«Se oggi esiste una filosofia come tale, lo si deve al paziente lavoro dei pensatori medioevali»
«Per tutto il pensiero occidentale, ignorare il suo Medioevo significa ignorare se stesso» (È. Gilson)
La ripresa della cultura in Europa dopo le invasioni barbariche
In quell’arco di tempo che va da Agostino (340-430) e Benedetto a Tommaso d’Aquino e a Dante Alighieri la situazione storica e culturale si modificò radicalmente e più di una volta, per cui è impossibile riassumere in pochi tipi oleografici e convenzionali quell’età così vasta e ricca di forti contrasti sociali, religiosi, politici che viene designata col nome di Medioevo. La tradizione classica, l’unificazione culturale e politica operata da Roma, la potenza creatrice delle forze spirituali del cristianesimo costituiscono gli influssi formatori che foggiarono la nostra civiltà e fecero nascere l’Europa. Ma la materia, l’elemento etnico, era altrove, nell’oscuro caos del mondo barbarico. Furono i barbari a fornire la materia umana di cui si è fatta l’Europa; essi furono le gentes in contrasto con l’imperium e con l’ecclesia, le fonti dell’elemento nazionale nella vita europea. Nel medioevo la Chiesa cattolica forgiò l’Europa – isola sperduta tra il mezzogiorno mussulmano e il settentrione barbarico – trasformando il cozzo di stirpi, conseguente al ripetersi delle invasioni barbariche, dal 376 al 1000, in un mirabile processo di fusione da cui è nata una civiltà nuova. La Chiesa evangelizzò il mondo barbarico e, in un’epoca di universale rovina e distruzione, divenne l’inesauribile centro di riorganizzazione delle forze della vita.
Furono i grandi spiriti religiosi come san Patrizio, san Benedetto, san Gregorio Magno, san Bonifacio – che non miravano a costruire un ordine sociale – a gettare le fondamenta dell’Europa; nell’atto di battezzarla e di darle l’alfabeto, ne preparavano la storia futura. L’evangelizzazione dell’Europa rurale e la diffusione del benedettinismo nell’Europa continentale (e nella stessa Italia) furono opera precipua dei missionari irlandesi e anglo-sassoni, i più originali e fedeli interpreti nel secolo VII del cattolicesimo: «L’apparire nel secolo VII della cultura celtica e anglosassone è l’evento più importante tra l’età di Giustiniano e quella di Carlo Magno, perché reagì profondamente sull’intero sviluppo continentale» (Christopher Dawson, trad. it. La nascita dell’Europa, Einaudi, Torino 1959, p. 190). Carlo Magno segna un momento significativo dell’unificazione religiosa e politica del differenziato mondo barbarico; ma i tempi non erano ancora maturi e la scomparsa della sua eccezionale personalità fece esplodere quelle forze e tendenze per breve tempo concorrenti a un disegno unitario.
Il movimento culturale e religioso anglo-irlandese culmina nella scuola di York, in patria, e contribuisce potentemente ad alimentare, sul continente, la «rinascita carolingia». Non è possibile separare i letterati dell’età di Carlo Magno dai loro predecessori e contemporanei anglo-irlandesi e neppure da quei centri di risveglio della cultura letteraria e religiosa che furono i grandi monasteri. Alcuino, la figura più eminente della prima Scuola Palatina, viene da York; ma Eginardo, il biografo del nuovo Augusto, Rabano Mauro e i suoi allievi Valafrido Strabone e Servato Lupo, grandi dotti e studiosi della letteratura classica, vengono tutti da Fulda. Di fatto, benché il sapere dell’età carolingia possa sembrare poca cosa in confronto a quello dei grandi umanisti italiani, nondimeno esso segnò un’autentica rinascita, che per lo sviluppo della cultura europea non ebbe meno importanza del movimento più brillante del secolo XV. «La raccolta degli sparsi elementi della tradizione classica e patristica e la loro riorganizzazione come base di una cultura novella fu il più grande dei risultati dell’epoca carolingia» (Christopher Dawson).
Il fervore degli studi fu veramente grande e si deve ai copisti carolingi la conservazione di gran parte della letteratura latina; la moderna critica testuale dei classici è tuttora largamente fondata sui manoscritti di quel periodo giunti sino a noi. La riforma della scrittura, l’introduzione del cosiddetto «minuscolo carolino», che prelude alla «scrittura umanistica» del Rinascimento italiano e al moderno stampatello latino, ci attesta la preoccupazione, condivisa dallo stesso Carlo Magno, di moltiplicare manoscritti leggibili, corretti, abbandonando le varie e illeggibili scritture corsive dell’epoca merovingia. E la questione aveva anche un risvolto religioso: si tratta di rendere sicuri il testo sacro, la Bibbia, così come i testi liturgici.
