristica di lasciare sempre la suspense per cui non sappiamo se effettivamente ci sarà. Abbiamo appena avuto le elezioni olandesi, in maggio ci saranno le francesi e in settembre le tedesche.
Credo che quest’anno non possa essere di grandi decisioni perché gli anni elettorali non lo sono mai, ma possiamo avere dei cambiamenti positivi come estremamente negativi come, ad esempio, in caso della vittoria di Le Pen in Francia. Questi partiti che sono contro l’establishment diventano fortissimi quando perdono le radici biologiche: Le Pen padre arrivava al 14-15% quando era recepito come un partito di destra assoluto, la figlia che ha sdoganato questa idea del partito prende anche i voti degli operai di Marsiglia e scatta dal 15 al 30%. La vittoria di Trump in America deriva da questo, dall’aver fatto un discorso anti-establishment (proprio lui che era simbolo dell’establishment) in modo da apparire come il difensore del popolo e così avere un’ampiezza di orizzonti. Si possono capire in questo modo anche i limiti della Lega Nord rispetto a Grillo, mi sono spesso chiesto a cosa fosse dovuta questa rapida espansione del Movimento 5 Stelle. Si tratta di anti-establishment senza alcun ostacolo ideologico, è opposizione pura senza dover minimamente pensare al futuro perché a guidarli è la tensione contro l’establishment.
Quest’anno, con queste elezioni, abbiamo anche una possibilità dell’affermazione di leader filo-europei in Francia, ad esempio Macron è l’unico che sta facendo la campagna elettorale con l’Europa in prima vista. Addirittura ha assunto quello che era il collega più vicino a Padoa Schioppa il professor Pisani Ferry. In Germania è probabile che vinca la Merkel, ma certamente si sta rafforzando il Partito socialista con Schulz, che era il Presidente del Parlamento Europeo ed è certamente più filo-europeo della Merkel. Vi sono dunque anche delle evoluzioni favorevoli e la Brexit, che di per sé è un danno per l’Europa, può anche essere un vantaggio nel senso di lasciare maggiore unità ai Paesi europei.
Quando parlavo con il ministro degli Esteri del Partito comunista cinese, lui mi chiedeva come facessimo, in Europa, a gestire le grandi problematiche essendo sempre sotto elezioni: “Avete le elezioni comunali, provinciali, regionali, nazionali, europee”. Ogni piccola elezione è un’elezione nazionale, un elezione comunale in un Comune medio-grande è letta come un test nazionale che condiziona la vita e l’attività del Governo. Per questo abbreviamo sempre più il nostro orizzonte politico mentre i problemi sono sempre più “a lungo raggio”. La scuola, la tecnologia, la sanità, sono problemi che hanno bisogno di anni per essere risolti. Ecco allora l’altra grande contraddizione: ci vogliono dei leaders che si mettano anche a rischio, che facciano capire alla gente che per risolvere i problemi di lungo periodo bisogna affrontare anche i rischi elettorali con il senso della verità, non con l’accorciamento degli orizzonti, non con il compiacere i problemi a breve sapendo benissimo che la soluzione non è a breve. Queste sono le due contraddizioni della nostra democrazia: il discorso sulle autorità e la necessità di allungare le nostre energie senza guardare solo all’elezione che viene il mese dopo. Sono i problemi che condizionano la forza dell’Europa che è rimasta il grande pilastro democratico del mondo e di questo dobbiamo essere assolutamente orgogliosi.
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 21.2.2017 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura e della Fondazione Calzari Trebeschi.