«Aristotele, a chi gli domandava dove avesse imparato tanto, rispondeva: – Nelle cose, perché non possono mentire» (Tommaso d’Aquino)
Personalità e opere
Nato a Stagira nel 384 a.C., Aristotele venne ancora adolescente in Atene e fu per un ventennio, fino a 37 anni, discepolo di Platone.
Alla morte del maestro, quando l’Accademia passò sotto la guida di Speusippo, nipote di Platone, Aristotele si staccò dalla scuola platonica.
Nel 343 Filippo di Macedonia invitò il filosofo a curare l’educazione di Alessandro che allora aveva tredici anni e Aristotele, poiché attribuiva grande importanza all’educazione dei futuri regnanti, accettò.
Probabilmente fu durante il soggiorno presso Alessandro, a Pella, che Aristotele diresse la sua attenzione in modo sempre più sistematico ai problemi della filosofia politica.
Nel 340 Alessandro cessò di essere suo discepolo e divenne reggente per il padre.
I rapporti tra il filosofo e il conquistatore, mai intimi, si mantennero formalmente cordiali, ma Aristotele nella sua Politica critica apertamente il militarismo e l’imperialismo.
Ben più vasta e feconda fu la sua azione di maestro in Atene, dove verso il 335 fondò la sua scuola, il Liceo, fuori della città, affittando – non poteva comperarli, essendo straniero – alcuni edifici siti in un boschetto consacrato ad Apollo Licio, luogo prediletto da Socrate per le sue passeggiate. La scuola fu detta anche «peripatetica» dall’ampio viale (peripatos), ove ogni mattina il maestro e i discepoli solevano disputare, all’aperto, tra gli alberi, sulle più importanti questioni filosofiche, ad esempio di metafisica e di logica.
Gli appunti dei vari corsi riservati agli scolari, variamente redatti e rifusi, costituiscono quei capolavori che hanno segnato per sempre il cammino della cultura (scritti acroamatici, che raccoglievano le cose ascoltate, le lezioni; sono detti anche esoterici, cioè per gli intimi, per un numero ristretto di persone, di iniziati). Questi scritti furono smarriti per un secolo e mezzo, riscoperti nel 100 a.C. e venduti ad Apollicone di Teo. Nell’86 a. C. passarono nelle mani di Silla.
Gli scritti aristotelici si distinguono in quattro classi principali:
Il pomeriggio o la sera si trattavano argomenti accessibili a un pubblico più vasto e gli scritti che raccoglievano questa attività del maestro, se resero Aristotele celebre nell’antichità, oggi sono quasi del tutto smarriti (scritti essoterici).
Il Liceo comprendeva una biblioteca e un museo di storia naturale. I vari membri dirigevano a turno la scuola per dieci giorni e ne difendevano le tesi contro chiunque si presentasse a discuterle.
La ricerca scientifica e storica (si pensi agli apporti in campo biologico e alla collezione di Costituzioni) fu fortemente sviluppata.
LA LOGICA
Ogni processo dimostrativo è possibile in quanto ogni uomo intuisce intellettualmente i primi principi che condizionano l’apprendimento e la dimostrazione. La loro conoscenza non richiede dimostrazioni, ma è fondamento di ogni sapere, di ogni conoscenza e ragionamento.
«Noi ragioniamo non partendo da essi, ma in conformità ad essi» (Analitici Posteriori, II, 72 a 16). Il principio più certo e più universale di tutti è il principio di non contraddizione: «è impossibile affermare o negare una cosa, nello stesso tempo e sotto lo stesso aspetto, o attribuire ad una cosa due predicati contraddittori».
Naturalmente il principio di non contraddizione implica che ogni cosa e ogni idea siano sostanzialmente identiche a se stesse (principio d’identità).
Aristotele enuncia anche il principio del terzo escluso: tra i due termini della contraddizione non può esistere un medio, ma è necessario che, di una qualsiasi cosa, la stessa affermazione sia affermata o negata.
Dai principi sopraesposti ne discende un corollario sulle affermazioni aventi come oggetto la totalità: le affermazioni aventi come oggetto la totalità delle cose non possono essere ridotte ad affermazioni di una sola specie, come vogliono alcuni, i quali o ritengono che nulla è vero oppure che tutto è vero. Accade a tutte le affermazioni di questo tipo quel che tutti sanno: che si distruggono da sé. Infatti, chi dice che tutto è vero viene a riconoscere come vera anche la posizione contraria alla sua; e pone pertanto la sua come non vera. E chi afferma che tutto è falso, egli stesso pone nel falso questa sua affermazione.
I supremi principi logici costituiscono le condizioni di ogni dimostrazione, ma non ci danno nessuna verità particolare: hanno un carattere formale.
Socrate aveva praticato consapevolmente l’induzione e la deduzione, Platone aveva accentuato i procedimenti dell’analisi e della sintesi, Aristotele portò a un grado di rigore e di perfezione insuperato lo studio della leggi della ragione e dell’arte di applicarle correttamente nel discorso.
Analizzando le strutture logiche presenti nel discorso, Aristotele individua nel giudizio il primo rapporto logico fondamentale implicito in ogni proposizione.
Il giudizio esprime un rapporto tra soggetto e predicato (termini), ciascuno dei quali esprime a sua volta o implica un concetto. Nei concetti si distingue l’estensione, cioè il numero, la quantità di oggetti a cui il concetto può essere riferito, dalla comprensione, ossia dal complesso delle caratteristiche essenziali, di cui il concetto è sintesi.
Quanto più ricca è la comprensione tanto più limitata è l’estensione; quanto più vasta è l’estensione, tanto più povera è la comprensione.
I concetti sono tra loro subordinati quando l’uno contiene l’altro nella sua comprensione (es. uomo) ed è a sua volta contenuto nell’estensione dell’altro (es. animale); si dicono coordinati, quando sono in egual modo subordinati (vertebrato e invertebrato) a un concetto comune (animale). Si forma così una gerarchia, al sommo della quale ci sono i generi più estesi (categorie), mentre nell’ultimo grado si dispongono i singoli individui.
Le categorie sono i modi speciali sotto i quali l’essere può esistere, sono attributi o concetti logici significanti modi dell’ente reale; sono i supremi predicati degli esseri, le condizioni necessarie a concepire la realtà d’esperienza. Le categorie esprimono ciò che una cosa è, la sua natura, la sua quantità, la qualità, la relazione, il dove, il quando, la posizione, la proprietà, l’azione, la passione.
L’estensione e la comprensione dei concetti permettono di articolare i giudizi nel ragionamento che assume la forma tipica del sillogismo, cioè di «un discorso in cui, poste alcune premesse, ne scaturisce necessariamente una conseguenza, diversa dalle premesse per il fatto stesso che quelle premesse sono poste».
La prima proposizione del sillogismo è un giudizio universale e si chiama premessa maggiore, la seconda è un giudizio di carattere particolare e si chiama premessa minore, la terza è la conclusione, che riconosce nell’individuo particolare una proprietà essenziale della specie.
Se Aristotele ha dato maggior rilievo al sillogismo – che è il più tipico dei processi deduttivi (che va dall’universale al particolare), ma non l’unico – non per questo ha disconosciuto il valore dell’induzione «più chiara per noi, più persuasiva, comune ai più; più intellegibile in termini di sensazione» (Topici, I, 12, 105 a).
L’induzione è la via regale dell’insegnamento, è un processo non tanto di ragionamento, ma di visone diretta, di percezione mediata psicologicamente da una rassegna di casi particolari. Che siano necessari un solo esempio o pochi o molti dipende dall’intelligibilità dell’argomento.
In fondo non c’è comprensione effettiva di una legge generale o di un principio universale che non sia accompagnata da una coscienza percettiva o immaginativa dei particolari che cadono sotto di esso.
«Quando si son persi di vista completamente i particolari, la legge non è più un oggetto di conoscenza genuina, ma una memoria thecnica che può essere rivificata, ossia attualizzata, solo mediante un nuovo contatto con i particolari» (William David Ross, Aristotele, trad. it. Laterza, Bari 1946, p. 256).
Contro il logicismo imperante e la pseudo-scienza in cui sarebbero incappati in futuro i cattivi aristotelici, che si sarebbero a torto appellati alla sua autorità invece di rifarsi al suo esempio, proprio Aristotele ha scritto cose egregie.
Così, per esempio, egli aveva ammonito, con caratteristico buon senso, che «non tutti i problemi, né tutte le tesi valgono la pena di essere discusse» (Topici, I, 11); se un effetto è presente in assenza della sua supposta causa, ciò mostra solamente che la causa supposta non è la causa reale (Analitici secondi, II, 17).
La ricerca è impossibile se la verità è ridotta alla reciproca implicazione di proposizioni nessuna delle quali è conosciuta come vera (Analitici secondi, I, 3); «bisogna far credito all’osservazione piuttosto che alle teorie solo se ciò che esse affermano si accorda con i fatti osservati» (De generatione animalium, 760 b, 30 – 33).
Noi veniamo a conoscere cose che nel senso ordinario della parola non conoscevamo prima.
Come può accadere, si chiede Aristotele?
Vi il passaggio dalla potenza all’atto, ma anche qui si deve precisare «mediante l’azione di qualcosa che è già in atto», perché solo la realtà ontologica di una sorgente costitutiva del pensiero ed essa sola può spiegare l’avanzare del pensiero verso se stesso e verso l’oggetto, nel suo esercizio di funzione, nel quale consiste la sua seconda e più piena attualità.
LA METAFISICA
L’analogia dell’ente
La prima e più importante affermazione metafisica è che l’essere, in forza del suo concetto, non richiede di essere realizzato in un solo modo. L’essere non è mono, ma plurisignificante. L’essere non è omogeneo, univoco, indifferenziato, àplos (semplice) come pensava Parmenide, ma pollacòs (composito), analogico.
L’ente postula di essere pensato in modi radicalmente diversi. Non è tutt’uno avulso dalle diversità secondo lo pseudo concetto che fu teorizzato dall’eleatismo. Esistono esseri diversi e nel concetto di essere sono contenute tutte le diversità appunto perché esse esistono e non sono nulla: le differenze dell’ente non possono dirsi ente.
L’essere non è un attributo che appartenga in senso precisamente uguale a tutto ciò che è, ma appartiene a tutto ciò che è in senso analogico, secondo un rapporto di proporzione. «In ogni categoria dell’essere c’è analogia» (Metafisica, XIV, 6).
Appunto perché analogico l’essere non può considerarsi un genere, e sia pure il genere sommo: il genere, infatti, si predica univocamente delle varie specie. L’analogia dell’ente rende possibile l’indagine metafisica. Si deve riconoscere che la premessa della grande dottrina dell’analogia dell’ente – che permette di salvare i fenomeni, di spiegare razionalmente il movimento e la molteplicità e di risalire a Dio – è posta da Platone nei dialoghi della revisione del sistema.