La rinascita carolingia, che unì dotti e teologi di tutta Europa, raggiunse il punto più alto con la generazione che seguì la morte di Carlo Magno, fra gli allievi e i successori di Alcuino. L’irlandese Giovanni Scoto, il pensatore più del secolo IX, verso l’845 si rifugia alla corte di Carlo il Calvo in seguito alle invasioni scandinave dell’Irlanda. Conosce il greco, traduce lo Pseudo-Dionigi l’Areopagita, influenza la filosofia dell’ebreo spagnolo Ibn Gabirol, è il direttore della Scuola Palatina del regno franco occidentale. Il grande filosofo e teologo fiorisce mentre l’Europa è spezzata da crisi politiche interne ed è devastata dalle nuove e più terribili invasioni barbariche dei normanni, degli ungheri, dei saraceni. Molte grandi abbazie sono devastate; i monaci fuggono portando via i manoscritti più preziosi e le reliquie del santo fondatore e per qualche tempo non possono più occuparsi di studi. L’aristocrazia è più incline alla costruzione di roccaforti che alle istituzione di biblioteche.
Nel secolo dell’anarchia e della desolazione (850-950) la cultura carolingia, sopravvissuta a lungo all’impero stesso, si ritrasse nei grandi monasteri dell’Europa centrale, come San Gallo, Reichenau e Corvey, i quali tennero accesa la fiamma della civiltà, sicché non ci furono interruzioni nella trasmissione della cultura dal periodo carolingio a quello del nuovo impero sassone.
Anselmo d’Aosta (1033-1109)
Monologio
(Ragionamento che uno fa tra sé e sé)
Parte da considerazioni che chiunque può fare sulle cose che l’esperienza gli offre, anche se non ha mai udito la predicazione cristiana e non vuol prestarle fede.
La via per dimostrare l’esistenza di Dio è a posteriori: parte dall’esperienza e risale alla causa prima degli effetti considerati.
Proslogio o Alloquium
(Discorso rivolto a Dio che deve farci capire perché non possiamo pensarlo non esistente)
Il Proslogio aveva come sottotitolo molto significativo «fides quaerens intellectum»: la fede cerca di darsi una struttura razionale, non solo per quel che concerne i problemi che anche la ragione affronta nella sua propria sfera, ma anche, fin dove è possibile, per quelle verità « che vanno oltre la ragione (quae rationem excedunt)».
Anselmo cerca l’intelligenza della verità rivelata e in questo sforzo muove alla scoperta di un argomento capace di farci riscoprire, per concisione e per perentorietà, una verità che dovrebbe essere intuitiva per la mente umana: l’esistenza di Dio. L’argomento del Proslogio sarà detto ontologico e a priori ed eserciterà una grande influenza nella storia della filosofia.
Criticato da Gaunilone, due secoli dopo da Tommaso e nel ‘700 da Kant esercitò una forte suggestione su Bonaventura, Duns Scoto, Cartesio, Hegel, Barth.
Chi nomina Dio pensa l’essere di cui non si può pensare nulla di più perfetto («id quo nihil maius cogitari potest»). E ciò vale anche per chi nega Dio, come lo stolto di cui parla il salmo 52: «dixit insipiens in corde suo: Deus non est (dice lo stolto nel suo cuore: Dio non esiste)». L’ateo è un insipiente proprio perché non si accorge della contraddizione implicita nel giudizio negativo che egli formula. Vi è contraddizione fra il soggetto Deus e il predicato non est. Infatti, se Dio non fosse, non sarebbe pensabile come l’essere di cui non si può pensare nulla di più perfetto. Gli mancherebbe la perfezione essenziale dell’esistere: in tal caso ogni altra cosa realmente esistente sarebbe infinitamente superiore ad una idea sfornita di realtà. Può dunque lo stolto dire veramente «Dio non esiste»? Può dirlo, ma non può veramente pensarlo perché se cerca di pensare a ciò che dice, si accorge che la sua negazione è impensabile.
L’obiezione di Gaunilone
La critica di Gaunilone si può dividere in due parti:
– non possiamo avere idea di Dio prima di averne dimostrata l’esistenza;
– non possiamo dedurre dall’idea dell’esistenza l’«Id quod maius cogitari nequit (un essere di cui non è possibile indicare uno maggiore)».
Per solito si insiste sulla seconda parte dell’obiezione di Gaunilone, ma quella che ha più valore è la prima e la seconda, intanto, vale in quanto vale la prima. Anselmo aveva concluso, dopo l’esposizione del suo argomento: «colui che nega l’esistenza di Dio è veramente stolto, perché non sa quel che dice: dice infatti che Dio non esiste, ma non può veramente pensarlo».
Gaunilone obietta ad Anselmo: «tu dici ente di cui non si può pensare il maggiore, ma effettivamente non lo pensi, perché né hai mai visto Dio né hai mai visto una cosa simile a Dio; Dio, per essere Dio, deve essere al di sopra di ogni genere di realtà; come dunque posso dire di averne un’idea?».
Il passaggio poi dall’idea dell’essere perfettissimo alla sua esistenza non è giustificato perché presuppone già che un ente perfettissimo debba esserci. Certo, se c’è, un essere perfettissimo deve essere esistente; ma c’è? Questo è il problema.
Argomentando come Anselmo, continua Guanilone, uno potrebbe anche, dopo aver immaginato quella isola perduta di cui raccontano le favole, piena di ogni bellezza e ben di Dio, inferirne che essa deve esistere, perché altrimenti non sarebbe perfetta.
