Brescia, Via Don Giacomo Vender 59
QUI ABITAVA
GUSTAVO MORELLI
NATO 1893
ARRESTATO COME POLITICO
DEPORTATO
DACHAU, MAJDANEK
ASSASSINATO 19.2.1944
Stasera per poco non perdevo l’ultima traccia che di lui mi è rimasta. La candela che accendo ogni sera davanti alla sua foto ha causato un piccolo incendio, che ha distrutto il comodino e tutto ciò che conteneva. Pochi sapevano che Gustavo insieme alla foto mi aveva inviato una lettera che conservavo gelosamente in uno scomparto nascosto del cassetto. Quella lettera è l’ultima testimonianza di ciò che gli è realmente successo. Gustavo Morelli, mio marito, nel corso della sua vita è stato arrestato molto spesso per il suo carattere ribelle, ma una sera dei primi di ottobre del 1943 avvenne l’arresto che lo portò via per sempre da me e dalle nostre tre figlie. Da quel giorno ho ricevuto solo due notizie: una sua lettera e la dichiarazione di morte avvenuta il 19 febbraio del 1944 per causa incerta. Rileggo la sua lettera ogni sera prima di andare a dormire per mantenere vivo il suo ricordo.
Gustavo Morelli è nato il 18 aprile 1893 a Brescia nella zona dei Ronchi da Angelo e Angela Sguassi. Aveva due fratelli e una sorella, rimasero orfani in giovane età e vennero affidati a un tutore, che si occupò della loro educazione. Gustavo venne mandato in un collegio in Franciacorta, dove fece conoscenza di Severina Omodei, con la quale in seguito si sarebbe sposato e avrebbe creato una famiglia. Durante la prima guerra mondiale fu chiamato alle armi, ma non si presentò e per questo venne arrestato e incarcerato. Il 14 gennaio 1916 venne chiamato una seconda volta alle armi e l’1 febbraio fu arruolato in fanteria. Il 6 giugno 1916 disertò nuovamente; per questo fu arrestato 5 giorni dopo e condannato a 3 anni di reclusione.
Gustavo disertò altre due volte: il 19 ottobre 1916 e il 27 marzo 1917; venne dunque incarcerato e condannato il 5 aprile 1917, con il cumulo delle pene precedenti, a 10 anni di reclusione a Verona.
Uscito dal carcere, grazie all’amnistia concessa al termine della guerra, tornò a casa riabbracciando la moglie e le figlie.
Gli anni successivi della sua vita si svolsero nella semplicità e nel rispetto delle regole. Fu un periodo di breve durata. Nel 1931 il quartiere dove abitava venne sgombrato per far posto ai lavori di costruzione della nuova Piazza della Vittoria. Gustavo e il vicinato, costretti a trasferirsi in una zona periferica sulle sponde del Mella, occuparono un’area degradata dove erano state allestite alcune baracche inadatte ad ospitare le famiglie. La zona, per questo motivo, venne denominata la büsa degli sbandi. Nonostante la difficile situazione, Gustavo si impegnò al massimo per rendere accettabile la loro condizione di vita, trovando un lavoro come lucidatore di mobili. Durante il periodo fascista, la sua ribellione, per salvaguardare l’incolumità propria e della famiglia, si espresse attraverso piccoli gesti. Per esempio, era solito canticchiare “Bandiera rossa” mentre girava in sella alla sua amata e scricchiolante bicicletta.
La sua bontà e generosità furono per lui causa di disgrazia: una sera durante il suo rientro a casa, Gustavo fu fermato da un uomo alla guida di un furgone, che gli chiese per conto della Croce Bianca di recuperare alcune coperte da consegnare poi ai malati. La richiesta era in realtà un inganno per poterlo accusare di furto.Venne così strappato definitivamente alla sua famiglia e, dopo vari trasferimenti da un carcere all’altro, il 13 ottobre 1943 fu deportato nel campo di Dachau e registrato nella categoria “fermo precauzionale”. Successivamente l’11 gennaio del 1944 fu trasferito a KL Lublin-Majdanek. Non sopravvisse abbastanza per poter vedere la fine della guerra, poiché morì il 19 febbraio 1944, per cause sconosciute.
Gustavo viene ricordato ancora oggi dai suoi familiari e da tutti coloro che l’hanno conosciuto come un uomo pacato e buono, ma allo stesso tempo deciso e determinato a difendere le proprie idee.
A cura degli studenti del Liceo delle Scienze Umane “Fabrizio De Andrè”, classe 4 E coordinati dalla professoressa Paola Antonioli
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«Potete immaginare le grida, gli insulti, le bestemmie, i ricatti, le minacce? Potete immaginare il dolore delle piaghe causate dagli zoccoli di legno, dopo una giornata intera di lavoro?