Contro il dilemma parmenideo («l’essere è, il non essere non è, non si dà qualcosa di mezzo»; ciò che già è non può divenire, «dall’ente nulla può farsi perché esso già è»; l’unico modo possibile secondo il pensiero è l’unità e l’immobilità dell’essere) Platone dimostra che l’essere è e il divenire pure, senza che per questo sia violato il principio di contraddizione. Occorre superare la unilateralità degli eleati e degli eraclitei e lo stesso oggettivismo esagerato e irrelato della prima formulazione dell’idealismo oggettivo.
Il «parricidio di Parmenide», cioè la utilizzazione della ricerca dell’eleate e il procedere al di là dei suoi sconcertanti paradossi è compiuto da Platone, quando nel Sofista dimostra che ogni essere è identico a se stesso e che, proprio a causa della sua particolare determinazione, è diverso da tutti gli altri: infinite pertanto sono le reciproche alterità dell’essere grazie all’essenziale identità dei singoli e al dinamismo del nostro pensiero.
«In ciascuna idea vi è molto essere e infinito non essere», il principio di non contraddizione è vero, ma è vero altresì che l’essere non si attua solo in un modo.
Nel Timeo Platone parla esplicitamente di analogia (31 B, 32 A).
Gli aspetti costitutivi della sostanza
S’è detto: l’essere non è un attributo che appartenga in senso precisamente eguale a tutto ciò che è. C’è però un genere di essere che è nel senso più stretto e più pieno, la sostanza; tutte le altre cose sono semplicemente in virtù del loro stare in qualche relazione con la sostanza (come la qualità della sostanza, le relazioni tra sostanze). E la sostanza in quanto è, è una, è individua perché tutto ciò che è, è uno e tutto ciò che è uno, è.
La sostanza e l’unità sono termini riferibili a significati e realtà diversi e perciò stanno al di sopra della distinzione delle categorie e sono applicabili in ogni categoria. Le categorie diverse dalla sostanza sono per così dire «derivazioni e concomitanti dell’essere».
Di fronte a qualunque esperienza e giudizio si coglie e si usa il concetto di ente; ma indicare in senso proprio l’essere proprio di una realtà significa affermare la sostanza.
«E ora e sempre la ricerca del problema: che cosa è l’essere? equivale a: che cosa è la sostanza?» (Met., VII, I, 1028). La sostanza designa sempre un essere individuale ed uno di numero. Essa è il tode tì, l’hoc quid, la realtà determinata di cui si dice «questo qui», l’essere proprio di ogni realtà.
La sostanza è logicamente anteriore a tutte le categorie: l’essere è primo per il concetto, per la conoscenza, per il tempo:
a) la nozione di sostanza è inclusa necessariamente nella definizione di qualsiasi cosa, perché nessun predicamento può esistere separato dalla sostanza; nel concetto di ogni cosa è inerente quello di sostanza;
b) la sostanza è anteriore per la conoscenza perché allora conosciamo una realtà quando afferriamo ciò che la fa quel che essa è, il «che cosa è», la sua natura essenziale;
c) infine la sostanza è anteriore ad ogni altro principio e condizione necessaria alla concepibilità del reale come tale nel tempo «perché può esistere a sé stante mentre le altre categorie non possono»: ciò non significa che essa possa esistere senza di quelle, ma che le categorie non possono esistere senza la sostanza. La sostanza è tutta quanta la cosa: incluse le qualità, le relazioni e tutto ciò che forma la sua essenza e può esistere a sé.
Vari significati del termine sostanza: la sostanza prima (l’individuo) e la sostanza seconda (la specie).
Il mondo che ci è dato nell’esperienza è un mondo di cose concrete individuali che agiscono e reagiscono l’una sull’altra. Esse sono le sostanze prime.
Contemplandole ci rendiamo conto dei caratteri comuni a molti individui: caratteri altrettanto reali e obiettivi quanto gli individui. Questi caratteri in cui si esplica il divenire delle sostanze individue sono le specie in cui le sostanze prime sussistono.
Le specie in cui sussistono le sostanze prime si dicono sostanze seconde (per esempio: «quel dato uomo» si trova nella specie «uomo»).
Le sostanze seconde – Aristotele l’ha precisato nella polemica contro le forme platoniche – se non sono in alcun modo produzioni della mente, hanno realtà solo in quanto caratteristiche di individui, in quanto segnano i limiti e la direzione del processo del loro sviluppo.
La sostanza è l’essere proprio di una cosa, il suo essere per sè.
Tutto ciò che inerisce alla sostanza come sua determinazione e modificazione, tutto ciò che è in una o di una sostanza si dice accidente.
Esempi:
– Un mal di denti non può esistere senza denti e nervi né un sorriso senza il volto nel quale risplende.
– Nella proposizione «Socrate corre», Socrate è il soggetto del moto e il correre è una realizzazione non necessaria di una potenza del soggetto; ma sarebbe assurdo pensare e affermare che il correre stesso corra.
– Attività specifica del mio essere uomo è pensare e io penso questo o quello e integro e correggo un certo punto di vista con un altro e rifletto; ma il cogitare non sarebbe possibile se non fosse qualcosa del mio essere, se non si radicasse nella realtà sostanziale del mio io.
Materia, forma e sinolo
La sostanza individuale è il soggetto del divenire. Ma quali sono i principi costitutivi della sostanza? Tre, risponde Aristotele, sono gli aspetti costitutivi della sostanza: materia, forma e loro unità (o sinolo).
Quel che muta è la materia, quello in cui si muta è la forma.
Ogni ente che diviene è composto di due elementi dell’essere: un elemento comune a ciò che nasce e a quello dal quale nasce e un secondo elemento, che è diverso nell’essere che nasce e nell’essere che perisce: materia il primo, forma il secondo.
Aristotele desume la terminologia dalla produzione della statua e descrive la composizione della sostanza individuale in sviluppo in analogia al farsi di un’immagine dall’argilla. Prima di divenire «figurata» e di farsi un «leone», l’argilla aveva una forma anche se ad essa non si potrebbe dare un nome.
Che cosa è stato necessario perché dall’argilla potesse farsi un leone?
In primo luogo che essa non fosse un leone, non avesse la forma di leone; secondariamente che essa potesse perdere quella prima forma, che già aveva; in terzo luogo che essa avesse la capacità, la disposizione, la potenza passiva alla forma di leone. L’argilla, che non può mai essere senza una forma determinata, ma solo senza forma denominata, per l’azione dell’artista passa nel leone e costituisce quindi la sua materia.
Il formarsi delle statue da una materia è per noi un processo chiaro per cui le statue appaiono e sono composte da materia e forma: la materia è comune a tutte le statue, la forma è propria di ogni statua.
Di qui giungiamo a stabilire un’analogia atta a farci comprendere il nascere e perire (ciò che non era riuscito a Parmenide, a Eraclito e a Democrito): la materia dalla quale l’ente deriva sta all’ente stesso come l’argilla da modellare sta alla statua.
L’argilla è uno dei termini della mutazione, in se stessa non è una statua, ma è presente in una statua come materia ed è in potenza ad altre statue; così appunto il concetto di materia è quello di dynameinon, cioè di «potenza all’ente», in sé priva di ogni forma (plén àmorfon), indeterminata, ma determinabile. Questa «potenza all’ente» non è dunque totalmente «nulla», ma neppure è un ente nel senso stretto di questa parola.
Accanto a questo principio comune, la materia o potenza all’ente, ciascuno dei termini fra cui avviene il passaggio deve comprendere ancora un principio proprio la cui funzione è di sviluppare, di formare quella potenza in un ente determinato: la forma. Il principio formale del primo ente scompare quando questo «perisce»; quello del secondo ente appare quando questo «nasce», come nell’argilla scompare la forma primitiva per dar luogo alla nuova forma.
La forma è l’essenza specificatrice, il principio di determinazione, l’energia, l’entelechia di una realtà, ciò che realizza il potenziale e lo rende reale e definibile. La forma è l’idea, l’eidos platonica, la struttura ontologica costitutiva di un particolare prodotto della natura o dell’arte; ma qui l’idea platonica è presa immanente a una realtà concreta e individuale. La forma è quel che fa di una cosa quel che essa è.
Che cosa fa di questi mattoni e di queste pietre una casa? Il fatto che sono così disposti da servire come riparo per le persone e per i loro beni. Materia e forma non sono parti, elementi che si addizionano, non sono enti compiuti e opposti, ma due fattori e due principi interdipendenti e dinamici, che si fondono nella realtà della sostanza concreta (fatta eccezione solo per l’anima umana, «forma» spirituale che nel proprio «essere» non dipende dalla materia pur incarnandosi in un corpo).
È un errore concepire la forma o principio di determinazione e di intelligibilità della materia a somiglianza dello spirito umano, come un ente a sé. La sostantificazione della forma materiale fa della forma un ente, un elemento che si trova nella sostanza accanto ai suoi elementi materiali: se così fosse ci occorrerebbe un ulteriore principio strutturale per spiegare come sia unita con i componenti materiali.
È errato pensare che la forma sia prodotta prima e poi unita alla materia, ma l’ente è prodotto e questa produzione è necessariamente accompagnata da una nuova forma. La forma non può esistere per se stessa senza materia, ma è soltanto forma di questa materia. Ciò che esiste è la materia formata, non la forma; così del pari ciò che nasce e perisce è solo e sempre il composto di materia e forma.
Considerata nel dinamismo del divenire la materia è potenza, capacità di determinarsi, di assumere una determinata forma concreta, e la forma è atto che suggella il processo del divenire e ne costituisce la causa finale ed efficiente.
La definizione della sostanza come sinolo di materia e forma esige quindi un’indagine approfondita sulla potenza e l’atto e sulle cause del divenire. La necessità della distinzione fra l’elemento formale e quello materiale del sinolo è costantemente illustrata da Aristotele con l’esempio dell’artefice che dà forma alla materia grezza, sì che al mito platonico del Demiurgo viene sostituita la realtà di quanto opera l’artista umano. Ma poi quest’opera dell’artista umano viene presa come modello di una natura che opera similmente, con la differenza che l’arte è un principio generatore di qualcosa in altro; la natura lo è in se stessa e ha in sé il principio del movimento. In tal modo la forma diventa un principio non solo di intelligibilità, ma anche di causalità nel senso produttivo, efficiente e finale.
Il principio di individuazione
Aristotele insiste sul principio che confuta l’idealismo platonico: «l’individuo è la causa di individui; Peleo è la causa d’Achille, tuo padre di te; l’uomo è la causa dell’uomo in universale, ma non c’è un uomo universale».
Le forme, quantunque reali ed oggettive, non hanno esistenza separata dagli individui: «Di individui consta l’universo» (Fisica, I, 3, 186).
L’individuo è quell’ente «uno in sé e distinto dagli altri», avente un’unica sua esistenza.
Il principio di individuazione è il principio intrinseco dell’individuo, quello che ci dà la ragione della sua individualità.