Liber apologeticus
Della prima parte di queste obiezioni Anselmo non fu stupito. Tu dici di non avere l’idea di Dio, risponde egli a Gaunilone, ma io mi appello alla tua fede e alla tua coscienza: come puoi credere in Dio se non ne hai l’idea?
Alla seconda parte risponde ripetendo nella forma più chiara possibile il suo argomento e facendo osservare che tale argomento si può applicare ad una sola idea, quella dell’Essere assoluto e assolutamente necessario. Ora un’isola, per quanto bella e ricca, non può mai essere concepita come necessariamente esistente e tale che non si possa pensare una realtà più perfetta. È certo, nulla ha tanto contribuito a screditare l’obiezione contro l’argomento del Proslogio quanto gli infelici esempi dell’isola di Gaunilone e dei 100 talleri di Kant.
Rectitudo per se servata
a) Anselmo ha precisato gli elementi costitutivi dell’atto libero. La volontà è il potere di volere. Essa sarà dunque tanto più pienamente se stessa, quanto più sarà atta a volere. Una volontà che vuole, ma non può, è una volontà senza efficienza, una volontà minore. Il libero arbitrio è dunque il potere di volere il bene o il male. Una libertà che si diminuisce è infedele alla sua essenza. Ogni diminuzione del potere di volere è una diminuzione del libero arbitrio. La libertà più piena si manifesta come volontà realizzatrice di bene. Ma dopo aver fatto il male, la volontà è libera di volere il bene, ma non di farlo. Restituendole questo potere perduto, la grazia rende al libero arbitrio qualcosa della sua prima efficacia.
b) Anselmo ha chiarito con grande rigore la condizione che rende morale l’agire. La nostra volontà ha la sua regola interiore, il suo dover essere, la L’azione volontaria è consapevole, dunque la rectitudo deve essere voluta per sé e prima e al di sopra di ogni altra considerazione. Non c’è moralità se l’uomo non vuole ciò che è giusto perché è giusto: «iustitia est rectitudo voluntatis per se servata (la giustizia è il rigore della volontà voluta per se stessa)». La volontà buona è quella non solo conforme al dovere, ma quella che compie il dovere per il dovere. Volere la felicità non è male; è male solo amare di meno ciò che è bene, il dovere morale. Ogni interesse, ogni volontà dell’utile che si insinui nelle nostre decisioni, toglie qualcosa al nitore della moralità.
Averroé (1126 – 1198)
Nato a Cordova nel 1126 Averroé fu giurista, medico, ma soprattutto commentatore profondo di Aristotele. Delle opere di Averroé il medioevo discusse e conobbe solo il Grande commento, in cui l’autore giunge ad affermare l’eternità del mondo e a negare l’immortalità dell’anima singola. Su queste basi ovviamente la filosofia di Averroé si trasformò ben presto in una fonte di preoccupazione per l’autorità ecclesiastica e di accesi dibattiti per i maestri parigini.
Il filosofo, prima protetto dai sovrani e poi esiliato perché ritenuto miscredente, morì in Marocco nel 1198.
L’intelletto potenziale non è corpo, non è facoltà del corpo, non è l’anima umana. L’intelletto potenziale è la facoltà di pensare tutte le cose, è disposizione essenziale per l’anima umana che senza di essa non conoscerebbe, ma è separata dall’anima umana; è l’ultima delle emanazioni divine dell’Intelletto agente, che è Dio stesso. È universale, eterno, unico per tutti ed è detto potenziale solo rispetto all’Intelletto agente. L’Intelletto agente illuminando di sé l’intelletto potenziale, fa sì che esso disponga l’anima umana ad astrarre dalle rappresentazioni sensibili i concetti e determina così nell’uomo l’intelletto acquisito. L’azione dell’Intelletto agente è come quella del sole; l’Intelletto possibile è paragonabile alla potenza di vedere; i concetti o forme intelligibili che l’anima deve astrarre dalle rappresentazioni sensibili sono come i colori, che erano in potenza prima di essere rivelati dalla luce, la quale fa passare all’atto la potenza di vedere così l’Intelletto agente illumina di sé le immagini della fantasia e, mentre unisce all’uomo quella sua emanazione universale che è l’intelletto possibile, lo fa passare all’atto della conoscenza.
Che cosa vi è di proprio, dell’uomo, nella conoscenza?
Il vero protagonista è l’Intelletto agente, unico, universale, il solo immortale (e lo stesso dicasi di quella sua emanazione che è l’Intelletto possibile). Anche l’intelletto possibile è unico in tutti gli individui, disposizione comunicata alle loro anime dall’Intelletto agente. Qual è la funzione propria dell’individuo nella conoscenza? In che cosa gli intelletti umani possono differenziarsi tra loro? L’anima individuale non ha di proprio che il materiale delle rappresentazioni, le immagini delle cose sensibili. Tali immagini non sussistono ugualmente in tutti gli individui essendo connesse alla diversa conformazione corporea di ognuno: per questo, pur operando un unico intelletto possibile sulle immagini, essendo queste diverse, diversi sono i pensieri degli uomini. La sola parte dell’anima non soggetta alla morte è l’intelletto possibile, ma esso le appartiene solo accidentalmente, le è prestato, non è cosa sua: dunque l’intelletto possibile – unico e universale – è incorruttibile, l’anima individuale è mortale.