No, non lo potete immaginare perché solo chi l’ha provato come me sulla propria pelle ne può essere consapevole.
Il mio nome è Gustavo Morelli, sono nato il 18 aprile 1893 a Brescia. Ho frequentato un collegio in Franciacorta; qui conobbi la mia futura moglie, Severina, che mi diede tre figlie: Gaetana, Anita e Francesca.
Vivevamo nelle Pescherie, dove oggi sorge Piazza Vittoria. Eravamo spensierati, fino a quando il regime decise abbattere il quartiere per costruire la piazza. Fummo sfrattati e ci fu assegnato un alloggio sulle sponde del Mella. Venivamo chiamati “sbandati”, costretti a vivere tra il timore dello straripamento del fiume e i pregiudizi dei nostri concittadini.
Il mio arresto avvenne una sera: mi avevano chiesto di prelevare presso la Croce Bianca lenzuola e cuscini. Io ingenuamente caddi in una trappola, perché la milizia fascista mi arrestò e mi portò nel carcere del Castello e in seguito in quello di Sulmona.
All’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943 cercammo di fuggire. Io e i miei compagni provammo ad abbattere il cancello principale, ma le sbarre non cedettero sotto i nostri colpi.
Poi fummo deportati. Le porte del vagone si chiusero di colpo e con esse anche le mie speranze di fuga. Ero seduto in un vagone con un centinaio di altri uomini, jugoslavi, italiani, greci.
Avevamo freddo, sete e fame, eravamo sfiniti e molti di noi erano malati. Dopo tre lunghi, dolorosi giorni di viaggio, eravamo fermi alla stazione di Roma. Urlammo che eravamo assetati e affamati, così una ragazza raggruppò qualche bambino dicendo: “Questi uomini sono assetati, forza, prendete delle bacinelle, riempitele, aiutiamoli”.I soldati si infuriarono e decisero di ripartire immediatamente, non lasciandoci il tempo di bere a sufficienza. Pochi giorni dopo arrivammo a Dachau.
Mentre camminavamo, sentivo delle voci che dicevano: “Italiani! Italiani!”, mentre passavamo. Ci sputavano addosso, ci davano pugni e calci. “Cosa abbiamo fatto di male noi italiani?” pensai tra me e me.
Mi schedarono: “Capelli neri e lisci, occhi castani, naso regolare, colorito pallido e dentatura sana. Professione: lucidatore”. Ci rasarono la testa e noi italiani fummo costretti a subire la Lagerstrasse, cioè la rasatura della parte centrale della testa in segno di disprezzo verso di noi, considerati traditori dai tedeschi. Il mio numero di matricola, non lo dimenticherò mai, era 56648, la sigla SCH. ITL. Non capivo assolutamente cosa essa volesse dire.
I mesi passavano lentamente nei lavori forzati, la mia forza fisica diminuiva sempre di più. Avevo ormai quasi cinquant’anni e agli occhi delle SS apparivo come un vecchio straccio inutile.
Era un gelido giorno di gennaio, quando venni convocato per un Transport: questa parola mi era familiare, orrendamente familiare. Sapevo che sarei stato trasferito in un altro lager, poiché ero ritenuto ormai inabile per qualsiasi lavoro. I Kapos dicevano: “schlechter Transport”, cattivo trasferimento. Quel giorno eravamo quasi mille uomini anziani e malati, fra i quali cento italiani, con destinazione Majdanek, Baracca numero 22 e un altro numero di matricola: 2973.
I ricordi si fanno sempre più sbiaditi. Lì a Majdanek le baracche erano vecchie scuderie per cavalli. Una parola che sentivo spesso pronunciare nei nostri confronti era Gamlami: scoprii che era un termine dispregiativo per sottolineare la nostra debolezza. Io ormai mi sentivo sempre più fragile, ebbi l’impressione, in un gelido giorno di febbraio, che il mio corpo si stesse distaccando dalla mia anima.
Un’ultima immagine mi apparve dinanzi agli occhi: sono seduto stremato nella mia baracca e mi sembra di scorgere le mie bambine, che giocano con le bambole, che avevo regalato loro prima della partenza anche se erano molto care. Mia moglie era contraria, in tempo di guerra avrebbe preferito mettere in tavola del cibo in più, ma la gioia delle mie figlie valeva più di qualsiasi altra cosa.
Sentii un rumore e poi nulla, il buio più assoluto».
A cura del gruppo di studio Pietre d’Inciampo della Scuola secondaria di Primo Grado “ Caduti di Piazza Loggia” di Ghedi coordinato dalle professoresse Chiara Gallizioli e Stefania Chiara.