Per ogni sostanza che non sia pura forma separata (Dio e le intelligenze motrici), ma sinolo di materia e forma – e quindi in primo luogo per l’uomo che è individuo singolare e intelligente – sorge allora il problema se la materia o la forma o ambedue egualmente siano il principio per cui un individuo è individuabile e individuato.
La risposta di Aristotele è oscillante.
Ad esempio, di tutti gli uomini non si può dire che vi sia un’unica forma sostanziale per tutti (perché gli esseri di cui la forma sostanziale è unica per tutti sono una cosa sola). Diremo invece che sono molte e indifferenti? Anche questo è assurdo.
Dunque, né un’unica forma sostanziale, né una molteplicità di forme sostanziali, ma un’unica forma sostanziale che si specifica diversamente nella materia e produce così la molteplicità degli individui. La forma dell’uomo si unisce con un certo genere di carne e di ossa: così che Socrate e Callia, mentre coincidono nella loro forma specifica (sono uomini entrambi), differiscono per il modo particolare di realizzare ciascuno la propria forma individuale. L’essenza dell’individuo include pertanto oltre la forma specifica quelle altre caratteristiche permanenti che sorgono da differenze nella materia di cui sono fatti i differenti individui.
Tenendo conto poi della correlazione di forma e di fine nel sistema di Aristotele dovremo ritenere che il fine di ogni individuo – osserva il Ross – è non quello di raggiungere la perfezione tipica della specie, ma di realizzarla nel modo particolare in cui la sua forma individuale è capace. Altrove Aristotele accentua più chiaramente l’esistenza della forma individuale come distinta da quella specifica poiché le sostanze individuali hanno le stesse cause solo in via analogica: «la tua materia, la tua forma e causa motrice sono differenti dalle mie, benché siano le stesse nella loro descrizione generale» (William David Ross, Aristotele, cit., p. 262).
Analisi del divenire
Ogni divenire si spiega mediante il concorso di quattro cause: materia (sostrato), forma (essenza), motore (causa efficiente), fine (scopo o perché).
La causa materiale è ciò di cui è fatta una cosa (ad esempio il bronzo della statua). Gli ionici pervennero al concetto di causa materiale (per quanto un principio materiale posto al fondo di tutte le cose non spieghi né le cose né se stesso). Ma nella natura è come nell’arte: oltre la materia in cui la statua sarà fatta occorre l’idea ispiratrice, o forma, che dirige l’attività dell’artista verso il fine.
La causa formale è la forma, l’essenza, o se si vuole il modello per gli artefacta. Platone fu colui che per primo diede forte rilievo alla causa formale, facendo dell’eidos la causa stessa delle sostanze.
La causa efficiente è ciò da cui provengono il movimento e il mutamento delle cose. È la potenza attiva che determina i vari gradi di sviluppo dell’ente; è l’energia attualizzatrice dell’artista, è il deliberante che è causa dell’azione come il padre è causa del figlio, e chi muta del mutato.
Una prima confusa intuizione della causa efficiente l’ebbe Empedocle, Anassagora della causa finale. Il fine o perché del divenire ci dice la causa a cui tende un ente al suo sviluppo: ciò a cui si tende per un costitutivo orientamento teleologico, è il bene di ciascuna cosa. Per quanto irriducibili le cause efficienti e finali si radicano nella causa formale sebbene l’agente intervenga con un’azione e il fine con una attrazione.
Il fine, il cui raggiungimento è la perfezione dell’atto, è in un certo senso primo perché muove l’agente.
Tutti gli esseri conosciuti da noi sono sottomessi al divenire, al mutamento. In questo senso non c’è fatto né problema più importante di quello del movimento e appunto la filosofia di Aristotele è essenzialmente un’analisi del divenire e delle sue condizioni metafisiche. Nessuno più chiaramente di Aristotele ne ha scorto il carattere misterioso sotto la sua stessa familiarità.
Ogni moto implica l’essere, perché se non ci fosse nulla, niente potrebbe muoversi: il moto è sempre di qualche cosa che si muove.
D’altra parte cambiare è acquistare o perdere l’essere: per divenire qualcosa bisogna non esserlo stato prima.
Così che muoversi è lo stato di ciò che, pur non essendo il nulla, tuttavia non è pienamente l’essere. Il moto è l’atto di ciò che è in potenza: è atto, ma non è attualità pura perché diviene, e tuttavia la potenzialità tende ad attuarsi progressivamente, perché ciò che è cambia.
Quando si sorpassano così le parole per raggiungere le cose, non si può non vedere che la presenza del moto in un essere è rivelatrice di deficienza di attualità. Il divenire, come tale, non è che un passaggio, cioè passaggio dalla potenza all’atto. Ciò suppone assolutamente, al principio stesso del divenire, un essere in atto, diversamente il divenire rimarrebbe sospeso nel vuoto e procederebbe dal nulla.
È dunque impossibile porre il divenire all’origine, o, se si preferisce, considerare il divenire come il principio primo, poiché ciò in sostanza equivale a spiegare l’essere col nulla. Il movimento può sussistere solo se sussiste un principio primo che sia causa di esso.
Necessità del Movente immobile
Il Movente immobile della fisica – a cui si perviene attraverso l’analisi del divenire (quali sono le condizioni che rendono possibile il divenire) – è l’Atto puro della metafisica a cui si perviene attraverso l’analisi del principio atto-potenza («sempre si passa da ciò che esiste in potenza a ciò che esiste in atto a causa di qualche cosa che esiste in atto» Metaf., XII, 6; Fisica, VIII, 10).
Niente può essere potenza ed atto nel medesimo tempo e sotto il medesimo aspetto. Ad ogni diveniente bisogna dunque assegnare una causa motrice esterna o interna.
Ogni sufficienza è, infatti, solo apparente:
Tutto ciò che diviene presuppone una causa del suo essere e divenire, e questa un’altra, e così di seguito; ma la serie regressiva degli esseri divenienti e delle loro cause non potrebbe essere illimitata.
Se si supponesse illimitata, si incorrerebbe in due assurdi:
Dunque vi è un Primo Movente, una causa prima di tutto il movimento. L’Onnimovente immoto trova in se stesso la causa dell’agire.
Il Primo Motore è atto puro, eterno e immutabile; essendo atto puro è l’essere per eccellenza, la sostanza sempre in atto, immutabile, immateriale semplicità assoluta e realissima nell’unità del suo spirito individuale.
La sua perfezione è l’attualità stessa dell’intelligenza: egli è il pensiero del pensiero, attività contemplativa di se medesimo.
In lui intelletto e intellegibile sono come due punte che si confondono toccandosi. A lui sono sospesi il cielo e tutta la natura.
Se il Primo Motore sia numericamente uno o multiplo è stato a lungo discusso.
L’ammissione di una cinquantina di motori separati eterni ed immobili sotto il Primo Motore fa pensare che sebbene il Primo Motore sia primo, non sia il solo a essere immobile, cioè divino; e ciò non solo nella Fisica, ma anche nella Metafisica.
Dio e il mondo
Il riserbo di Aristotele su questo problema ha favorito l’interpretazione che restringe la scienza e la causalità divina. Dio pensa se stesso e la sua purissima essenza non soffre il riflesso ideale del disordine, afferma Aristotele. Il mondo contiene l’imperfetto, dunque il Primo Motore resta estraneo ad esso, concludono gli stoici.
Ma se è tale come riesce a muovere l’universo?
«L’oggetto del desiderio è ciò che è bello e buono; ora il bello ed il buono attraggono la volontà dell’uomo senza muoversi essi stessi in alcun modo; così anche l’intelligibile muove l’intelligenza senza muoversi esso stesso. E di questo tipo è anche la causalità esercitata dal Primo Motore, cioè dalla sostanza prima: il Primo Motore muove come l’oggetto di amore attrae l’amante, e, come tale, resta immobile assolutamente» (Giovanna Reale, op.cit., II, p. 442).
Non c’è causalità fisica: un impulso meccanico suppone un limite comune dove il mobile tocchi il motore, mentre il Primo Motore è intangibile in quanto pensiero ed è immobile in quanto atto puro. Egli non è nello spazio (De Coelo, 279, a 18).
Ma al di sopra della causalità fisica c’è la causalità finale: egli muove tutta la natura come «termine di amore», poiché un desiderio eterno di attuare ognora se stessa sempre meglio attraversa la natura e ne costituisce il dinamismo segreto, lo slancio vitale, il centro di gravitazione.
L’andare dal meno al più della natura è solo apparente: il perfetto va collocato al principio. Anassagora lo intuì, ma concepì il Nous come potenzialità («pure egli pare un uomo a digiuno tra gente ebbra»).
«Dio è solo amato e non, anche, amante; egli è oggetto e non anche soggetto di amore. Anche per Aristotele, così come per Platone, è impensabile che Dio (l’Assoluto) ami qualcosa (qualcosa di altro da sé), dato che amore è sempre tendenza a possedere qualcosa di cui si è privi, e Dio non è privo di nulla. (È totalmente sconosciuta al Greco la dimensione dell’amore come dono gratuito di sé). Inoltre Dio non può amare, perché è intelligenza pura e, secondo Aristotele, l’intelligenza pura è impassibile e come tale non ama» (G. Reale, op.cit., II, p. 450, nota 69).
Teleologia e biologia
Aristotele confuta Empedocle per il quale le specie esistenti sono il risultato della selezione naturale mediante la sopravvivenza dei più adatti. Per Aristotele gli adattamenti esistono sempre o per lo più, ma non sono il risultato del caso.
Sono ad uno scopo e il fine sta in una ragione.
La natura si comporta come se provvedesse al futuro; le forme orientano e costituiscono gli esseri, ma a loro volta sono la materia di altre forme superiori. Non bisogna però chiedere alla teologia la spiegazione di ciò che più direttamente ci rimanda alle cause efficienti.
Il caso è semplicemente un nome per indicare l’imprevisto incontro di due catene di rigorose causazioni. Gli eventi casuali sono accidenti per accidens, in virtù di un concomitante, e appunto perciò sono «né sempre né per lo più».
Essi sono per lo più a uno scopo per l’inconscio sforzo della natura o per l’azione intenzionale di agenti umani (finalità inconscia – finalità conscia).
Ma il fortuito non sempre è fortunato: ad esempio i parti mostruosi, i quali sono «per natura» (prodotti dall’impulso generativo), quantunque non siano secondo natura, giacché la forma fornita dal genitore non è riuscita a padroneggiare la difettosità della materia.
«Quando trattiamo dei prodotti definiti della natura non dobbiamo dire che ciascuno di essi è di una certa maniera, perché diventa così, ma piuttosto che diventa così perché è così e così, poiché il processo del divenire è rivolto verso l’essere e ha per fine l’essere e non viceversa».
Il processo di evoluzione esiste per la cosa evoluta e non questa per il processo.
Come negare, ad esempio, che i ragni stendono la loro tela per prendere le mosche e nutrirsi di esse?