Mosé Maimonide (1138-1204)
Nei due secoli dopo il Mille il movimento delle idee registra una straordinaria accelerazione e il loro conflitto diventa drammatico. È l’epoca in cui Aristotele ritorna in Occidente attraverso gli arabi e si assiste alla straordinaria fioritura della filosofia all’interno delle tre grandi religioni monoteistiche: Alfarabi, Avicenna, Averroé per gli arabi; Anselmo, Abelardo, Alberto Magno per i cristiani. Se la prima e la terza corrente di pensiero sono molto conosciute, non così quella della filosofia giudaica, che ha il suo più alto esponente in Mosé ben Maimoun, noto più comunemente come Maimonide.
Di quell’uomo colpisce innanzi tutto la vicenda personale. Nato a Cordova, in Spagna, nel 1138, per evitare la forzata conversione all’Islam, si rifugia in Marocco; qui però gli tocca ben presto sperimentare la triste situazione del cripto-giudaismo, per cui deve accettare formalmente la religione mussulmana senza tuttavia rinunciare alla sua identità ebraica.
La fuga in Palestina, dove si combatteva la seconda crociata, non servì a migliorare le cose. Ben più ospitale fu l’Egitto, in cui il filosofo è nominato «rappresentante della popolazione ebraica» di quel paese e il Saladino lo vuole addirittura medico di corte.
È un fatto che induce a molte riflessioni che il maggior filosofo e teologo del mondo ebraico nel medioevo scrivesse in arabo, la lingua allora più diffusa; e fu per quel tramite che egli poté agevolmente passare in Occidente ed essere uno degli autori più studiati dai pensatori cristiani, in primo luogo da Tommaso d’Aquino. Molti interrogativi di Tommaso avevano già appassionato lo spirito di Maimonide.
La profonda ammirazione per Aristotele, maestro di metodo e di cultura scientifica, non impedisce a Maimonide di coglierne i limiti della teologia razionale e di riconoscere apertamente che gli aspetti più profondi di essa sono inclusi e insieme trascesi nelle pagine della Bibbia.
Maimonide, simile in questo a Tommaso, non si preoccupa tanto di appurare se il mondo sia eterno o abbia inizio nel tempo; quanto se esiste necessariamente o per un atto di libertà. Per l’uno e per l’altro il mondo non potrebbe esistere, però, se non vi fosse un essere la cui essenza esclude la non-esistenza. Il biblico «Io sono Colui che è» significa proprio: «Io sono colui nel quale l’essenza coincide con l’esistenza».
Suscitò molte discussioni «la sua concezione tutta speciale dell’immortalità», come la designa il Gilson. L’idea base è che l’anima umana è di per sé una vita chiamata a «diventare spirito» e perciò a «farsi immortale». Chi però viene meno alla propria vocazione, si condanna a scomparire insieme al corpo. Forse questo era anche il pensiero dell’ebreo Spinoza nel quinto libro della sua Ethica.
Per Maimonide, in ogni caso, le cose stanno così. L’immortalità è un dono di Dio affidato solo a chi se ne renda degno. A chi la conquista.
Bonaventura (1217-1274)
Filosofia e teologia; l’esemplarismo
– La filosofia ha «regole certe e infallibili (regulas certas et infallibiles)», i supremi principi logici e ontologici. È certa nel suo ambito. Di Dio – che è la conoscenza più alta e il fine supremo dell’uomo – la ragione dice che c’è, ma la sua natura ci è rivelata per fede. La filosofia, se è fedele al suo programma, è «naturaliter christiana»: ogni verità viene dal Logos e tende a farci progredire nella sapienza che porta a Dio. Secondo Fernand Van Steenberghen in Bonaventura si ha una sintesi teologica e non filosofica; invece per Ètienne Gilson c’è distinzione ma non separazione.
– Bonaventura nella sua indagine si rifà esplicitamente al pensiero di Agostino, di cui sviluppa filosoficamente la dottrina della sensazione, che avvalora il realismo gnoseologico di Aristotele facendo scaturire la conoscenza umana sulla strada dei sensi, della memoria e dell’esperienza, e la teoria dell’illuminazione. Con Anselmo Bonaventura è convinto che non si tratta tanto di dimostrare l’esistenza di Dio, quanto di far vedere che è implicita in ogni nostra affermazione. «Se Dio è Dio, Dio esiste». È una cosa sola e medesima dire che Dio è Dio e dire che esiste. Bonaventura utilizza l’aristotelismo alla maniera del neoplatonismo arabo. Causa funesta di errori è l’antiplatonismo di Aristotele, l’aver negato la teoria delle idee come cause esemplari del mondo o «rationes aeternae». Le idee platoniche sono idee della mente divina: il negarle toglie il fondamento alla Provvidenza, che è ordine e finalità nell’universo, libertà per l’uomo. L’averroismo è lo sbocco logico dell’aristotelismo. In Dio ci sono le idee, modelli e similitudini di tutte le cose. In noi la similitudine è impressa dalle cose. L’idea divina esprime originariamente l’essere della cosa creata. Dio crea non per necessità di natura. Non c’è creazione ab aeterno: è contraddittoria una realtà contingente che ha principiato ad essere senza principio: ogni realtà esperibile ha atto e potenza e rimanda a Dio, che l’Atto puro. Dio crea liberamente e dal nulla. Bonaventura dice anche: post nihilim, nel tempo.