La perpetuazione del tipo è la più chiara testimonianza della teleologia della natura. «Un dato germe non dà origine ad alcun casuale essere vivente, né proviene da alcun essere vivente casuale; il germe è l’influenza direttiva ed il fabbricato di progenie».
La natura, descritta come agente intenzionale, non è agente cosciente; l’attribuire alla natura una inconscia tensione verso fini evita il problema, non lo risolve. Il Dio aristotelico è insufficiente a fondare il finalismo.
Notevoli sono i contributi di Aristotele in campo biologico: distinse lo scheletro di cartilagine e lo scheletro osseo nei pesci; descrisse lo sviluppo dell’embrione del pulcino; studiò lo stomaco dei ruminanti; descrisse la copulazione dei cefalopedi e il sistema vascolare dei mammiferi, pescirana, torpedini.
Aristotele inoltre risponde negativamente alla domanda se le parti degli animali esistano già preformate nel germe.
C’è invece una produzione successiva per epigenesi.
Nello sviluppo il carattere più generale precede quello più specifico: così l’anima nutritiva (che condividiamo con le piante e gli animali) precede quella sensitiva (che condividiamo con gli animali) e la sensitiva precede quella razionale, la quale sola non ha connessione con la materia.
Aristotele non ci dice in qual tempo suppone che la ragione entri nel seme.
La cosmologia
L’autorità acquisita da Aristotele in altri settori è stata sfortunatamente fatta valere anche per la cosmologia, rendendola dominante per quasi due millenni: ma sarebbe ridicolo dare la colpa di questo ad Aristotele (cfr. Enrico Berti, Profilo di Aristotele, Studium, Roma 1979). Con la sua cosmologia Aristotele sancì definitivamente la separazione fra cielo e terra che durò sino a Galileo e si rivelò di grande ostacolo al sorgere della fisica moderna, in quanto impedì per secoli di comprendere che l’intero universo è governato dalle stesse leggi.
Essa tuttavia non è una dottrina specificamente aristotelica, ma è l’espressione di un modo di pensare comune a tutta la scienza antica, dai pitagorici a Platone, il quale corrispondeva alle apparenze percepibili con i sensi ed era in grado di risolvere quasi tutti i problemi che l’osservazione scientifica di quel tempo poneva.
La teoria di Eudosso, condiscepolo di Aristotele all’Accademia, fu escogitata in termini matematici per spiegare il moto apparente dei pianeti. Infatti mentre il moto regolare delle stelle fisse era spiegabile mediante l’ipotesi che esse fossero tutte infisse in un’unica sfera rotante su se stessa, il moto apparentemente irregolare dei pianeti esigeva una spiegazione più complicata: si supponeva che ciascun pianeta fosse infisso in una propria sfera la quale, oltre a muoversi col proprio moto rotatorio, si muovesse con i moti di tre o quattro altre sfere a cui era collegata. In tal modo un movimento apparentemente irregolare risultava essere la risultante di più movimenti regolari.
La teoria di Eudosso, tradotta in termini fisici da Aristotele, fu accolta dall’astronomo Claudio Tolomeo (II sec. d. C.) e dominò incontrastata sino a Copernico.
Tempo e spazio
Il tempo è un elemento del cambiamento; c’è un solo tempo mentre ci sono molti movimenti, tuttavia il tempo implica il cambiamento. Se il tempo è numerato in virtù dei suoi «ora», non dobbiamo però supporre che gli «ora» siano parti di tempo più di quel che i punti siano parti di una linea. Quando il nostro stato psichico non cambia o non siamo coscienti del cambiamento, non pensiamo che il tempo sia trascorso.
Ci sarebbe il tempo ove non ci fosse l’anima si chiede Aristotele?
Si potrebbe sostenere che se non ci fosse nessuno a contare non ci sarebbe nulla che potrebbe essere misurato.
«Si potrebbe […] dubitare se il tempo esista o meno senza l’esistenza dell’anima. Infatti se non si ammette l’esistenza del numerante, è anche impossibile quella del numerabile, sicché, ovviamente, neppure il numero ci sarà. Ma se è vero che nella natura delle cose soltanto l’anima o l’intelletto che è nell’anima hanno la capacità di numerare, risulta impossibile l’esistenza del tempo senza quella dell’anima» (Aristotele, Fisica, in G. Reale, op.cit., II, p. 461).
Aristotele inoltre discute efficacemente i paradossi di Zenone: mentre è impossibile attraversare uno spazio infinito in un tempo finito, è possibile attraversare uno spazio infinitamente divisibile in un tempo finito, giacché un tempo finito è esso stesso infinitamente divisibile.
Il primo tempo di un evento è il tempo che esso precisamente occupa.
L’infinito rispetto all’addizione è del numero; l’infinito rispetto alla divisione è dello spazio, i due infiniti sono del tempo.
LA PSICOLOGIA
La psicologia studia l’essenza dell’anima e i suoi attributi.
Aristotele critica la teoria meccanica dell’anima e la teoria platonica della semovenza dell’anima. Tutti i fenomeni che sono in me non sarebbero percepiti e sintetizzati se io fossi un insieme di atomi coordinati, se io fossi multiplo e non uno.
Gli antichi filosofi hanno preso l’anima per principio motore, ma non capivano in quale maniera una cosa potesse muoverne un’altra.
Se l’anima risulta di atomi, sarà sempre mossa, né mai varrà a determinare se stessa, onde non ci sarà più posto per la libertà e verrà meno il principio e la condizione della morale.
Come poi evitare la conclusione di un livellamento tra uomo e bestia?
E questo non contraddice l’esperienza più universale dell’attività specifica e quindi della diversa natura dell’uomo?
La critica a Platone appare una critica partigiana. Platone intendeva per «l’anima muove se medesima» che si determina da sé (moto cioè passaggio dalla potenza all’atto), non in senso meccanico (come invece lo interpreta Aristotele).
Aristotele vede nella tripartizione platonica dell’anima una linea divisoria troppo netta tra razionalità (forma) e tendenza (materia). Anche Platone, in verità, aveva assegnato all’attività concupiscibile e irascibile la possibilità di esercitare le virtù della fortezza e della temperanza, se investite dalla ragione.
Vi sono sostanze il cui moto proviene tutto dal di fuori e sostanze che muovono se medesime: enti dotati del potere nutritivo (azione cominciata e terminata all’interno o semovenza), di sensibilità e, a fortiori, quelli dotati di intelligenza e di volontà.
Gli esseri viventi sono inspiegabili per puro meccanicismo: essi suppongono una speciale energia, che è principio iperfisico di sapiente, progressiva coordinazione (un mucchio di sassi non fa una casa) che è l’anima.
L’anima non sta nell’organismo come il pilota nella sua nave: se così fosse sarebbe coestesa al corpo o a qualcuna delle sue parti; a motivo della coestensione sarebbe corpo essa pure.
Come non c’è moto del corpo che non si compia nell’anima sotto forma di nutrizione, sensazione, ricordo, immagine, così non c’è affezione dell’anima, eccetto il pensiero, la quale non si compia in una certa maniera nel corpo (coraggio, gioia, ecc.).
Formando l’anima e il corpo una sola sostanza, ne segue che uno dei due principi è forma e l’altro materia. Ora se il corpo funziona da materia nell’essere vivente (perché l’estensione, per sé, non esiste che allo stato di potenza e se diviene questa o quella cosa lo deve solo alla forza che lo attua ed informa), sarà l’anima che vi funzionerà da forma.
Anima è forma del corpo, atto primo del corpo, principio intelligibile che strutturando il corpo lo fa essere ciò che deve essere. Il suo esercizio di funzione è la sua seconda e più piena attualità, tendente incessantemente all’atto puro senza mai pervenirvi. L’anima non è solo attualità formale del corpo, ma ne è la causa finale ed è la causa efficiente di tutti i cambiamenti cui dà origine (in accordo con il principio generale della identità della causa formale, finale ed efficiente).
L’uomo è animato anche quando dorme, ma allora il suo potere conoscitivo e volitivo non è pienamente attuale (risposta anticipata alla concezione cartesiana dell’anima che pensa sempre). Il sonno è simile allo stato di chi possiede abitualmente la scienza, ma non la pensa.
Nel determinare la natura dell’anima si deve guardare alla natura del corpo destinato a essere informato: un’anima qualunque non può informare un corpo qualunque (come supponevano i pitagorici con la metempsicosi): «Il loro parlare è su per giù come di chi sostenga che nelle scuri e nei flauti può venire trasfusa egualmente l’arte del carpentiere».
Un atto primo di qualsivoglia genere, una forma fa la sua comparsa solo in una materia idonea, quindi solo in ciò che è già in potenza di quel dato genere; dunque l’anima non potrà fare la sua comparsa in qualunque corpo naturale, ma appena in quello che possiede già in una certa maniera la vita e l’organizzazione delle parti. In tal senso l’anima è l’atto primo di un corpo organizzato.
L’uomo è singolo, unità organica e unicità individuale, uno in sé e distinto dagli altri. Spirito incarnato e corpo animato, la persona umana non è la risultante di parti che si addizionano, di enti compiuti e opposti che coesistono, ma la vivente unità di fattori e principi interdipendenti e dinamici che si fondano nella realtà della sostanza concreta. La ragione per cui questa carne e queste ossa costituiscono un uomo è che sono informate dalla forma dell’uomo, dall’anima umana. Ma la risposta più profonda è «perché esse sono organizzate in modo tale da servire ai fini per cui l’uomo esiste, cioè all’attività intellettuale e morale» (W.D. Ross, Aristotele, cit., p. 258).
La realtà del corpo in tal modo è salva e così pure l’individualità sostanziale, la specificità del soggetto umano. Tenendo conto poi della correlazione di forma e fine nel sistema di Aristotele, dovremmo concludere che il fine di ogni soggetto umano è non solo quello di raggiungere la perfezione tipica della specie, ma di realizzarla nel modo particolare in cui la sua forma individuale è capace. «La tua materia, la tua forma e causa motrice sono differenti dalle mie, benché siano le stesse nella loro descrizione generale» (Metafisica, 1071 a 27). E, d’altra parte, è
solo nella permanenza vitale e dinamica della struttura che sussiste e dura, mentre gli elementi materiali si rinnovano in maniera incessante, che si trova la base concreta dell’individualità di ciascun vivente e, nel nostro caso, l’uomo.
Aristotele vide ciò che Platone non poté scorgere, limitandosi a studiare l’anima umana e non l’anima quale si manifesta nell’insieme degli esseri viventi, tra i quali si individua una gradazione di tre principali modi di vita: vita vegetativa, sensitiva, intellettiva.
La vita vegetativa, che è posseduta dalle piante, tende per mezzo della nutrizione a conservare l’individuo e tramite la riproduzione a perpetuare la specie. La nutrizione non è miscuglio, ma assimilazione, fenomeno qualitativo che si compie per mezzo e a vantaggio della forma: conservare la forma, agevolarne l’attività, ecco lo scopo.
La vita sensitiva è propria degli animali: «Ha luogo nel subire un’azione e perciò sembra essere una specie di alterazione». La sensazione è realizzazione di potenza, suo avanzamento verso se stessa e verso l’attualità. La sensazione in atto coincide con l’oggetto sensibile: per esempio, l’udire il suono e il suono stesso. Ma gli oggetti sensibili coincidono con la sensibilità solo nell’atto di questa: l’occhio sano, quando si dorme, ha la possibilità di vedere; l’occhio di quando si vede è proprio nell’atto di vedere. Il senso è legato ai molteplici suoi organi.
La vita intellettiva è tipica dell’uomo e si esprime col pensiero.
Come possono coesistere le forme dell’anima, se sono tra loro differenziate?
Allo stesso modo delle figure geometriche, che costituiscono un ordine definito che comincia col triangolo e procede verso forme sempre più complesse, ciascuna delle quali non è implicita in quelle che precedono eppure le contiene.
Noi veniamo a conoscere cose che nel senso ordinario della parola non conoscevamo prima. Come può accadere, si chiede Aristotele? Vi è un passaggio dalla potenza all’atto, ma anche qui si deve precisare «mediante l’azione di qualcosa che è già in atto», perché solo la realtà ontologica di una sorgente costitutiva del pensiero ed essa sola può spiegare l’avanzare del pensiero verso se stesso e verso l’oggetto, nel suo esercizio di funzione, nel quale consiste la sua seconda e più piena attualità. L’anima mostra una varietà di operazioni intermittenti, dietro ciascuna di esse vi è un permanente potere di operare, un primo originario atto d’essere. I diversi modi di operare sono tali per cui l’anima non è tutta in ognuna delle sue operazioni, ma ciascuna di queste ha le qualità del tutto, cioè di quell’essere umano di cui l’anima è la forma sussistente. Le facoltà dell’anima non dividono l’anima in parti qualitativamente differenti, né coesistono come pietre in un mucchio. Questi modi deformanti di concepire le facoltà dell’anima sono esplicitamente criticati da Aristotele, anche se polemicamente saranno da non pochi attribuiti proprio al filosofo di Stagira. Le facoltà si compenetrano reciprocamente e rifluiscono l’una nell’altra. Il loro ordine di sviluppo è cronologicamente inverso rispetto al loro valore e i caratteri più generali condivisi con altri esseri precedono e preparano quelli superiori, più specifici e personali.
Qualunque cosa noi sentiamo, è sempre identica la coscienza di sentire: vi è dunque un senso comune o senso interiore, oltre i cinque sensi. Il senso comune opera la sintesi e la coordinazione delle sensazioni.
Il processo di emancipazione dalla materia continua con l’immaginazione. Le immagini sono la rappresentazione degli oggetti percepiti. Reliquie di sensazioni sopravvivono in noi nella profondità della psiche, in cui vanno a perdersi come rane in uno stagno, e risalgono alla luce della coscienza, con una forza allucinante nella passione e nella malattia, o rispondendo all’appello della riflessione. Oggetto adeguato all’uomo in quanto essere intelligente è l’essere intelligibile non in tutta la sua ampiezza, ma l’essere intelligibile delle cose sensibili.
L’anima «non pensa senza le forme delle immagini» e la forma si esprime come essenza nel concetto. L’uso delle immagini è il prezzo che l’intelligenza deve pagare per la sua associazione con le facoltà inferiori.
Ma come si esprime il processo astrattivo del concetto?
E in che rapporto sono le varie potenze dell’anima?
Aristotele si collega alla separatezza dell’intelligenza – già messa in evidenza da Anassagora – per evitare che anche alla conoscenza intellettuale si attribuisse il carattere proprio della sensibilità.
L’intelligenza può «divenire» in certo senso ogni cosa, appunto perché essa non è una cosa o un organo, ma il «luogo delle idee» (o forme), e non delle idee in atto, ma in potenza. «Il sensitivo non è senza il corpo, mentre l’intelletto è separato» (De anima).
«Han detto bene coloro che hanno affermato essere l’anima il luogo delle idee, purché si intenda non l’anima tutta intera, ma l’anima noetica e che le idee non sono in atto, ma in potenza» (ibid.).
«L’intelligenza è in un certo modo tutti gli intelligibili in potenza; ma non è nulla in atto prima di aver pensato; e questo deve avvenire nell’intelligenza come in una tavoletta su cui nulla è scritto» (ibid.).
Introdotta la distinzione tra potenza e atto nell’intelligenza, Aristotele ha bisogno di qualcosa che sia già in atto per far passare l’intelligenza dalla potenza all’atto. Trattandosi dell’intelletto, non può essere che l’intelletto ad agire su se stesso: di qui la distinzione tra intelletto attivo e intelletto possibile (De anima, III, 5).
Poiché nell’insieme della natura altro è la materia, per ciascun genere, altro la causa o l’agente che tutti li realizza, è necessario che queste differenze si ritrovino nell’anima.
Vi è dunque:
a) un intelletto che è tale poiché diviene tutto;
b) un intelletto che è tale poiché realizza tutto ed esiste nell’anima come luce: «anche la luce, infatti, fa divenire colori in atto colori in potenza. Questo intelletto è separato, impassibile e senza mescolanza», essendo per essenza atto (L’anima).
L’immagine aristotelica dell’intelletto come tabula rasa è ben lontana, dunque, dal significato empirico che posteriormente le si è voluto dare. Essa riguarda la cognizione in atto di oggetti particolari, non essendo l’intelligenza determinata a conoscere un oggetto piuttosto che un altro.
I principi primi dell’essere e del pensiero sono colti intuitivamente dall’intelletto: i principi non possono scaturire né dalla scienza, né dalla prudenza, né dall’abilità. Non c’è altra fonte che l’intelletto stesso: la conoscenza suprema dei principi primi è conoscenza intuitiva che non richiede dimostrazione, ma è a fondamento di ogni conoscenza (l’intelletto è «ciò che fa l’unità di ogni cosa») e di ogni ragionamento.
Non è difficile ravvisare nella dottrina intuitiva dei principi primi lo sviluppo di un’intuizione schiettamente platonica.
L’ETICA E LA POLITICA
Il bene come fine della vita
Molte cose che facciamo – osserva Aristotele – non hanno il loro scopo in se stesse; accade, infatti, che facciamo una cosa per ottenerne un’altra, rispetto a cui la prima attività non era che strumentale. Qual è l’attività degna di essere voluta e compiuta unicamente per se stessa? Qual è il bene che deve essere voluto per se stesso, quaggiù nella nostra vita umana, perché in esso e per esso l’uomo dà un perfetto compimento alla sua stessa natura?
L’interrogativo aristotelico, con la rassegna dei fini parziali ed eteronomi che l’accompagnano, fa affiorare il carattere di autonomia del bene morale e della persona chiamata a realizzarlo. In effetti «è segno di grande dissennatezza il non indirizzare la vita ad un dato fine» (Etica Eudemia, I, 1, 1214 b, 10).
Aristotele, dopo aver criticato l’edonismo e l’utilitarismo, fa consistere il bene dell’uomo nella vita secondo virtù e cioè nell’attività perfettiva della parte migliore dell’anima nella sua specifica duplice capacità di conoscenza e di azione morale. Ma la vita più propriamente umana, ammonisce il filosofo, è una conquista, «è una vita di serio sforzo e non di divertimento» (Etica Nicom., X, 6, 1177 a).
Aristotele riconosce la necessaria relazione della eudaimonia, del compimento perfettivo dell’umana natura, con ciò che è superiore all’uomo. A chi obietta che una vita secondo la virtù sarà superiore alla natura dell’uomo, il filosofo non esita a rispondere: «infatti, non in quanto uomo egli vivrà in tal maniera, bensì in quanto in lui vi è qualcosa di divino» (Etica Nicom., X, 7, 1177 b).
Proporre all’uomo solo ciò che è umano è fargli torto poiché, per la più eccellente parte di se stesso che è l’intelletto, l’uomo è chiamato a qualche cosa di migliore di una vita puramente umana.
«Non bisogna seguire – dirà con insolito lirismo Aristotele – quelli che consigliano che, essendo uomini, si attenda a cose umane, ed essendo mortali, a cose mortali. Al contrario, per quanto è possibile, l’uomo deve immortalarsi e far di tutto per vivere secondo la parte migliore di sé, la quale eccelle di molto su tutte le altre per potenza e valore. E se essa è la parte dominante e migliore, consistendo ciascuno di noi proprio in essa, sarebbe assurdo se l’uomo non scegliesse la vita a lui più propria».
Qui, come altrove, il platonismo perenne riemerge e si afferma e Aristotele, il critico implacabile delle aporie platoniche, appare per quello che è, il più geniale continuatore del suo maestro, della cui dottrina e della cui autocritica – ampiamente svolta nei dialoghi della vecchiaia – ha assimilato i motivi più profondi.
La dottrina dell’Atto Puro illumina l’etica, aprendola a un orizzonte più vasto, quello additato dalla solenne chiusa dell’Etica Eudemia: «Dio è il fine in vista del quale la saggezza comanda. Perciò quella scelta e il possesso di beni che conferirà maggiormente la contemplazione di Dio, sarà migliore, e questo è il miglior criterio di riferimento; invece qualsiasi cosa che, per difetto o per eccesso, impedisce di servire o contemplare Dio, sarà cattiva».
Di notevole interesse è l’analisi aristotelica del mondo morale, come mondo propriamente umano. La razionalità fa l’uomo per essere capace di progettare, di porsi un piano e di eseguirlo, di agire cioè secondo un’intuizione. Ragione e volontà si implicano a vicenda, senza per questo identificarsi.
Il libero arbitrio è riconosciuto pienamente.
La bontà morale non è né naturale, né innaturale; noi cominciamo con una capacità per essa, ma questa capacità deve essere sviluppata dall’esercizio. Si diventa buoni compiendo atti buoni, come impariamo a essere costruttori costruendo.
Ci sono atti che concorrono a formare un carattere morale e ci sono atti che ne emanano, che ne fluiscono per così dire; ma un carattere non si forma senza coerenza e continuità nel volere e nel fare ciò che va fatto in rapporto alle circostanze e per un motivo degno, avente cioè un’intrinseca validità. Dire che la virtù è un abito significa pertanto sottolineare che essa è una conquista che va rinnovata con atti di rinnovata fedeltà a qualcosa che è stato scelto per se stesso e non come mezzo in vista di qualche cosa d’altro.
Non c’è virtù quando c’è eccesso o difetto. La virtù morale è giusto mezzo fra vizi opposti: il coraggio tra la viltà e la temerarietà, la sincerità tra l’ossessiva denigrazione di sé e la vanteria e così via. Giusto mezzo, quindi, come equilibrio spirituale, dominio di opposte passioni e sviluppo armonico delle potenze superiori dello spirito: non giusto mezzo di mediocrità, ma giusto mezzo di eminenza, sommità fra due depressioni contrarie.