Conoscenza umana e illuminazione divina
Le idee divine sono il fondamento del nostro conoscere certitudinaliter. Conoscere con certezza vuol dire giudicare secondo principi immutabili. Questi principi immutabili (ad es. quello di non contraddizione), come pure le idee eterne di tutti gli esseri, hanno la loro «ratio aeterna» nell’idea dell’essere. In essa intuiamo la verità dei primi principi e le idee eterne di tutti gli esseri. L’idea dell’essere, in cui si risolve ogni altra, non è astratta dall’esperienza, ma a noi partecipata per una irradiazione di Dio. È «ratio motiva» del nostro intendere, «ratio regulans» del nostro giudizio insieme alla ragione, è «oggetto» della nostra conoscenza sebbene «non tota et sola» a causa dell’imperfezione del nostro intelletto. L’idea dell’essere implica le proprietà trascendentali (uno, vero, buono); «dicitur multipliciter»: è in potenza o in atto, relativo o assoluto, mutevole o immutevole. Radice della nostra idea dell’essere è l’«Ens simpliciter et aeternum, in quo sunt rationes omnium in sua puritate (l’ente semplice ed eterno nel quale si trovano le ragioni di tutte le cose nella loro essenza)». La luce creata dell’intelletto non può agire nella sua operazione senza il concorso della luce increata. Dio insegna non per ispirazione o infusione di scienza, ma «cooperando lumini dato et conservando illud (operando alla luce data e conservandola)». Come causa efficiente Dio conferisce all’uomo la facoltà di comprendere: lo crea soggetto intelligente, e dà pure il suo concorso, in ogni momento, perché l’uomo conosca il vero. Come causa finale Dio muove la potenza all’atto: le «rationes aeternae», confusamente intuite nell’unità dell’dea dell’essere, agiscono finalisticamente nella nostra mente come universali criteri di giudizio, regole per ogni giudizio. Le idee, rapportando ogni conoscenza al proprio valore assoluto, rinviano il soggetto conoscente alla realtà fontale e fondante ogni conoscere, Dio. L’uomo perviene allora alla cointuitio, che non è intuizione immediata di Dio, non è concetto, non è astrazione. È intuizione di ciò che è la radice e il termine della operazione della mente e di tutto l’ordine dell’essere, di ciò che fa la necessità e l’assolutezza dei primi principi: cointuizione di Dio non in sé, ma in quanto realtà fontale di ogni conoscere. Le forme del conoscere: conoscenza sensibile; conoscenza scienziale: per astrazione, formazione dei concetti di cose materiali; conoscenza sapienziale: Dio, anima, i supremi principi. C’è un’intuizione oscura dell’intelligibile per irradiazione in noi della luce divina e non per elaborazione a partire dal sensibile.Attualità di Bonaventura
Settecento anni fa l’America non era ancora stata scoperta, la Russia e la Cina erano misteri aperti agli avventurieri e ai missionari, la lingua ufficiale dell’intera Europa era il latino, il mondo civile corrispondeva pressappoco con l’Europa, «la cristianità era un gran mantello di foreste e di lande forato da radure coltivate» (Jacques Le Goff), Parigi, Milano e Firenze contavano non più di 100.000 abitanti; e tuttavia, in un’epoca che pare tanto lontana da noi vissero uomini come Francesco e Bonaventura, Alberto di Colonia e Tommaso d’Aquino, il cui messaggio è quanto mai attuale anche per noi, avendo individuato esigenze radicate nella struttura più profonda dell’umanità. Quali le ragioni d’attualità di Bonaventura? Più d’una.