La morale del Bene in sé come valore assoluto è anche una morale della felicità per Aristotele, perché la gioia più grande è anche il segno del possesso del bene più grande, ma l’eudemonia aristotelica non ha un significato utilitario.
Le tendenze a sentir piacere e pena non vanno soppresse (sarebbe vano pretenderlo), ma modellate nella giusta forma; gli impulsi naturali non sono in se stessi né buoni né cattivi, per cui è inaccettabile sia la condanna globale che ne fa l’ascetismo esasperato che la loro adozione a guida della vita come avviene nelle dottrine naturalistiche.
Aristotele ammette che «le attività virtuose sono in genere piacevoli solo in quanto si raggiunge il fine» (Etica Nicom., 1117 a 29 b 22) e che, pertanto, non c’è un’armonia prestabilita tra l’attività virtuosa e la felicità che dovrebbe accompagnarla.
È tuttavia opportuno che, di norma, l’esercizio del bene sia compreso nel suo valore di arricchimento interiore e che l’attività virtuosa sia intensificata, completata, perfezionata dal sentimento della felicità che dovrebbe accompagnarlo, come naturale ricompensa d’una vita virtuosa, contentezza interiore e senso di espansione della persona.
Il piacere non è una condizione preliminare dell’attività buona, ma non è un male che sia concomitante. Comunque, qualora sia formato, un carattere morale può brillare anche attraverso circostanze avverse (1100 b 30).
Dalle virtù etiche, che perfezionano la volontà e il carattere, Aristotele distingue le virtù dianoetiche, che perfezionano la ragione, la quale coglie intuitivamente i principi supremi (intelletto) o parte da essi per raggiungere verità dimostrate (scienza), unisce intelletto e scienza per quanto concerne ciò che è bene (sapienza), ha la capacità di mirare al proprio fine e di raggiungerlo nel modo conveniente e al giusto momento (saggezza).
Tra virtù etiche e dianoetiche c’è un intimo rapporto: «non si può essere veramente buoni senza saggezza, né saggi senza virtù etica» (VI, 13).
Aristotele ha distinto chiaramente morale e diritto, legge morale e legge giuridica, e ha sottolineato con vigore due concetti di grande importanza:
1) la legge avente valore giuridico non può e non deve imporre la moralità (come farebbe a garantire che gli uomini agiscono «per amore di ciò che è nobile?»), ma le azioni corrispondenti, conformi a virtù;
2) le leggi hanno un’incidenza notevole, sia negativa che positiva, sul costume di un popolo e dunque sulla formazione dei singoli cittadini.
«I molti non sono per natura portati ad obbedire per rispetto, bensì per paura, né ad astenersi dalle cose cattive per la loro turpitudine, bensì per la punizione», perché «in generale sembra che la passione non obbedisca alla ragione, ma alla forza» (Etica Nicom., X, 1179 b 4, 8).
Di qui la necessità di buone leggi, di leggi veramente giuste le quali concorrano in modo rilevante a creare condizioni più favorevoli e il clima sociale più adatto all’opera educativa propriamente detta.
«La legge garantisce i diritti reciproci, ma non è capace di rendere buoni e giusti i cittadini» (Politica, III, 1280 b).
Il problema del male
Mentre Platone ha sentito tutta l’urgenza del problema del male senza darne una chiara soluzione, Aristotele non ne ha sentito molto l’urgenza, ma ha dato al problema una soluzione più precisa.
La materia è buona perché partecipa del bene della forma; ma essa, essendo sotto una forma, implica la privazione di altre forme di cui è ugualmente capace, così come una donna che, pur appartenendo ad un uomo, conservasse il desiderio di tutti gli altri uomini.
Il male è privazione di ciò che è dovuto alla forma d’essere che si considera.
Il male morale consiste nell’eccesso o nel difetto in rapporto alla norma razionale degli atti. Ma l’atto peccaminoso, non in quanto peccaminoso, ma in quanto atto, è buono, così come il camminare è buono anche negli zoppi, pur essendo gli zoppi cattivi camminatori.
Se l’uomo sbaglia nella sua azione l’ordine morale, ne soffre la sua felicità e la società: il Dio di Aristotele è tagliato fuori dalla comunicazione con gli uomini e perciò gli uomini non rispondono dinanzi a lui dei loro atti. Ogni idea di peccato come offesa a Dio viene in tal modo esclusa.
Piacere e felicità: il pensiero di Platone e Aristotele[1]
Il rapporto tra piacere e felicità è un discorso di fondo sulla condizione umana; nell’affrontarlo è bene partire da Atene, matrice essenziale anche se non esclusiva della nostra cultura e chiedere ai greci che cosa pensavano su un tema di così forte rilevanza.
Per i greci «compiutezza e misura» sono i coefficienti primari, il costitutivo stesso di una vita umana razionalmente vissuta e quindi felice.
Anche se con accentuazioni diverse in questo convengono Platone e Aristotele.
La vera eudemonia degli uomini, cioè la loro vita inseparabilmente buona e felice, si ha quando il bisogno illimitato di godimento (apeiron) che urge in ognuno di noi è umanizzato dal limite (peras) che la ragione gli assegna.
L’uomo è un composto, comunque questo dato venga interpretato e presentato (e qui le divergenze fra Platone e Aristotele sono incolmabili), e la felicità per l’uomo sarà pertanto «una vita mista di intelligenza e di piacere» purché innocenti e goduti con moderazione.
È la tesi del Filebo platonico puntualmente riproposta da Aristotele nell’Etica nicomachea.
Da queste considerazioni uno storico del pensiero greco, Francesco Adorno, crede di dover trarre una radicale conclusione: la ricerca greca della «compiutezza» e della «misura» comporta la «mondanità» come orizzonte esclusivo della condotta umana, per cui tutto si dispiega e si conclude entro l’arco del nascere e del perire.
Una prospettiva del genere, a sua volta, impone un vero e proprio capovolgimento della interpretazione del messaggio di Socrate, Platone e Aristotele.
Adorno non arretra.
Per lui il platonismo e l’aristotelismo «ontologici» e «religiosi» sarebbero «costruzioni» posteriori suggerite dall’irrompere di componenti nuove, religiose appunto; non più strettamente greche, ma stoiche, neo-platoniche, ebraico-cristiane, in virtù delle quali «si giungerà a credere che l’essenza umana è tale non in questo mondo, ma solo oltre questa vita».
Di qui una conseguenza paradossale: un pensatore come Epicuro, materialista nella concezione del mondo ed edonista in morale, verrebbe a trovarsi in una linea di continuità diretta con Platone e Aristotele una volta che questi siano dichiarati estranei al nucleo metafisico e teologico della loro opera.
Con Epicuro l’etica strettamente greca, portando anzi a perfezione il suo carattere di mondana restituzione dell’uomo a se stesso e di rifiuto della dimensione religiosa, tocca il culmine e si conclude.
Alla risoluzione secolaristica di tutta la morale greca è difficile consentire e per molte ragioni, tutte fondate su testi peraltro celebri a causa della loro profondità e chiarezza.
Ma prima ci sia permessa un’osservazione: è lecito sovrapporre o dichiarare a priori coincidenti l’etica che parte dal riconoscimento del limite e l’etica della chiusura all’Assoluto?
L’asserita identità delle due posizioni è tutt’altro che scontata nel pensiero greco e trova poi in campo cristiano una smentita continua, clamorosa. Si pensi ad Agostino, a Pascal, a Blondel: tre pensatori che sulla ricognizione critica del limite hanno fatto leva per l’affermazione della trascendenza, in epoche assi diverse per intervallo di secoli e per il tipo di cultura che le caratterizza.
Certo, il vigoroso richiamo alla «misura» della ragione è un aspetto reale e non secondario della saggezza, è un acquisto fatto per sempre e per tutti da Atene. Di quella lezione ha bisogno anche il nostro tempo, perché occorre ben misurarsi con i fatti, e solo chi conosce la dura realtà effettuale potrà impegnarsi a elevarla e a razionalizzarla moralmente, senza fanatismi e intolleranze.
Ma la forma dinamica della saggezza greca – protesa a vincere di continuo il cattivo infinito, quello pseudo-infinito che è l’illimitato, l’indefinito, il confuso, l’apeiron appunto – sta forse proprio nel fatto che, non perdendosi, come fanno quasi tutti i sistemi dell’immanenza, nella infinitizzazione del finito, è già costitutivamente orientata alla ricerca e all’affermazione dell’autentico infinito.
Quali che siano le differenze profonde con la visone cristiana della vita, la saggezza di Socrate, di Platone e di Aristotele tende a oltrepassare l’orizzonte terreno, e non per una sortita casuale. Chi non avverte nell’opera prima di Platone, l’Apologia, che la fede razionale e religiosa in Dio, nelle cui mani è la sorte del giusto, è il postulato fondamentale della scelta decisiva di Socrate?
Bergson ha scritto di Socrate, con la solita finezza, che «la sua missione è di ordine religioso e mistico, nel senso in cui prendiamo queste parole: il suo insegnamento, così perfettamente razionale, è sospeso a qualche cosa che sembra sorpassare la pura ragione» (Henri Bergson, Oevres, Edition du centenaire, Puf, Paris 1970, p. 1027).
In Platone la dimensione teologica non è una fase della sua «scepsi» o un’aggiunta posticcia di interpreti tardivi, ma ciò che anima la trattazione di tutti i problemi.
Su questo punto non si può nemmeno giocare alla contrapposizione del Platone del Fedone e della Repubblica al Platone del Timeo e delle Leggi. È, infatti, proprio in questi ultimi scritti che la razionale determinatezza dell’opera è invocata ad attestare la finalità della natura e la provvidenza del Dio-misura, cioè principio di ordine, di armonia, di equilibrio nel mondo delle cose e degli uomini.
Per Platone la condotta dell’uomo è morale se è «imitazione di Dio» e se l’uomo si fa collaboratore della provvidenza nel finalismo universale.
Una scienza del bene senza il Bene, senza la Sorgente prima e il Valore assoluto, sarebbe meramente formale, incapace di vincere l’utilitarismo, l’edonismo, la pressione sociomorfica.
Lo stesso eudemonismo dell’etica platonica rivela, sin dal Gorgia, nell’ispirazione religiosa il suo più profondo significato: il bene non è mezzo a realizzare la felicità, ma fine a se stesso, valore al quale la felicità è insieme subordinata e intimamente congiunta.
Nell’ultima sua opera, Platone, quasi a sigillo di una delle più straordinarie avventure del pensiero, scrive le parole rivelatrici: «chi ignora Dio non potrà mai scoprire la ragione per cui si vive, né farsi un concetto di ciò che riguarda la felicità e l’infelicità» (Leggi, X, 905 c.).
Malgrado l’insistenza di Aristotele nell’analisi fenomenologica dell’atto morale e nella reciproca subordinazione – propria dell’Ellade – dell’etica e della politica, è sostanziale la sua adesione alla dottrina socratico-platonica, che distingueva beni esteriori, beni dell’anima e beni del corpo, concedendo non certo l’esclusiva, ma senza dubbio il primato ai secondi. Tale primato include, perché l’uomo sia felice, sia il concorso di alcune circostanze favorevoli, sia il retto uso del piacere. Un padre che avesse figli buoni ma li vedesse morire, o avesse figli scellerati che sarebbe meglio non fossero mai nati, non può essere felice, anche se la sua coscienza è serena e se affronta la situazione con serenità e fermezza. La sventura compromette la felicità e la sventura può avere anche i caratteri della tragedia collettiva, dalla quale assai spesso non si può riprendere in breve tempo.
«Nessuno potrà essere veramente felice, se farà la fine di Priamo» (Etica Nicom., I, 1101 a), scrive con molta verità il filosofo di Stagira.
D’accordo con il Platone della vecchiaia, Aristotele insiste per una certa rivalutazione del piacere; ma anche per lui il piacere più degno dell’uomo è il coronamento della vita virtuosa, il conseguente di cui la virtù è l’antecedente necessario.
Se il piacere non è il Bene, è però qualcosa di positivo, il cui effetto è quello di perfezionare l’esercizio di una facoltà.
Non si deve dire che ogni piacere è male, per il fatto che alcuni piaceri sono ignominosi; ma se sono ignominosi, sono poi veramente piaceri?
Aristotele, con il suo robusto buon senso, non lo ritiene possibile (Etica Nicom., X, 1173 b). Poiché i piaceri differiscono specificamente a seconda delle attività dalle quali derivano, «si potranno dire propriamente piaceri quelli che accompagnano le attività proprie dell’uomo; gli altri invece saranno piaceri solo in via secondaria e del tutto accessoriamente» (Etica Nicom., X, 1176 a).
In ultima analisi, l’eudemonia socratico-platonica-aristotelica può essere sintetizzata dal principio formulato nel Gorgia (500 a): «Si deve cercare il piacevole per il bene, non il bene per il piacevole»; la felicità che si vuole non è mai ridotta a una «metetrica dei piaceri», non è mai edonismo né raffinato né volgare.
Malgrado le gravi aporie che caratterizzano la concezione aristotelica del rapporto tra Dio e il mondo e del destino ultimo dell’uomo, per il filosofo del Liceo la sapienza trae forza e norma dalla contemplazione intellettiva, dall’atto con cui nel coglierla, ci impossessiamo della verità che è al di sopra dell’uomo.
E la verità più alta, supremamente disinteressata e proprio per questo supremamente necessaria all’uomo, è quella che riguarda Dio.
Anche qui Aristotele continua direttamente Platone, tematizzando sul piano metafisico e morale «la tangenza contemplativa con la vita di Dio», per servirci di un’efficace espressione di Giovanni Reale. Così il precetto platonico che l’uomo deve quanto più è possibile assimilarsi a Dio acquista un più preciso significato: assimilarsi a Dio significa in primo luogo contemplare Dio.
La suprema Verità è anche il sommo Bene.
Nell’ultima pagina dell’Etica eudemia è scritto che «qualsiasi cosa che, o per eccesso o per difetto, impedisca di servire o contemplare Dio sarà cattiva».
Queste affermazioni stanno insieme a prezzo di una latente contraddizione; infatti dire che la città è intrinsecamente obbligata ad attuare la giustizia equivale a dire che non è la politeia in quanto tale il bene puramente e semplicemente supremo, dovendo essa riconoscere leggi e valori che importano assai più di ogni altra considerazione. Aristotele, insomma, non analizza ciò per cui la persona umana supera la città e non fa perciò emergere in tutta la sua fecondità la nozione di persona. Tommaso d’Aquino preciserà che l’uomo «non ordinatur ad communitatem politicam secundum se totum et secundum omnia sua» (Summa Theol., Ia IIa, q. 21, a. 4 ad 3 um) e che la politica non è il fine ultimo che secundum quid, cioè nell’ambito di un dato ordine, l’ambito della civiltà temporale, essendo Dio solo il fine ultimo assoluto della vita umana e dell’universo intero[2].
Condizioni e caratteristiche dello Stato migliore
Le condizioni e le caratteristiche dello Stato migliore sono le stesse dell’individuo migliore: ottimo è lo Stato che in virtù delle sue istituzioni consente ad ogni cittadino di agire bene e vivere felicemente.
I beni esteriori si possono ricercare in quanto indirettamente contribuiscono alla serenità dell’animo, ma l’eccesso o la ricerca esclusiva di ciò che è utile nuoce, verificandosi in tal caso una vera e propria inversione di valori.
Saggia è la città che ha saggi i cittadini che prendono parte al governo; spetta all’educazione preparare cittadini capaci di far regnare la giustizia, la temperanza, il valore, la saggezza nella vita politica.
Aristotele condanna l’imperialismo («non è lecito un impero senza giustizia», Politica, 1324 b 14 – 15), il militarismo, l’espansionismo economico e ripudia ogni forma di egemonia: «Non c’è nulla di grande nell’avere dei servi: il governo legittimo è tutt’altra cosa del dominio tirannico e dell’asservimento» (Politica, 1324 b 1325). Aristotele vagheggia come ideale lo Stato-città di Atene, perché uno Stato troppo grande difficilmente si governa bene.
La capacità di uno Stato di adempiere al proprio compito si fonda non sul numero dei cittadini, ma sull’autarchia o intrinseca efficienza.
Nei libri VII e VIII Aristotele delinea lo Stato ideale, classificando le forme autentiche e quelle spurie di costituzione. Se la monarchia fosse il governo del più saggio e l’aristocrazia governo degli ottimi esse sarebbero forme perfette oltre che legittime; in realtà la monarchia e l’aristocrazia così intese sono sempre rarissime eccezioni.
Ma anche nell’ipotesi dell’ottimo reggitore, è bene che la legge infreni preventivamente ogni suo eventuale arbitrio, ancorché dinnanzi a particolari situazioni si possa andare oltre le leggi scritte. La sovranità della legge è preferibile a quella di un uomo in quanto la legge non ha le passioni a cui è soggetta l’anima umana.
Il cittadino della politeia aristotelica è il cittadino della democrazia, di una democrazia non demagogica, la quale abbia i caratteri del giusto mezzo e non sia soggetta al dispotismo delle turbe dei poveri: è «il governo della moltitudine per il bene comune».
Tutti i cittadini debbono avvicendarsi nel potere e nella sudditanza, ricoprendo a turno le magistrature.
Fulcro della politeia aristotelica è la classe media, in cui niente è di troppo: quando prevalgono gli estremi ceti sociali si prepara il governo dei padroni facinorosi o degli schiavi abbietti, non degli uomini liberi.
I cittadini della politeia sono liberi e uguali fra loro, e in ciò la politeia è democratica; ma se si tiene conto che gli esclusi – tutta la massa dei lavoratori – sono assai numerosi, non si può non ravvisare nella politeia aristotelica un’aristocrazia allargata al ceto medio che detiene il monopolio del potere e una scissione tra la supercittà dei cittadini e l’infrastruttura dei lavoratori.
Il legislatore non deve mirare a livellare le fortune, ma a stabilire giuste proporzioni, a riconoscere e ad accettare le quali occorre una tenace opera educativa.
Lo stesso Aristotele sottolinea eccessivamente la «distanza» tra reggitori e sudditi.
I legislatori e i reggitori stanno ai sudditi come chi suona il flauto a chi lo fa; se ai sudditi si può solo richiedere la limitata eticità del diritto in quanto norma di atti esteriori, dai governanti si richiede una virtù etica a fondamento del loro magistero civile e politico (Aristotele parla addirittura di diversità di specie tra virtù civile e virtù etica).
Aristotele, come Platone, concepisce la politica in stretta connessione con l’etica, anzi l’affermazione del primato del bene collettivo su quello individuale è così preminente da conferire all’etica una parte subordinata rispetto alla scienza pratica avente per oggetto la ricerca del bene comune. La politica ha però intrinseche esigenze etiche. Aristotele dice a chiare lettere che «nessuna buona azione, né di un individuo, né di una città, può realizzarsi senza virtù e senno» (Politica, VII, I, 1323 b, 5 – 6) e che non vi è una vita buona per la città senza giustizia.
Al bene comune della città è inerente la rettitudine morale.
Ma nello stesso tempo la città è per Aristotele un bene puramente e semplicemente supremo. Ne consegue che per Aristotele la scienza suprema nell’ordine del sapere pratico è la politica (Etica Nicom., I, 2, 1094 a, 27 – 30) e ad essa è ordinata l’etica (Grande Etica, I, 1, 1181 a – b).
Critica dell’individualismo e del collettivismo
Il superamento dell’individualismo e della teoria convenzionalistica dello Stato – propri della sofistica – da un lato, e dell’unitarismo e del collettivismo platonico, dall’altro, sono i compiti della filosofia politica aristotelica.
a) Contro la teoria convenzionalistica dello Stato, Aristotele rivendica l’origine naturale dello Stato, il cui sorgere si inserisce nelle disposizioni sociali dell’uomo e nello sviluppo teleologico dell’umanità. Lo Stato è società organica nel quale l’individuo, socievole per natura, trova le condizioni concrete della sua vita; esso è una più vasta forma di vita associata che comprende altre subordinate forme di società.
Solo un bruto o un dio potrebbero vivere fuori della società che lo Stato organizza: l’unità dello Stato, per quanto importante ed efficace, è però unità non di sostanza, ma unità ideale, fatta di organiche relazioni tra individui e tra società intermedie.
L’unità è necessaria in ogni forma di vita associata; ma «non bisogna spingere questo principio alle ultime conseguenze». «La città, procedendo su questa via, finirebbe con l’annullarsi, o, non annullandosi, menerebbe vita grama. Sarebbe lo stesso se si volesse ridurre l’accordo musicale a un solo tono e il ritmo a una sola misura» (Politica, 1263 b, 32 – 35).
b) L’unità dello Stato, rivendicata contro i sofisti, non deve però legittimare l’unitarismo statalista di Platone.
Non esiste un bene collettivo dello Stato in quanto tale, ma il bene comune è in concreto il bene di tutti. Il bene di tutti e non l’utilità privata deve essere l’intento dei reggitori.
È impossibile che lo Stato sia felice senza la felicità di tutti o della maggior parte dei suoi cittadini (Politica, 1264, b 17 – 19).
Aspetto tipico dell’unitarismo platonico è il comunismo che Aristotele investe con la sua critica realistica e profonda.