Nel momento in cui la riscoperta della natura, già avviata nel sec. XII, cominciava a essere condotta nel XIII secolo a livello di osservazione scientifica a Oxford, dal francese Roberto Grossatesta, e a Colonia dal domenicano Alberto, Bonaventura pone al centro della sua speculazione il tema del raccordo tra le due forme del sapere e della loro unificazione a un livello più alto. Lo scienziato si attenga ai fatti e verifichi come meglio può le ipotesi di spiegazione, le «veritates ex suppositione». Egli conosce le idee in quanto «rationes moventes», cause efficienti, tali cioè da strutturare i fenomeni nella loro specificità e connessione. È il punto di vista della scienza ed è una conquista mirabile e necessaria. La scienza è fattrice di limitate certezze, ma preziose nel loro ordine. Essa scopre le costanti del mondo dei fatti e le utilizza per rispondere di volta in volta all’indefinita serie dei bisogni e degli interessi in cui si manifesta il cammino dell’uomo nella storia. Ma il sapere scientifico non basta. Nessuna scienza è in grado di offrire un senso globale alla vita dell’uomo, né di giustificare lo scopo delle sue stesse scoperte. La scienza non può afferrare da sola il suo stesso significato, né prescrivere la direzione dei suoi possibili sviluppi. Perché la scienza e il mondo della tecnica che ne deriva abbiano una direzione umana, come diceva Henri Bergson, occorre ad esse «un supplemento d’anima», una chiarezza di visione dei fini più alta, una sapienza capace, con la ragione e con la fede, di rispondere ai nostri interrogativi di fondo. Le «rationes moventes» devono integrarsi alle «rationes quietantes», pacificanti, della verità che illumina e che salva. Alle soglie dell’età moderna François Rabelais ammonì che «la scienza senza la coscienza sarà la rovina del mondo». Noi che viviamo nell’età atomica, del terricidio ecologico e delle manipolazioni biologiche comprendiamo il fallimento del mito di un progresso che automaticamente sarebbe stato capace di sanare le ferite e distruggere i mostri che produce. Noi oggi avvertiamo l’urgenza di ridare il primato a ciò che è primo nell’ordine dei fini e dei valori. L’uomo ha bisogno di alimentare la sua unità interiore, altrimenti la proliferazione delle scienze ne distruggerà la personalità. Il pensiero di Bonaventura su questo punto di capitale importanza può essere così riassunto: «il pensiero umano ha compiti che vengono prima e che vanno oltre la scienza a cominciare dal problema della consapevolezza di sé, della qualità morale della vita e del destino ultimo dell’uomo come singolo e come specie». I concetti sono rigorosamente bonaventuriani, anche se le parole ora citate sono di un grande fisico del nostro tempo, Erwin Schrödinger. E si potrebbero rintracciare concetti e termini analoghi in Max Plank, in Max Born o in Albert Einstein.
Bonaventura, in perfetta sintonia con Francesco, ha una concezione nuziale del rapporto tra il Creatore e la creazione, tra Dio e il mondo, tra l’Ente e gli esistenti. Dio si rivela per così dire in primo luogo effondendosi nel mondo, nella creazione. Il nesso originario e permanente tra la divina sorgente e ciò che da essa discende è per Bonaventura una evidenza che può essere oscurata, ma non negata. Non si può intuire un qualsiasi esistente senza cointuire l’Ente che è l’assolutamente primo (primitas) e la pienezza sorgiva (fontalis plenitudo) di ogni essere. Cointuire significa vedere, sentire, pensare, percepire a un tempo, simultaneamente, insieme. Nell’atto di intuire l’effetto, si cointuisce la causa. Non è pensabile il relativo, il contingente, il diveniente se non in rapporto all’Assoluto, all’Atto puro che lo pone nell’essere. «Semper cognivimus implicite Deum in quolibet cognito (sempre conosciamo implicitamente Dio in ogni realtà conosciuta)», scriverà Tommaso, accogliendo significativamente nel suo pensiero questo aspetto fondamentale della filosofia bonaventuriana. Ogni giudizio di esistenza (aliquid existit), reca in sé implicitamente l’affermazione di Dio (quia Deus est). Infatti contro l’assurdità del niente da cui tutto sorgerebbe sta l’affermazione spontanea dell’Assoluto come condizione costitutiva del reale e della sua intelligibilità. «Si est ens, est ens primum quod ab alio non educitur (Se esiste un ente, è l’ente primo che non deriva da un altro)» (De Mysterio Trin.). Tutti gli esseri che sono per partecipazione rinviano a colui che è per essenza l’«Ipsum esse subsistens. Aliae creaturae possunt considerari ut res, vel ut signa (Essere stesso sussistente. Le altre creature possono essere considerate come cose o come segni)» (I Sent. Dist., III); come res vengono intuite, come signa vengono cointuite. La realtà di ogni essere è un compiuto fenomeno ed è insieme un vestigio e un significato eccedente. Le creature hanno un proprio spessore ontologico, ma si qualificano anche per il loro precipuo ruolo allusivo. Chi si ferma alle creature «ut res», potrà anche pervenire a una loro conoscenza scientifica; ma solo chi oltrepassa i dati sensibili e la legalità scientifica dei fenomeni saprà, in armonia con un bisogno spontaneo dell’uomo, cogliere il significato profondo delle creature «ut signa», e potrà così non perdersi nel dedalo delle conoscenze particolari o meramente strumentali. Al di là di una conoscenza strumentale delle cose, esiste anche una loro conoscenza noetica. «Omnis creatura clamat generationem aeternam (ogni creatura proclama l’eterno generare)», «ogni creatura è una parola divina (verbum divinum omnis creatura)».