Solo la proprietà individuale alimenta la sollecitudine del singolo, poiché gli uomini trascurano ciò che è comune a molti; la proprietà collettiva non garantisce l’unità dello Stato, ma è fonte di discordia perpetua; non si possono poi disconoscere i legami naturali d’affetto, per i quali gli uomini nutrono attiva e sollecita cura. Meglio essere nipote nel comune attuale stato di cose che figlio in regime platonico (Politica, 1262 a 13 – 14). Il figlio di tutti rischia di essere figlio di nessuno.
Malgrado certe espressioni in cui si afferma che per gli individui la città è un bene supremo, lo spirito e i principi della filosofia aristotelica sono profondamente opposti al totalitarismo. Non ci si libera dall’egoismo mediante diktat politici. Le sorgenti dell’egoismo sono troppo profonde per essere rimosse mediante una legislazione fortemente coercitiva. Non bisogna lasciarsi accecare dagli abusi delle istituzioni esistenti in modo da non vedere i loro usi.
Giustamente Hegel dice che Platone a paragone di Aristotele «non è abbastanza ideale», se idealismo è la capacità di vedere gli elementi ideali nella realtà invece di distruggere la realtà allo scopo di trovare altrove l’ideale. Ma il platonismo non si può contrarre nel suo mito politico e peggio negli aspetti più discutibili di esso e meno coerenti con una metafisica della vita interiore, qual è quella del grande discepolo di Socrate.
Il problema della schiavitù
«È spiacevole, ma non deve meravigliare che Aristotele abbia considerato come appartenente alla natura delle cose un’istituzione come la schiavitù, che era una parte così familiare nella vita greca quotidiana. Va notato che la schiavitù greca andò per lo più esente dagli abusi che han dato cattiva fama al sistema schiavistico nei tempi moderni. Ci sono certe limitazioni nell’approvazione aristotelica della schiavitù le quali vanno osservate.
I) La distinzione fra l’uomo libero naturale e lo schiavo naturale non è sempre – egli ammette – così chiara come si potrebbe desiderare. Né il figlio di uno schiavo naturale è sempre uno schiavo naturale.
II) La schiavitù per puro diritto di conquista in guerra non deve essere approvata. Potenza superiore non significa sempre eccellenza superiore. Che cosa accadrebbe se la causa della guerra fosse ingiusta? I greci non dovrebbero in alcun caso asservire altri greci. È probabile che questo elemento della concezione aristotelica sia quello che ha colpito i contemporanei come la parte più importante. Dove a noi egli sembra reazionario a loro può essere sembrato rivoluzionario.
III) Gli interessi del padrone e dello schiavo sono gli stessi. Il padrone non dovrebbe perciò abusare della sua superiorità. Dovrebbe essere l’amico del suo schiavo. Dovrebbe non semplicemente comandare, ma ragionare con lui.
IV) A tutti gli schiavi si dovrebbe dare la speranza di emancipazione.
Quel che non può essere approvato nella concezione di Aristotele è tuttavia il taglio in due della razza umana che egli fa con un’accetta. C’è una gradazione continua nell’umanità rispetto sia alle qualità morali che intellettuali. Questa gradazione conduce, e probabilmente condurrà sempre, ad un sistema di subordinazione. Ma in un tale sistema nessun membro dovrebbe essere considerato semplicemente come uno ‘strumento vivente’.
Il modo come Aristotele tratta la questione contiene implicitamente la confutazione della sua teoria. Egli ammette che lo schiavo non è mero corpo, ma ha quel genere subordinato di ragione che lo rende capace non semplicemente di obbedire ad un comando, ma anche di seguire un argomento. Ed ancora dice che quantunque lo schiavo in quanto schiavo non possa essere l’amico del suo padrone, tuttavia in quanto uomo può esserlo. Ma la sua natura non può essere divisa in questo modo. Il suo essere uomo è incompatibile col suo essere un semplice strumento vivente» (D.W. Ross, Aristotele, cit., pp. 359 – 361).
L’ESTETICA
Aristotele difende l’arte dalla svalutazione teoretica ed etica di Platone. L’arte non allontana dalla verità, ma fa emergere nella rappresentazione individuale l’universale significato della vita umana. L’arte trasfigura il particolare in universale possibilità, in rappresentazione delle intime ragioni dell’agire umano.
La rappresentazione estetica è sempre individuale, ma è rappresentazione di un sentimento della vita che può essere liberamente rivissuto da chiunque e in qualsiasi tempo (universalità non del concetto, ma sui generis).
Aristotele conserva l’espressione inadeguata di mimesi, ma ne arricchisce il concetto: l’arte è imitazione, non però della realtà empirica, bensì del verosimile. L’artista imita l’elemento ideale o universale delle cose cogliendone l’essenza.
L’imitazione è naturale all’uomo e anche naturale all’uomo è compiacersi dell’opera che è frutto di imitazione, che ricrea le cose secondo una nuova dimensione.
L’universalità della rappresentazione della poesia nasce dalla sua capacità di riprodurre gli eventi «secondo la legge della verosimiglianza e della necessità»
Il bello per Aristotele implica ordine, simmetria di parti, determinazione quantitativa, proporzione: «Le supreme forme del bello sono: l’ordine, la simmetria e il definito, e le matematiche le fanno conoscere più di tutte le altre scienze» (Metafisica, M 3, 1078 a 31 – b 2).
La tragedia per Aristotele è il genere sommo di poesia e ne dà una famosa definizione nella Poetica (1449 b 25 – 29): «La tragedia è l’imitazione di un’azione seria, la quale, possedendo anche una certa ampiezza, è in se stessa completa; il suo stile è ricco di elementi piacevoli, introdotti separatamente nelle varie parti; procede in forma drammatica e non narrativa; gli avvenimenti in essa presentati, suscitando pietà e terrore, producono la catarsi di tali emozioni».
La catarsi è la spontanea elevazione di chi crea o contempla un’opera bella con animo disinteressato e puro; la poesia eleva la passione attraverso l’intuizione del bello. Le passioni non sono la negazione della virtù, ma la sua materia. Le emozioni filtrate attraverso la spiritualità artistica sono disinteressate, liberano dalla passione volgare e violenta.
Platone aveva condannato l’arte – tra l’altro – anche per il motivo che scatena sentimenti ed emozioni, allentando l’elemento razionale che le domina. Aristotele capovolge esattamente l’interpretazione platonica: l’arte non ci carica ma ci scarica dell’emotività, e quel tipo di emozione che essa ci procura, non solo non ci nuoce, ma ci risana.
«La poetica di Aristotele è ben lungi dal darci una teoria dell’arte. Tuttavia contiene forse un maggior numero di idee pregnanti nell’arte che non qualsiasi altro libro. Segna il principio dalla liberazione da due errori che hanno ripetutamente danneggiato l’estetica: la tendenza a confondere i giudizi estetici con quelli morali e la tendenza a considerare l’arte come duplicazione o fotografia della realtà» (W.D. Ross, Aristotele, cit., p. 434).
Aristotele e il pensiero cristiano
Nel cristianesimo Aristotele è più intimamente ricongiunto a Platone nella sintesi originalissima operata dal cristianesimo tra idealismo e realismo. Dall’interpretazione dei rapporti tra Dio e il mondo dipende la diversa valutazione del pensiero aristotelico nei confronti del pensiero cristiano.
Per alcuni si può dire che è difficile avvicinarsi di più a Dio e preparare per larga parte la nozione filosofica senza raggiungerlo: ma non è una ragione sufficiente per dire che egli l’abbia raggiunto. Si fermò lungo la strada (Étienne Gilson).
Per altri (Jacques Maritain, Antonin-Dalmace Sertillanges) Aristotele pervenne ad elaborare per primo il concetto di Dio con la teoria dell’Atto Puro.
Anche per i Padri e i dottori cristiani Dio non ha altro oggetto di pensiero e di volontà che se stesso; si aggiunge però che se Dio è distinto dal mondo, non è separato il mondo da Lui, e che Dio, pensandosi, conosce tutto, perché nessuna cosa può avere intelligibilità se non per una certa partecipazione alla sua essenza e per la relazione creatrice dell’azione di Dio, azione che è costitutrice dell’essere.
Viene inoltre sottolineato che Aristotele, togliendo a Dio la causalità dell’essere, nega di fatto la Provvidenza, e l’estraneità per Aristotele, come per ogni filosofia precristiana, della concezione di un’azione totale senza presupposizione di sorta: la materia per Aristotele è eterna.
Assai dibattute sono le tesi interpretative di Étienne Gilson, secondo il quale sono innegabili le influenze politeistiche nella concezione del Primo Motore. Secondo Gilson l’uomo che dispose per testamento che l’immagine di sua madre fosse consacrata a Demetra e che si erigessero a Stagira due statue di marmo alte quattro cubiti, l’una a Zeus Soter, l’altra ad Atena Sotera, non è certamente mai uscito dall’ambito del politeismo tradizionale; Aristotele riserba la divinità all’ordine del necessario e dell’attualità pura, ma se il suo Primo Motore è il più divino e il più essere degli esseri, resta pur sempre uno degli «esseri in quanto esseri».
Per il cristianesimo non c’è analogo di Dio; l’Essere e gli enti sono compossibili solo in quanto insuscettibili di addizione, di sottrazione e di chicchessia: sono incommensurabili. C’è d’altra parte una certa analogia tra Dio e il creato, ma solo indirettamente: ogni partecipazione suppone che ciò che partecipa sia o non sia ciò di cui partecipa. Non si può confondere il necessario assoluto e il necessario derivato.
Se si nega al Dio aristotelico di essere la causa efficiente del mondo, Piat ha ragione di osservare che il Dio di Aristotele è qualcosa di grande e profondo, «ma quanto dovette impoverirsi questo Dio per purificarsi! E quale spaventevole solitudine è mai la sua» e quale angoscioso stato di solitudine il nostro.
Questo Dio non offre che «un fondale per la sua prospettiva e un principio di impulso spontaneo»; poi egli abbandona il mondo all’accidente senza una speranza di recupero.
Il finalismo del mondo è, in ultima analisi, senza scopo e senza fine.
Per Aristotele la morale è una parte della politica, mentre per il cristiano c’è una differenza specifica (temporale ed eterno) e una superiore unità (la politica è attività pratica volta al conseguimento di fini di carattere collettivo, ma il suo fine supremo è etico).
Non è stabilito il saldo legame tra la coscienza individuale e il Principio del bene e manca un sicuro criterio di orientamento pratico.
Secondo Jacques Maritain si attribuiscono ad Aristotele certi errori commessi dai suoi discepoli o dai suoi commentatori, specialmente per quanto riguarda l’anima umana, la scienza e la causalità divina.
NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate.
[1] In Humanitas, 5 (1980).
[2] Jacques Maritain ha approfondito questo tema in modo particolare negli scritti La persona e il bene comune (Bruges, 1946, trad. it. Morcelliana, Brescia 19632), Cristianesimo e democrazia (New York, 1945, trad. it. Comunità, Milano 1953), L’uomo e lo stato (Chicago, 1951, trad. it. Vita e Pensiero, Milano 1953).