Ogni vestigium è un dito proteso verso Dio. La creazione è un immenso sacramento. «Chi non viene illuminato da tanta magnificenza delle cose create è cieco. Chi non si desta fra così alto clamore è sordo. Chi non rende lode a Dio per così numerosi effetti è muto. Chi non rintraccia la prima origine in base a così tanti riferimenti è stolto» (Itinerarium mentis in Deum, 1, 15). Gli atei, come disse l’illustre fisico Max Planck, sono coloro che pensano a metà. «Ateismo, indizio di forza intellettuale, ma solo fino a un certo punto», aveva già osservato Pascal (Pensées, fr. 225 Brunschvicg).
Bonaventura non ha scritto nessun saggio sulla bellezza e, nello stesso tempo, da vero figlio di Francesco, il tema della bellezza domina tutti i suoi scritti. Quali le intuizioni più originali? È difficile scegliere. Secondo Bonaventura la bellezza del mondo e delle creature umane si fa visibile in se stessa soltanto quando si è compreso il riferimento alla bellezza originaria. Anche l’estetica ha bisogno di una dimensione religiosa ed è inspiegabile senza di essa. Un mondo deserto di bellezza, non sarebbe più un mondo creato da Dio e abitato dall’uomo. Splendore dell’essere, il bello è il luogo cosmico dell’irradiamento del divino. La bellezza del creato è espressione di Dio. Quindi conduce obiettivamente oltre se stessa. È scala per ascendere, ala per innalzarsi, non trappola né oggetto di culto idolatrico. «Chi incontra la bellezza non può reagire a questa offerta con interesse, ma solo con stupita ammirazione. Il momento della bellezza si avverte come libertà, gratuità, disinteresse. La bellezza delle cose è espressione di Dio e quindi conduce obiettivamente oltre se stessa. Ciò che è autenticamente bello desta in noi il senso dell’infinito». La bellezza traduce sensibilmente il senso dell’Invisibile. Vi è quindi nella bellezza naturale e artistica una bipolarità, una tensione che le è essenziale tra ciò che è espresso e l’inesprimibile, tra il sensibile e l’Invisibile, tra la gloria di Dio che è narrata dalla creazione e il mistero inesauribile di Dio, che è e rimane l’«insperabile bellezza» (Gregorio di Nissa). Per Francesco e Bonaventura il mondo è meravigliarsi in quanto tutte le cose sono viste nella loro segreta bellezza, che è Cristo, il Verbo per cui tutte le cose sono state fatte, il Verbo che si è fatto carne per abitare in mezzo a noi.
La concezione di Bonaventura conferisce all’uomo una centralità e una dignità ancor oggi non sufficientemente messa in rilievo. L’uomo è «tamquam finis omnium et consummatio (come il fine e il compimento di ogni cosa)» (II Sent., d. 17, a. 1, q. 3); «egli è senza alcun dubbio il fine e il compimento di tutto ciò che esiste» (Brev., 2, 4). La sua ragione è fatta appunto per «disegnare in sé tutto il mondo» (Collationes in Hexaemeron, 4, 6), la sua anima per farsi in certo senso cosa. Se venisse meno al suo fine, l’uomo defrauderebbe non solo se stesso, ma anche la creazione intera che in lui esprime la sua parte più eccelsa (III Sent., d. 20, q. 1 concl.). L’uomo è medietà e punto d’incontro tra Infinito e finito, tra Spirito e materia. Egli è l’occhio del mondo che si apre su Dio; egli è micro-théos, essere fatto a immagine del creatore, l’animale che è bisognoso di Dio e insieme capace di Dio. Bonaventura ha preceduto la speculazione pascaliana ed esistenzialista nel ricordare l’inseparabilità nell’uomo di miseria e grandezza, e la sua variabilità profonda, per cui la sua condizione è continuamente determinata dal suo potersi atteggiare in un modo piuttosto che in un altro di fronte al mondo, a se stesso e a Dio. L’uomo è un essere la cui rovina sta a porta a porta con la sua salvezza. L’uomo è viator, è un viandante in cammino. Ma verso quale traguardo? La sua caratteristica più alta – al di là dell’andatura eretta, del linguaggio, della capacità di fabbricare utensili, di vita, di creazione artistica, di scienza, di vita morale e religiosa – è quella che autori così diversi come Nietzsche, Sartre e Bergson mettono così bene in evidenza: l’uomo ha di che superarsi, di che oltrepassarsi, è fatto per l’Infinito. Egli è nato per diventare deiforme, simile a Dio. L’uomo non si realizza che aprendosi a colui che lo fonda. Bonaventura scrive: «Occorre trascendere verso l’eterno […] Nessuno può essere beato, se non supera (va al di là) se stesso (Oportet nos trascendere ad Aeternum […] Nullus potest esse beatus, nisi supra seipsum ascendat» (Itin., 1, 1). E altrove: «Nulla soddisfa l’anima se non ciò che supera la sua capacità di comprendersi» (De Sc. Christi, q. 7 c). L’agostiniano «fecisti nos ad te, Domine, et cor nostrum inquietum est donec requiescat in te (Signore ci hai fatto per te, e il nostro cuore è inquieto se non riposa in te)» non poteva avere un’eco più alta e un commento più profondo.
Giovanni Duns Scoto (1266-1308)
Per Étienne Gilson: Duns Scoto è una mente critica, che però non perviene ad una coerente sintesi tra agostinismo e tomismo. Oggetto proprio dell’intelletto è l’ens in commune: l’ente è una intentio in cui tutte le cose convengono. In linea di diritto nessun ente è escluso dall’orizzonte intellettuale dell’uomo; in linea di fatto la nostra conoscenza prende l’avvio dalle cose sensibili. Nella Ordinatio risponde alla domanda su come concepire l’ente. Univocamente. Univocità che riguarda il concetto, communitas concettuale e non fondo comune della realtà delle cose. «Chiamo univoco un concetto il quale è uno in modo tale che la sua unità è sufficiente a provocare contraddizione, se lo si afferma o lo si nega d’una medesima cosa» (Ordinatio). Come si conquista il concetto di «ens in commune»? Per astrazione, ma un’astrazione che esige l’implicita presenza dell’innata idea dell’essere. L’astrazione scotista intende l’universale in modo diverso dal tomismo: l’astrazione non è un disindividuare l’oggetto rappresentato dal fantasma, ma un rivestire la natura della modalità universale. L’essenza non è per sé né universale né singolare; la sua individuazione sarà una specie di contrazione ontologica. «È la realtà ultima che spiega l’individualità, cioè la sua perfezione, grazie alla quale una realtà haec est, è questa e non altra. Da qui il termine «haecceitas», che indica quella formalità o perfezione per cui ogni ente è quello che è e si distingue da ogni altro» (G. Reale, D. Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, I, La Scuola, Brescia 19834, p. 462).
Secondo Scoto, il concetto filosofico di Dio è il concetto di infinito intensivo. «Aliqua natura est effectibile (qualche natura è in grado di produrre)»: che cosa sia possibile è verità di ragione. Se qualcosa è possibile, è necessaria una causa prima fondamento della possibilità stessa. La possibilità di Dio è incontraddittoria: se Dio è, è possibile.
Guglielmo di Occam (1280-1349)
Occam chiude la prima scolastica gettando i germi del fenomenismo. L’atmosfera in cui nasceva la filosofia moderna era pervasa di nominalismo empiristico e priva di metafisica: la filosofia moderna ignorò del tutto il genuino tomismo e con esso il meglio di Platone e di Aristotele. I primi passi della filosofia moderna si ricollegano alla speculazione scolastica dissidente da Tommaso; in particolare Occam fu l’anello di congiunzione tra il pensiero medioevale e il pensiero moderno.
L’intuizione fondamentale: la nostra mente, a contatto con l’esperienza, formula immediatamente alcuni concetti e alcuni principi assolutamente semplici, sui quali si fonda tutto il nostro sapere, principi così immediati e intimi da sembrare innati. In essi sarebbe embrionalmente contenuta tutta la metafisica: e questa metafisica embrionale è lo sfondo su cui noi vediamo e pensiamo tutte le cose.
In più occasioni e senza tentennamenti Occam ha affermato che l’universale non è reale. Ogni realtà è individua e nulla ha in sé che la accomuni ad altri individui (nominalismo empirico). Al di là del fatto non c’è nulla. Si può dare solo una cognizione intuitiva del singolare concreto. Non vi sono necessità provenienti dalla natura delle cose: dinnanzi a Dio onnipotente tutte non potevano non essere che contingenti. Non vi sono leggi di valore necessario e universale né in fisica, né in logica, né in metafisica. Non si ha un vero concetto, ma la rappresentazione di un oggetto del tutto singolare preso come simile agli altri della stessa specie. Occam negò la dottrina dell’analogia dell’ente, aderendo a quella dell’univocità difesa da Scoto; negò la distinzione tra essenza ed esistenza; negò il concetto metafisico di causa, riducendolo a quello di successione e vicinanza. Elemento radicale ed esclusivo del mondo corporeo è la quantità: era l’inaugurazione della considerazione quantitativa del mondo fisico. Secondo Occam «più che preoccuparci di che cosa siano i fenomeni occorre preoccuparci del come si verificano, non la natura, dunque, ma la funzione. Dalla metafisica si passa alla fisica, fisica come disciplina moderna, le cui implicazioni troveranno poi largo sviluppo nei secoli successivi. Queste idee, infatti, porteranno alla matematizzazione della scienza e quindi all’applicazione dei metodi del calcolo matematico all’intelligenza delle diverse fasi dei fenomeni. La via della fisica moderna comincia a sostituire la via della ricerca aristotelica, che è fisico-metafisica. Infatti la visione gerarchica dell’universo è soppiantata dalla visione di esso come un insieme di individui, nessuno dei quali costituisce il centro o il polo degli altri» (G. Reale, D. Antiseri, op.cit., I, p. 478).
Conseguenza di quanto sopra è che non si può dimostrare la spiritualità, l’immortalità dell’anima, la libertà. La libertà però si sperimenta. Il criterio della moralità intrinseca non esiste: Dio può comandare alle creature che lo odino, e l’odio a Dio sarebbe buono. Dio può fare anche ciò che per l’uomo è peccato, poiché non è peccato ciò che nessuno gli proibisce.
NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate.