L’Umanesimo rinascimentale

«Dal momento che siamo nati nella condizione di essere ciò che vogliamo, è nostro dovere aver cura specialmente di questo: che non si dica di noi che essendo in onore non ci siamo accorti di essere diventati simili a bruti e a stolte giumente, ma di noi si ripetano piuttosto le parole del profeta Asaph: -siate iddii e tutti figli del cielo-. Sì che, abusando dell’indulgentissima liberalità del Padre, non ci rendiamo nociva invece che salutare la libera scelta che egli ci concesse. Ci afferri l’animo una santa ambizione di non contentarci delle cose mediocri, ma di anelare alle più alte e di sforzarci con ogni vigore di raggiungerle, dal momento che, volendo, è possibile» (P. della Mirandola)

«Non mi sento costretto a credere che quello stesso Dio dal quale siamo stati dotati di comprensione, ragione e intelletto abbia inteso che ci dimenticassimo del loro uso» (G. Galilei)

I CARATTERI DELL’UMANESIMO RINASCIMENTALE1

L’Umanesimo rinascimentale è un’epoca importante della cultura, un’epoca complessa e controversa, che nella sua unità ideale va dal XIV al XVI secolo. Petrarca (1304-1374), scopritore di codici e poeta, discepolo di Cicerone e di Agostino, apre l’Umanesimo; Leonardo (1452-1519) opera il passaggio al Rinascimento propriamente detto, di cui Galileo (1564 – 1642) col metodo sperimentale e Campanella (1568-1639) con l’affermazione dell’io come autocoscienza segnano, sul terreno scientifico e filosofico, il terminus ad quem, con notevole ritardo rispetto alla poesia e all’arte, che avevano concluso il loro ciclo storico con la morte di Michelangelo (1564).

La concezione antistorica di Medioevo e Umanesimo rinascimentale come mondi chiusi e opposti nasce dalla rappresentazione che gli stessi umanisti vollero dare di sé. Questa immagine falsata di due epoche, che pure si succedono immediatamente l’una all’altra nel tempo, fu sviluppata dalla storiografia illuministica prima, idealistica e positivistica poi, fino a quando fu attaccata e profondamente modificata dalla più agguerrita storiografia del secolo XX, la quale ha avuto il merito di operare, entro quella compatta realtà storica designata genericamente come Medioevo, una serie di importanti distinzioni cronologiche, ambientali e culturali e di mostrare l’esistenza di una serie di Umanesimi che hanno preceduto e, in un certo senso, preparato l’Umanesimo rinascimentale.

Il risveglio intellettuale in Europa divenne un fenomeno di grande portata e irreversibile, a partire dalla rinascita carolingia, la quale «trovò il suo strumento per eccellenza nella cultura latina» (Henri Pirenne). Nell’età durissima dell’anarchia feudale, anche quando la Santa Sede divenne un giocattolo nelle mani dell’oligarchia romana, fu la Chiesa e non lo Stato feudale il vero organo della cultura. Lo studio, la letteratura, la musica e l’arte, le tradizioni di una civiltà più raffinata, i risultati della stessa recente cultura carolingia, «tutto esisteva principalmente nella Chiesa e per la Chiesa, che era rappresentante della tradizione latina di cultura e di ordine come degli ideali morali e spirituali del cristianesimo» (Christopher Dawson). Una volta superata la seconda e più terribile serie di invasioni barbariche, la cultura torna dopo il Mille a diffondersi e ad esprimersi in movimenti e personalità di eccezionale interesse.

L’Umanesimo del secolo XII che ebbe in Francia i suoi più celebri centri di irradiazione (Le Bec, Parigi, Chartres, Reims, Orlèans), fu operante in modo notevole anche in Inghilterra e in Germania e, per il diritto, in Italia. La rinascita del secolo XII non fu accentrata intorno ad una corte o a un asse dinastico e, a differenza del Rinascimento italiano, gli inizi non furono esclusivi di un Paese (Charles Homer Haskins). Anselmo d’Aosta, Guglielmo di Conches, Ottone di Frisinga, Bernardo di Chartres, Abelardo, Giovanni di Salisbury sono personalità eminenti che onorano la cultura universale di ogni tempo, ma che fiorirono nel XII secolo, coltivarono i loro studi con un preciso riferimento alla lezione dei classici di cui disponevano, con grande originalità e insieme con acuta visione del divenire storico. La tanto citata osservazione «noi siamo come nani sulle spalle di giganti e vediamo più cose e più lontano degli antichi non per nostra superiorità di acume o d’ingegno, ma perché sono essi che ci sollevano e ci innalzano in virtù della loro statura gigantesca» è di Bernardo di Chartres.

I frutti di questo grande risveglio divennero ancora più evidenti quando il ritorno di Aristotele in Occidente e, mediante il genio di Tommaso, la sua incorporazione nell’organismo culturale del cristianesimo, in una sintesi rigorosa e insieme aperta ad ogni apporto, di qualsiasi provenienza, purché conforme all’esperienza e alla verità, fecero del secolo XIII il secolo della rinascita filosofica e della speculazione teologica. La filosofia del secolo XIII ci dette un autentico umanesimo filosofico e cristiano, inaugurando una nuova e più profonda valutazione dell’aspetto razionale della natura umana e dell’unità della persona, com’è dimostrato dalla polemica tomistica con l’averroismo. Il compito storico di Tommaso fu di giungere ad un’autentica comprensione dei grandi maestri del passato, di conciliarli tra loro in una visione comprensiva di verità non opposte e anzi, proprio perché situate su piani diversi, capaci di integrarsi a vicenda. Tommaso si confrontò criticamente con Platone, con Plotino e lo pseudo-Dionigi non meno che con Aristotele e Agostino, perché il suo fine ultimo non era quello di conoscere ciò che altri aveva pensato, ma di scoprire la verità. Gli esempi più notevoli – ha osservato Jaeger – di questo atteggiamento sono i commentari di Tommaso, in particolare quelli su Aristotele. «Non troviamo esempi di questo tipo di comprensione che è al tempo stesso particolare e generale, inventiva eppure assolutamente obiettiva, neppure se consideriamo i secoli del più dotto Umanesimo che seguì al periodo degli umanisti poeti del Rinascimento» (Werner Jaeger, Umanesimo e teologia, Ed. Corsia dei Servi, Milano 1958, p. 36). Nelle università Aristotele, un po’ alla volta, sostituì lo studio dei classici latini ed Étienne Gilson ha potuto parlare di «exil des belles lettres», esilio contro cui gli umanisti protestarono vigorosamente, a partire dal Petrarca, cristiano ma antiscolastico. Nondimeno non è lecito dimenticare che l’Umanesimo filosofico e teologico del Duecento ha trovato anche un’espressione poetica altissima nell’opera di Dante e che Dante, più di ogni altro, ci rivela pienamente il significato umanistico della filosofia di Tommaso e della rinascita aristotelica.

Appare quindi chiaro che l’Umanesimo rinascimentale non fu il fenomeno straordinario ed unico che si è voluto credere e che il contrasto di quella cultura con tutta la cultura precedente non fu affatto così netto come sembrò agli umanisti e come sembra ai loro seguaci moderni, se si pensa che lo stesso Medioevo conobbe risvegli intellettuali i cui fermenti non andranno perduti nei tempi successivi e la cui natura fu senz’altro molto vicina a quella del più famoso movimento quattrocentesco.

Vi è continuità storica tra Umanesimi medioevali e Umanesimo rinascimentale, tra Medioevo e Umanesimo, e questo punto dev’essere ormai ben chiaro; e, d’altra parte, ognuna delle due epoche, congiunte da un rapporto di successione, per cui il tramonto dell’una si confonde con il sorgere dell’altra, ha una propria fisionomia storica, ha sue originali caratteristiche.

L’Umanesimo rinascimentale si svolge in un quadro di condizioni storiche che sono in rapida evoluzione, assai dissimili da quelle di altre epoche, e si genera da un nuovo atteggiamento spirituale, da un’esaltazione della vita e dell’uomo che va al di là delle fonti bibliche e cristiane, a cui non era ignota la centralità dell’uomo nell’universo. La celebrazione dell’uomo, in cui vibra un entusiasmo nuovo ed esuberante nella passionalità e nell’espressione, e che cerca nell’autorità dei classici una fonte e una giustificazione, è il motivo comune dell’Umanesimo rinascimentale.

Questo atteggiamento di pensiero passa, però, attraverso variazioni molteplici, talvolta divergenti e tuttavia riconducibili, con una non lontana approssimazione, a tre orientamenti principali. In sintesi, nell’Umanesimo rinascimentale era diffusa la tendenza al compromesso tra l’inquietudine passionale e la coscienza cristiana, alla quale non si vuol rinunciare (Lorenzo il Magnifico e Lorenzo Valla); né mancava la componente del naturalismo immanentistico, a cui si accompagna il rifiuto o la messa tra parentesi, e comunque la svalutazione della misura cristiana dell’uomo (Machiavelli e Bruno). La corrente che sovrasta ogni altra, tuttavia, è quella dell’Umanesimo cristiano (da Petrarca a Cusano, da Ficino a Pico), che concilia in bella armonia lo studio dei classici e lo spirito cristiano, un’alta concezione della dignità dell’uomo e la profonda fedeltà all’ispirazione evangelica.

LE CORRENTI FILOSOFICHE DEL RINASCIMENTO

Il neoplatonismo

«L’età dell’Umanesimo e del Rinascimento è contrassegnata da una massiccia reviviscenza del platonismo, che crea una temperie spirituale inconfondibile. Reviviscenza del platonismo non significa, però, rinascita del pensiero di Platone quale noi lo troviamo espresso nei dialoghi. È vero che il Medioevo lesse pochissimi dialoghi (Menone, Fedone e Timeo) e che invece nel corso del Quattrocento i dialoghi furono tradotti tutti in latino e che già le versioni di Leonardo Bruni riscossero grande successo e che molti umanisti furono addirittura in grado di leggere e di intendere il testo greco originale; tuttavia il riscoperto testo platonico continuò ad essere letto alla luce della posteriore tradizione platonica, vale a dire in funzione dei parametri resi canonici dai neoplatonici. Il platonismo è giunto ai rinascimentali nella forma di neoplatonismo e per giunta con tutte le infiltrazioni magico-ermetiche e cristiane, e come tale venne accolto e riconsacrato» (Giovanni Reale, Dante Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, 2a ed., La Scuola, Brescia 1983, p. 37).

Massimo filosofo del primo Rinascimento è Niccolò Cusano (nato a Cues nel 1401 e morto a Todi nel 1464), «il primo, di una lunga serie di filosofi moderni, che non sarà vincolato alla tradizione della scuola ed alla professione stessa dell’insegnamento universitario» (Atti del Congreso internazionale in occasione del V centenario della morte di Nicolò Cusano, a cura di Giovanni Santinello, Sansoni Editore, Firenze 1970, p.108). Il padre, Hermes Krebs, era pescatore e battelliere. Il corpo di Cusano riposa in S. Pietro in Vincoli, il suo cuore è custodito nella cappella ch’egli stesso fece costruire a Cues. Cusano visse in pieno umanesimo e improntò di sé il movimento umanistico: l’insofferenza per l’aristotelismo tradizionale, l’aspirazione a una logica nuova e più duttile, l’alta rivendicazione della dignità umana, la funzione mediatrice attribuita alla natura umana ci fanno riconoscere in Cusano uno dei più grandi umanisti e uno dei maestri dell’Umanesimo. Lo sforzo di riaccordare all’opera viva della creazione la potenza e l’essenza vivificante del Creatore anima tutto il pensiero di Cusano, che in alcuni temi sfiora soluzione immanentistiche (teoria dell’explicatio e della complicatio, teoria della coincidentia oppositorum), mentre in altri, e non meno decisivi (concezione della docta ignorantia e del carattere congetturale della conoscenza umana), la trascendenza è esigita e l’Infinito è risollevato a causa trascendente del finito. Ne risulta che la sottile e complessa speculazione cusaniana, pervasa da una profonda suggestione estetica, approda a un sistema vacillante e aporetico. Per unanime giudizio la teologia è il centro unitario del sistema in tutte le sue fasi; in Cusano la teologia è rapita, con un inconscio slancio razionalista, nel circolo della speculazione più spericolata, ma non cessa per questo di essere teologia cristiana. Ernst Cassirer vede in Cusano il primo pensatore moderno per la coscienza che egli ebbe del problema gnoseologico e per la rescissione del vincolo che fino ad allora aveva unito la logica scolastica e la teologia. Per Nicola Petruzzellis ciò non basta ad autorizzare un’interpretazione «critica» della gnoseologia cusaniana.

Per Cusano la speculazione è movimento dal quia est (che è) al quid est (che cosa è), ma la distanza tra i due termini è infinita e dunque non cesserà mai il movimento del pensiero. L’intelletto dorme finché non è spinto a muoversi dallo stupore che suscita in esso il sensibile: la molteplicità del sensibile induce lo spirito a voler conoscere ciò che fa l’unità del sensibile e la sua stessa unità. «Nam igitur attingitur unitas, nisi mediante alteritate (infatti si raggiunge l’unità proprio solo attraverso la differenza)» (De coniecturis, II). Mens deriva da mensura: ma perché mai la mente tende a misurare le cose? Per giungere alla misura di se stessa, perché l’intelletto è misura vivente che scopre la sua capacità solo misurando le altre cose (Idiota, III).

Cusano, sviluppando originalmente spunti del neoplatonismo cristiano, vede nel mondo un’esplicazione in forma dispersa di un infinito che in Dio si trova in forma perfetta e concentrata. Nell’infinito coincidono tutti gli opposti e, a intendere ciò, la logica ordinaria non basta: noi possiamo solo congetturare, dal modo in cui gli opposti coincidono nell’infinito matematico (sicché, ad esempio, un cerchio infinito coincide con una retta, eccetera), una qualche similitudine del misterioso coincidere di tutto in Dio. La nostra sapienza più perfetta è, quindi, una docta ignorantia. Il concetto di docta ignorantia, come ogni agnosticismo filosofico attivo e rilevante, si converte nell’affermazione di un’infinita approssimazione al vero, cui sfugge tuttavia il termine supremo. Non si rinuncia però ad investigare. Grazie all’essere stato creato a somiglianza di Dio, l’uomo è il mondo intero in piccolo (microcosmo), perché concentra nella propria mente il pensiero di tutte le cose. Tuttavia tra la natura (anche umana) e Dio vi è un salto infinito, che solo la mediazione di Cristo può superare. La concezione dell’Assoluto in quanto «omnium rerum complicatio etiam contradictoriorum (la compresenza di tutte le cose, anche quelle contraddittorie)» è aporetica. In ogni coppia di opposti è facile ravvisare il polo positivo e quello negativo; la compresenza di entrambi si spiega nel vasto e vario regno del finito ma sarebbe assurda nell’Infinito. L’impossibilità di siffatta ammissione è riconosciuta implicitamente da Cusano quando afferma che in Dio la tenebra stessa è luce, con la conseguente impossibilità di intendere a che titolo le tenebre continuino a chiamarsi tali se in realtà sono luce.

Nel De pace seu concordantia fidei il concetto della docta ignorantia viene portato nel campo etico-religioso. Le varie forme del culto del divino sono tentativi diversi di concepire dogmaticamente l’inconcepibile. Uno solo è il culto e una sola la religione che i diversi riti presuppongono. Qui la scienza del non sapere diventa principio di comprensione religiosa non scompagnata però dalla convinzione che l’unità religiosa dell’umanità sia espressa proprio dal cristianesimo. È opportuno rintracciare in ogni forma di religione l’esigenza unitaria di verità, il cui logico sviluppo e compimento supremo è segnato dal cristianesimo, onde tutte le altre religioni sembrano gravitare idealmente verso di esso. Nel De pace fidei si ritrova una vocazione irenistica, ripresa poi da Pico della Mirandola e da Ficino, che consiste nella ricerca di ciò che unisce nella diversità, di una prospettiva comune anche nei punti e negli argomenti più controversi (Cesare Vasoli, L’ecumenismo di Niccolò da Cusa, in «Archivio di Filosofia», 1964, pp. 9 – 51). Nella comprensione più alta e spirituale del Verbum Dei possono intendersi anche le diversità umane, nel cuore d’una verità che trascende ogni contenuto particolare. La difesa della religione universale, dell’unico ordo catholicus esteso a tutti i popoli e a tutte le terre, non contrasta più con la varietà delle conjecturae elaborate dalle menti umane per rappresentare l’essere e la verità divina. Un vincolo permanente sempre resiste di fronte al mutare dei segni e dei simboli delle tradizioni religiose. Le diverse credenze e usanze sono altrettante testimonianze da integrare in una esperienza religiosa e speculativa sempre più approssimativa al suo fine incommensurabile. I «signa sensibilia veritas fidei (segni sensibili della verità della fede)» possono mutare, non muta però la verità che essi indicano.

In Italia l’interesse per il platonismo rivive soprattutto nell’Accademia fiorentina, di cui fu anima Marsilio Ficino (1433-1499). Dotti greci provenienti dall’impero d’Oriente in disfacimento – venuti a Firenze verso il 1438 per il concilio – diffusero la conoscenza diretta dei classici e suscitarono dispute accanite sulla superiorità relativa di Aristotele o di Platone. Ficino aveva sostenuto fin da giovane che Platone ed Aristotele, interpretati rettamente (e per lui neoplatonicamente), sono in accordo tra loro. Nel 1474, nel De christiana religione, egli sviluppò quest’idea. L’opera principale di Ficino, la Theologia platonica, lungamente elaborata e rimaneggiata, mostra poi come il platonismo conduca naturalmente al cristianesimo.

Ficino mira a rinnovare in una sintesi personale i motivi eterni del platonismo fatti confluire nella spiritualità cristiana. La dissonanza nella coscienza comune del tempo fra religione e filosofia è da lui rilevata con un senso acuto di intima sofferenza. Le più alte espressioni della spiritualità umana non possono essere tra loro in contrasto. La docta religio e la pia philosophia nascono in lui da una stessa, fondamentale esigenza. Bisogna liberare «philosophiam, sacrum Dei munus, ab impietate (la filosofia, sacro dono di Dio, dall’empietà)» e redimere «religionem sanctam ab execrabili inscitia (la santa religione dall’ignoranza esecrabile)». Le verità del cristianesimo spesso «tractantur ab ignorantibus atque ab his tamquam suibus conculcantur (sono trattate dagli ignoranti e da loro calpestate come da maiali)» e la religione purissima del Vangelo e della grande tradizione cattolica è confusa con le sue volgari deformazioni, onde «superstitio potius quam religio appellanda videtur (sembra dover essere definita una superstizione, piuttosto che religione)». Qui Ficino è nello spirito di Giustino, di Clemente Alessandrino, di Agostino e Tommaso. Con una differenza, però, che a Ficino deriva dal particolare clima umanistico: egli ravvisa nella sapienza precristiana non intuizioni felici prigioniere di errori funesti e neppure l’oscura esigenza o il preannuncio del messaggio cristiano, ma l’adombramento simbolico delle verità e degli stessi misteri del cristianesimo. Là dove Tommaso, con rigorosa coscienza speculativa, aveva enunciato il principio della distinzione tra la filosofia, nascente dalla ragione naturale, e la teologia, che si fonda sulla rivelazione, e si era preoccupato di fissare i limiti di entrambe per assicurare la libera collaborazione e precludere insieme la via a illecite inframmettenze, Ficino spesso dimentica la distinzione del naturale e del sovrannaturale, che ha nella teologia cristiana un valore essenziale.

Vi è una rivelazione del Logos nella creazione, nelle vette più alte della ricerca umana e dell’umano tendere all’Assoluto, al di qua della rivelazione del Verbo incarnato, il cui messaggio è compimento e definizione d’ogni altra parziale verità. Va a fondo delle cose colui che coglie l’unico vero oltre gli infiniti aspetti e tutto riconduce alla sorgente e al supremo volere, al Logos, a quella sola verità, che avrà più aspetti nel suo aprirsi un varco nel cuore degli uomini, ma che nella sua eterna presenzialità non può essere che una. La «teologia platonica», appunto, è intesa come il tipo esemplare di docta religio, di una conoscenza di sé attraverso la conoscenza di Dio e, viceversa, di una conoscenza di Dio attraverso la conoscenza di sé, come processo di conversione a Dio congiungendo filosofia e fede, ricerca razionale e rivelazione soprannaturale. La teologia platonica va oltre una considerazione puramente fisica della natura e va oltre ogni involucro mitico e fantastico. Essa non si ferma alla superficie di ciò che appare, non distacca assurdamente il mondo naturale dalle sue radici, dalla sua sorgente che è la volontà creatrice di Dio, come fa il peripatismo corrotto di indirizzo naturalistico: non si può, infatti, ammettere un processo infinito senza base e senza meta, come aveva già dimostrato l’Aristotele storico, il filosofo dell’atto puro, e ogni realtà è solidale con il moto intimo da cui si genera. Inoltre la teologia platonica confuta e interpreta correttamente l’immaginazione poetica, di cui sono rivestiti gli umani approcci a Dio: la teologia poetica è tutta volta a ridurre entro i limiti di un’immagine una verità metafisica e religiosa, la vera filosofia sotto la lettera e oltre la rappresentazione immaginosa coglie lo spirito che si apre all’Assoluto e gli muove incontro.

L’uomo, in quanto «copula mundi (congiunzione del mondo)», in cui si incontrano e si fondano gli sparsi elementi della realtà universale è, per così dire, il centro relativo dell’universo («centrum naturae»), che non esclude quel centro assoluto che è Dio, verso cui l’uomo gravita. Né si dimentichi che la centralità di Dio non è un’immagine, con cui si tende designare l’ineffabile presenza e l’intimità dell’azione causale di Dio, il quale, inconfondibile nella sua assolutezza e nella sua perfezione, resta pur sempre trascendente.

Grandeggia nella filosofia di Ficino l’affermazione dell’infinito, ma l’infinito è Dio (e non idealisticamente l’infinito immanente che si realizza individuandosi nel finito). Dio è assoluta unità e semplicità, incontaminata spiritualità. «Deus tanto rerum potentissimus omnium, quanto est omnium simplicissimus (Dio l’Essere tanto più potente di tutte le cose, quanto il più semplice di tutte)» (Theologia Platonica, I, cap. VI, f. 89, 1536). «Pura infinitas», Dio non si sparpaglia nel finito (neppure per aversi poi nuovamente a raccogliere in sé, come nell’idealismo, a ciclo dialettico concluso). «Ubicumque reperitur vel cogitatur esse, quod est universalis effectus, ibidem est Deus, qui universalis est causa (ovunque Egli si trovi, o si pensi che si trovi, visto che il risultato è universale, lì c’è Dio, che è causa universale)» (Theologia Platonica, II, cap. VI). Ficino proclama altamente «Deus ubique est» e condensa il suo pensiero in una formula mirabile: «Consistens itaque Deus in se, existit ubique (di conseguenza Dio consiste in sé ed esiste ovunque)». Dio è dovunque appunto perché permane in sé, nella sua indivisibile unità e nella sua pura spiritualità, senza disperdersi nel molteplice, senza inerire all’imperfetto, senza precipitare nel relativo. «Tutte le cose in una mutua convenienza convergono a un unico fine, essendo guidate da un solo principio» (Theologia Platonica). Dio è la causa esemplare dell’universo, in cui si riassumono le sue perfezioni: le cose sono in Dio in maniera eminente, nelle loro eterne cause esemplari, che si fondano in certo qual modo nell’unità di Dio. Dio è quel cerchio spirituale, il cui centro è dappertutto e la cui circonferenza non è in nessun luogo: «in omnibus non inclusus, extra omnia non exclusus (non compreso all’interno di tutto, non escluso al di fiori di tutto)» (Theologia Platonica, XVIII, cap. III).

Nella sua restitutio dall’esteriorità delle cose esperite all’interiorità del soggetto spirituale da cui si diparte l’atto conoscitivo, dalle cose conosciute al soggetto conoscente, l’uomo, spingendo al limite il processo dinamico di cui è protagonista, perviene a Dio e in lui ritrova il vero significato di se stesso e del mondo. L’agostiniano interior intimo meo, superior summo meo riecheggia di continuo nelle pagine di Ficino, il quale congiunge sempre all’essenziale agostinismo della sua ispirazione il ricorso a Platone: «Platone ha detto che la luce divina non si indica con il dito della ragione, ma si accoglie con la chiara serenità di un’esistenza devota».

Caratteristico del Rinascimento è il tema della dignità dell’uomo, svolto in particolare da Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494). Nella lettera del 1485 ad Ermolao Barbaro pone un’antitesi ipotetica tra filosofia e retorica, là dove il Barbaro voleva una conciliazione (una filosofia eloquente come quella di Platone, Cicerone e Agostino). La lettera vuole essere una difesa della filosofia contro l’ottusità dei pedanti: la filosofia persegue la verità e non il plauso del pubblico. La filosofia è tutta nel contenuto e impazientirsi per un’espressione poco elegante è segno di insolente insipienza, come se uno, sentendo parlare Socrate di morale, facesse molto caso e si irritasse del calzare slacciato. La terminologia filosofica ha esigenze di universalità e serietà di significato e non di latinità. Chi ha buon senso preferisce l’oro puro di conio tedesco all’oro falso di conio romano. Ciò che collega Pico al platonismo è l’interesse religioso che domina la sua attività speculativa. Nell’orazione De hominis dignitate il punto di partenza è la superiorità dell’uomo sulle altre creature, che era il tema favorito degli umanisti come Cusano e Ficino. L’indeterminatezza della natura umana offre all’uomo la libera scelta del suo essere e lo pone di fronte all’alternativa di degenerare tra i bruti o di rigenerarsi in Dio. La via della rigenerazione è data dalla scienza morale, dalla filosofia naturale e dalla teologia, che crea l’unione delle menti e dei cuori in Dio. Solo la teologia può dare «la pace invocata, la pace santissima, l’unione indissolubile, l’amicizia concorde, per cui tutti gli uomini non solo si accordano in quell’unica mente che è sopra ogni mente, ma in maniera ineffabile si fondono in un solo» (De hominis dignitate, fol. 133 r). Pico vuol cogliere di ogni dottrina ciò che vi è d’insigne, aggiungendo il proprio contributo perché, come notava Seneca, non bisogna credere che dopo gli antichi si sia esaurita in noi la forza di pensare. Una fiducia troppo ingenua e ottimistica spinge Pico a piegare al disegno del suo mosaico anche le tessere più ribelli e la materia più sorda, ma l’antitesi intrinseca a concezioni di diverse origini e tendenze resiste alla sua dialettica conciliatrice. La vagheggiata impresa di una sintesi suprema del sapere filosofico e teologico fallì sotto il peso di un’erudizione aperta alle suggestioni fantastiche del simbolismo orientale.

L’aristotelismo

La filosofia di cui si era servito il Quattrocento per tendere al trascendente era il platonismo, identificato in qualche modo, nella sua essenza, nel cristianesimo. Sia l’aristotelismo alessandrino che averroista rappresentano nell’Umanesimo rinascimentale l’anti-umanesimo in quanto negano il valore e la dignità della persona umana. L’esigenza di autenticità storica e il libero atteggiamento degli spiriti sul problema dell’autenticità dell’anima spiegano la sua vigorosa ripresa. La pretesa di vedere nel ritorno dell’aristotelismo la condizione della rinascita della diretta indagine della natura (Nicola Abbagnano) ci pare in contrasto con l’orientamento spirituale e metodologico di coloro che a buon diritto furono gli iniziatori della nuova scienza in opposizione alla filosofia della natura di Aristotele. Infatti solo una parte del naturalismo rinascimentale è aristotelico, e non la più originale: il resto è, piuttosto, antiaristotelico, in quanto la sua interpretazione della natura veniva considerata inesatta. L’aristotelismo tende a delineare una concezione del mondo fondata su un ordine immutabile, necessario presupposto, conditio sine qua non di una pura ricerca naturalistica. Nonostante il rinnovato interesse verso Aristotele, il filosofo stagirita cessa proprio nel Rinascimento di essere l’autorità pressoché indiscussa.

Il ritorno all’Aristotele originario fu iniziata in Italia da Giorgio Trapezunzio e da Ermolao Barbaro, ma l’autore più profondo è senza dubbio Pietro Pomponazzi (1462-1525) detto Peretto: temperamento scettico con atteggiamenti illuministici ante litteram, acuto nell’osservazione ma incapace di uno scandaglio in profondità. La sua opera più importante è il De immortalitate animae, che provocò accese discussioni. Secondo Pomponazzi il mondo è un sistema di fatti escludente la possibilità di un intervento diretto di Dio. Dio è causa universale delle cose. La sua azione è «mediata» dai corpi celesti e l’ordine naturale del mondo è regolato dal determinismo astrologico. Nel determinismo naturalistico rientra il nascere e il perire della storia: popoli, Stati, religioni. L’anima intellettiva è principio di intendere e di volere immanente all’uomo. Rispetto all’anima sensitiva degli animali, l’anima intellettiva dell’uomo è capace di conoscere l’universale e il soprasensibile. Tuttavia essa non è un’intelligenza separata, tanto è vero che non può conoscere se non mediante le immagini che le derivano dai sensi. Ma se così è, l’anima non può strutturalmente fare a meno del corpo, giacché privata del corpo, non potrebbe svolgere la funzione sua propria. Pertanto essa va considerata come una forma che nasce e perisce col corpo, non avendo alcuna possibilità di agire senza il corpo. Le funzioni che fanno argomentare per la mortalità dell’anima – afferma Pomponazzi – sono innumerevoli, mentre due sole, e cioè l’intendere e il volere, fanno argomentare per l’immortalità. Come può avere un’anima immortale chi vive immerso nelle funzioni sensitive e vegetative, quasi senza sospetto di una vita superiore? Tuttavia, afferma Pomponazzi, che l’anima sia immortale è articolo di fede e su questo non ha dubbi. La tesi non è in contraddizione per il principio della «doppia verità», secondo il quale «una cosa può essere più probabile secondo la ragione e secondo Aristotele, per quanto l’opposto debba essere accettato come vero sulla base della fede» (Paul Oskar Kristeller).

Sopprimendo la giustizia ultraterrena, la tesi della mortalità dell’anima non sopprime la moralità. Qui Pomponazzi prelude a Spinoza e si ricollega agli stoici. La buona volontà ha valore assoluto. Il premio essenziale della virtù è la virtù; così è per il vizio: essenziale è solo la pena della colpa, accidentale la pena del danno. Vi è, rispetto all’intelletto speculativo e fattivo, che trasforma con il lavoro la materia, la supremazia della ragione pratica, coscienza e guida nei doveri morali.

Sulla questione dell’immortalità dell’anima numerose critiche furono rivolte a Pomponazzi da studiosi a lui contemporanei.

Agostino Nifo, che aveva sostanzialmente negato l’immortalità dell’anima, insorse a difenderla con il libro De immortalitate animae per cortigianesco opportunismo, ma con superficialità.

Crisostomo Javelli, dotto domenicano, secondo il desiderio espresso da Pomponazzi, fa uso nelle Solutiones rationum animi mortalitatem probantium, che seguono il Defensorium di Pomponazzi contro Nifo, di soli argomenti teologici. Forse a Pomponazzi la confutazione del domenicano serviva come lasciapassare. Ma Javelli pone il problema da un punto di vista storico e schiettamente filosofico nelle Questiones naturales e nel De animi humani deficientia. Gli argomenti che porta a sostegno delle sue tesi sono i seguenti: a) Aristotele non tratta il problema dell’anima se non come atto del corpo e lascia aperta con il suo riserbo la via sia all’interpretazione che nega sia a quella che afferma l’immortalità; b) contro l’impostazione attribuita da Pomponazzi alle funzioni sensitive e vegetative per dedurne la mortalità dell’anima, Javelli fa osservare che la natura di una cosa non si manifesta «nisi ex sibi propria et nobiliore sua operatione (se non grazie a un’attività sua propria e più nobile)» e che «operatio propria hominis non est sentire, sed intelligere (attività propria dell’uomo non è percepire con i sensi, ma con l’intelligenza)»; c) la prevalenza in molti uomini degli appetiti sensitivi è fatto che accade «per accidens, sicut per accidens infirmus iudicet vinum amarum, qui si restituatur sanitati non sic iudicabit (per una circostanza accidentale, come per una circostanza accidentale un malato giudicherebbe sgradevole un vino, mentre non lo giudicherebbe così se lo riportasse alla salute)».

Gaspare Contarini afferma che l’immortalità dell’anima è verità di ragione, di cui si può trovare conferma anche nella dottrina aristotelica, anche se è più importante la forza della ragione (vis rationis) dell’autorità di Aristotele. Infatti anche i bruti, dotati di solo appetito sensitivo, agiscono liberamente: solo un’anima spirituale giustifica l’esercizio della libertà. Inoltre l’intelletto non è unito al corpo come la mano al braccio, per cui tagliato il braccio rimane recisa anche la mano.

Il naturalismo

Tre sono i momenti in cui si incarna il naturalismo rinascimentale: la filosofia della natura, la magia, la scienza.

La filosofia della natura è in opposizione all’aristotelismo e il suo massimo rappresentante è Bernardino Telesio. La natura è concepita come una totalità vivente, ma è retta da propri principi. Vi è il ripudio della magia e dei presupposti filosofici dell’aristotelismo, surrettiziamente introdotti a spiegazione di fenomeni naturali. Bernardino Telesio nacque nel 1509 a Cosenza, dove morì nel 1588. L’impostazione della sua filosofia è nel programma: la natura va studiata non con metodi astrattamente deduttivi, ma secondo principi che le sono propri. Il canone metodologico è nel titolo dell’opera prima, il De rerum natura iuxta propria principia, stesa tra il 1544 e il 1553. Occorre conoscere la nuda oggettività della natura, affinché gli uomini possano «non solo sapere, ma anche avere il potere su tutto». In ciò Telesio precorre Bacone. L’impostazione animistica della natura, che riprende l’ilozoismo presocratico, è in comune con la magia; vi è nella materia una sensibilità primordiale, pur essendo priva di organi di senso. I principi generali o agenti della natura sono il caldo e il freddo, che agiscono su una materia in sé uniforme, diffusa su tutto l’universo: il caldo dilatandola e assottigliandola, il freddo concentrandola e condensandola. Il cieli si muovono circolarmente non perché mossi da intelligenze motrici o da cause finali, ma per principio di movimento. Vi è una dualità anche nell’uomo: un’anima prodotta dal seme, psiche («spiritus e semine eductus»), con la quale sente con coscienza più viva, e concepisce amore o odio per le cose; e un’anima immortale, infusa da Dio, mens o «forma super-addita», che è nella natura ma non appartiene alla natura, in quanto agisce indipendentemente dagli impulsi sensitivi e aspira a unirsi al divino e a contemplare Dio. Vi è una duplice appetendi vis (natura dell’appetito): lo spiritus o appetito sensitivo, che tende all’autoconservazione, a soddisfare i bisogni del senso e gli obblighi della vita associata e la mens o voluntas, virtù e destino immortale. La libertà sottrae l’uomo al determinismo e lo solleva alla scelta tra il tempo e l’eternità. Nella conoscenza del modo fisico vi è la preminenza della sensibilità: vi sono impressioni dirette e idee-ricordi detti concetti, ma che sono propri del senso. Le impressioni sensibili sono limitate ma certe; l’intelligenza è generalizzazione di percezioni sensibili, prolungamento e sostituto inadeguato del senso. Per Telesio vi è superiorità delle scienze sulla matematica, in quanto quest’ultima è più astratta. Due altri filosofi che rientrano in questo filone di indagine della filosofia della natura, e che verranno trattati a parte, sono Giordano Bruno e Tommaso Campanella.

La magia: si basa sull’equivalenza tra causa e simbolo e presuppone l’universale animazione della natura. I maggiori esponenti in Italia sono Gerolamo Fracastoro (1478-1553), Gerolamo Cardano (1501 – 1576) e Giovan Battista Della Porta (1535-1615). Nel contesto delle idee del Cinquecento è impossibile tracciare linee di netta demarcazione tra il complesso delle scienze da un lato e la riflessione speculativa e magico-astrologica dall’altro. Magia e medicina, alchimia e scienze naturali e perfino astrologia e astronomia operano in una sorta di stretta simbiosi. «Il Rinascimento pose tra il Medioevo e l’Età moderna, spesso ricollegandosi al passato, idee della tradizione neoplatonica, idee derivanti dalla cabala e dalla tradizione ermetica, e idee magiche e astrologiche. Si tratta di idee che la storiografia più aggiornata riconosce essere un ingrediente non eliminabile della rivoluzione scientifica. Certo, uno degli esiti più sicuri della rivoluzione scientifica sarà la progressiva (e in qualche modo mai totale e definitiva) espulsione delle idee magico-ermetico-astrologiche dall’ambito della scienza. Durissima è stata contro il pensiero magico la critica di Bacone. Bacone respinge decisamente l’ideale del sapere magico, appartenente ad un singolo illuminato, e quindi estraneo al pubblico controllo dell’esperienza e quindi arbitrario e oscuro. Alla genialità incontrollata Bacone contrappone la pubblicità del sapere; al singolo illuminato una comunità scientifica che opera con regole conosciute; all’oscurità la chiarezza; alla sintesi affrettata la cautela e il paziente controllo. E questa immagine della scienza, e l’etica che ne derivava, fu variamente condivisa dagli iniziatori della scienza moderna» (Dario Antiseri, Giovanni Reale, op. cit., p. 150).

La scienza: riduzione della natura a pura oggettività misurabile, aperta in tal modo al dominio dell’uomo. Il metodo della nuova scienza è auspicato da Francesco Bacone (1561-1626), nella forma dell’induzione, che salga da osservazioni particolari a generalizzazioni gradualmente più vaste, e che offra all’uomo, insieme con la conoscenza della natura, la possibilità di dominarla.

Avendo tracciato le linee del metodo sperimentale e avendone dimostrato la validità sul terreno positivo, Galileo Galilei (1564 -1642) è da considerarsi come il vero fondatore della scienza moderna. Nel metodo sperimentale esperienza e ragione sono strettamente congiunte nel comune sforzo di ricerca. I momenti del metodo galileiano possono essere così schematicamente riassunti:

  1. osservazione del fenomeno quale si manifesta nell’esperienza sensibile, nella sua «datità»;
  2. con la ragione si ordinano i dati fenomenici forniti dall’osservazione diretta e si interpretano in rapporti quantitativi o grandezze numeriche;
  3. mediante un processo induttivo, dai rapporti ottenuti si tenta di formulare la legge di un fenomeno con ipotesi;
  4. l’esperimento, mediante il calcolo, verifica l’ipotesi; se la verifica è positiva, si passa dall’esperimento verificato alla determinazione della legge.

Induzione e deduzione si richiamano fecondamente e si presuppongono nel metodo galileiano. Galilei, come Bacone, differenzia la induzione scientifica dalla induzione per enumerazione completa o induzione perfetta di cui parla Aristotele nella dottrina del sillogismo induttivo. L’induzione perfetta è impossibile, non potendo la ricerca scientifica pretendere mai di abbracciare tutte le specie di un genere con l’osservazione; ma è pure inutile, potendosi risalire soltanto da alcuni casi, per induzione sperimentale, alla legge generale (si deve però precisare che Aristotele si pone da un punto di vista formale e traccia un ideale per così dire regolativo).

La scienza galileiana è realistica in quanto riconosce il suo fondamento oggettivo nella natura «ministra inesorabile e immutabile di Dio». L’oggettivismo naturalistico di Galilei non giustifica nulla di più della scienza naturale dei fenomeni, ma questa nel suo ambito è certa. Galilei, in cui si conclude il Rinascimento, esalta la potenza conoscitiva dell’uomo.

La conoscenza umana non è mai esaustiva e tra l’intendere umano e l’onniscienza divina vi corre di mezzo l’infinito. Tuttavia l’intendere umano, sebbene discorsivo e non intuitivo come quello di Dio, intensive, uguaglia in un certo senso il conoscere divino: nel campo ristrettissimo in cui la mente umana conquista una certezza, matematicamente dimostrabile, essa partecipa della perfezione della conoscenza di Dio.

Alcune osservazioni: non si può negare l’esistenza di un aspetto della realtà solo perché questo aspetto non è perfettamente conoscibile e non è riducibile a formula matematica. La fisica matematica prescinde dalle qualità e dalle forme sostanziali, ma non è di sua competenza il negarle. La negazione di Galilei è storicamente spiegata dall’uso indebito che delle forme facevano certi aristotelici in luogo di spiegazioni scientifiche. Inoltre, precisa Martin Heidegger, il senso della volta, della totalità dell’edificio, anzi della cultura e del gusto estetico di cui quell’edificio è espressione, non può essere espresso da una formula. La formula servirà all’ingegnere solo per fare i calcoli.

L’UMANESIMO SCIENTIFICO DI LEONARDO

Leonardo da Vinci (1452-1519), pittore, filosofo e scienziato, è una delle figure più originali e significative dell’Umanesimo. Ci restano di lui un Trattato della pittura e numerosi frammenti, appunti, manoscritti, che contengono apporti originali utilizzati troppo tardi. La riflessione di Leonardo è caratterizzata da una curiosità senza limiti, dalla profondità del suo scavo, da una incompiutezza sistematica, conseguente anche in parte ad un’inappagabile inquietudine e dall’incredibile ampiezza d’orizzonti (il «ghiribizzare» senza posa).

La polemica contro l’umanesimo libresco e la concezione della natura

L’umanesimo libresco vedeva la quintessenza di ogni cultura nelle lettere e concepiva la cultura come complesso di citazioni, ripetizioni e riassunti del passato. Non senza fierezza, nel contemporaneo conformismo umanistico, Leonardo si proclama «omo sanza lettere»: egli combatte l’autorità opposta all’esperienza, la cultura intesa come passiva accettazione, un sapere che non sia invenzione ma solo conservazione, le parole vane, i ragionamenti astratti, i libri pieni di vento, il «gridare», quel clamore delle dispute senza fine che non raggiungono mai la pace silenziosa delle conclusioni vere.

«E veramente accade che sempre dove manca la ragione suppliscono le grida, la qual cosa non accade nelle cose certe. Per questo diremo che dove si grida non è vera scienza, perché la verità ha un sol termine, il quale essendo pubblicato, il litigio resta in eterno distrutto; e s’esso litigio resurge, ella è bugiarda e confusa scienza, e non certezza rinata». «Costoro vanno confiati e pomposi, vestiti e ornati non della loro, ma delle altrui fatiche … non inventori, ma trombetti e recitatori delle altrui opere». «Le mie cose – scrive Leonardo – son più da esser tratte dalla sperienzia che dall’altrui parola … così per maestra la piglio e quella in tutti i casi allegherò». Il tema si approfondisce nella protesta di Leonardo contro una cultura astrattamente contemplativa che disdegna di congiungersi all’opera e non verifica il concetto con il lavoro che muta le cose.

Leonardo fu precursore profetico della mentalità moderna, avendo colto la stretta connessione tra scienza e tecnica e stabilito un circolo dall’occhio – che è un osservare e vedere profondo entro la realtà – alla mente, per ritornare alle cose attraverso il lavoro che consolida il processo e ne fissa il risultato. Così l’umanesimo scientifico di Leonardo interpretava e sviluppava la dottrina della centralità dell’uomo nel mondo: l’uomo con l’esperienza e la ragione scopre le forze operanti nel mondo e attraverso la mediazione del lavoro le riplasma.

L’esaltazione dell’uomo propria del primo Umanesimo insiste nella formula che l’uomo è microcosmo; ora, proprio perché sintesi completa dell’universo, l’uomo ha in sé una mirabile corrispondenza con le cose di tutte il mondo, con tutte le sue forze. L’uomo – dichiara Leonardo – «è il punto naturale nel quale s’infondono e uniscono nella penetrazione e intersegazione l’una dell’altra» tutti i piani della realtà. «L’uomo è l’occhio dell’universo», è l’unità che in un punto contrae tutta la natura. «Chi crederebbe che sì brevissimo spazio fusse capace delle specie di tutto l’universo?».

Su questa presupposta corrispondenza tra uomo e natura si fonda appunto la nuova indagine scientifica: nell’indagine sul mondo l’uomo discopre il suo significato e se quel che si deve conoscere non è nella mente, ma lì, nella natura, la natura, come si scopre da ultimo, è a sua volta interamente ragione.

Leonardo concepisce la natura quale una potenza infinitamente varia nella sua causalità e nei suoi effetti, benché retti da leggi generali, da una trama di rapporti «pondere, numero et mensura» esattamente calcolabili, che ne fanno un’unità e un cosmo. La natura opera, matematicamente, secondo le concezioni pitagoriche e platoniche che in quel tempo circolavano in Firenze, un’immanente razionalità che si dispiega all’uomo mediante i suoi effetti. «Natura non rompe sua legge, ma procede sempre costretta dalla ragione della sua legge che in lei infusamente vive». «La natura è piena d’infinite ragioni, che non furono mai in isperienza», ma che a grado a grado lo saranno perché la verità è «figliuola del tempo» e nel tempo, nel faticoso svolgersi della storia, mediante esperienza e ragione, l’uomo la fa lentamente affiorare.

L’intelligenza degli effetti della natura si attua per vie diverse e convergenti (scienza, arte, filosofia), e vero indagatore e scopritore è solo colui che giunge alle «ragioni», alle strutture razionali che regolano armonicamente l’universo intero («presupposto platonico-ficiniano» per Eugenio Garin).

Esperienza e ragione

Leonardo non ci dà una sistematica teoria del metodo scientifico, né descrive il ritmo dialettico e le tappe logicamente concatenate del metodo sperimentale; tuttavia nei suoi frammenti si delinea una concezione che preannuncia la sintesi galileiana di sensate esperienze e certe dimostrazioni, di esperienza e ragione, e il primo tentativo di comporre nella conoscenza umana e nella scienza l’a-posteriori e l’apriori.

Energica suona l’affermazione del valore dell’esperienza. L’esperienza è «la madre della scienza». I veri indagatori della natura ebbero ed avranno a loro maestra l’esperienza a cui bisogna rimaner fedeli, perché «se fallano i giudizi degli uomini l’esperienza non falla mai». «Chi si prometta dalla sperienza ciò che non è in lei, si discosta dalla ragione». Esperienza vuol dire conoscenza sensibile per osservazione diretta del reale (non per citazione delle opinioni altrui), e congiunta capacità di ricezione e catalogazione di determinati fenomeni. Tutto ciò costituisce, però, solo il momento iniziale della ricerca. Esperienza nella sua specifica accezione significa in Leonardo assai più, e cioè esperimento, rielaborazione, invenzione. L’osservazione è l’ineliminabile punto di partenza, ma da sola non è atta a farci conoscere la natura.

L’esperienza, appunto, deve essere:

  1. aiutata dalle macchine o strumenti di verifica sperimentati («ciascuno strumento debbe essere operato con l’esperienza ond’esso è nato»);
  2. integrata e guidata dalla ragione che s’innalza a conclusioni generali solo attraverso un processo induttivo di cui Leonardo traccia non pochi precetti metodici precorrendo Bacone.

Quando la ragione mostra la proporzione e il nesso degli effetti naturali, allora vuol dire che dall’esperienza si è pervenuti alla scienza. E quando la mente ha afferrato le leggi generali di determinati fenomeni, compiutamente indagati, è inutile insistere su ripetute, particolari esperienze. «Intendi ragione e non ti serve sperienza» osserva Leonardo, preludendo alla critica dell’induzione completa. La sintesi di esperienza e ragione è ribadita da Leonardo attraverso un’efficace e vigorosa critica del grossolano empirismo: «Quelli che s’innamoran di pratica sanza scienza son come il nocchiero ch’entra in naviglio sanza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada». E ancora: «La scienza è il capitano, la pratica i soldati». Leonardo inoltre intuì l’importanza della matematica nella spiegazione scientifica dei fenomeni: «chi biasima la somma certezza delle matematiche si pasce di illusioni»; «nessuna umana investigazione si può dimandare vera scienza, s’essa non passa per le matematiche dimostrazioni»; «nessuna certezza è dove non si può applicare una delle scienze matematiche».

Parimenti Leonardo ha previsto il distacco della scienza dalla metafisica nella distinzione dei loro oggetti: la scienza deve abbandonare la ricerca di cause formali e di cause finali, fissandosi piuttosto sulla causa efficiente o, meglio ancora, sulla regola costante o legge dell’accadimento. La legge, desunta dall’esperienza e determinata dal calcolo, si profila così già in Leonardo quale fine supremo del metodo scientifico.

GIORDANO BRUNO

Infinità dell’universo

Giordano Bruno (1548-1600) critica alcuni presupposti della filosofia della natura aristotelica. In particolare per Bruno non vi sono assurde gerarchie di corpi celesti; non vi è trasmissione esterna del moto dal primo motore alle sfere via via inferiori; non è vero che l’universo sia finito. Bruno esalta la rivoluzione che la teoria eliocentrica di Copernico aveva compiuto nella cosmologia del tempo dominata dal geocentrismo tolemaico, ma egli difende l’opera di Copernico solo perché essa è il punto di partenza per giungere ad affermare una tesi ben diversa della limitazione copernicana dell’universo al cielo delle stelle fisse: l’infinità dell’universo. I mondi sono innumerabili e l’universo è infinito perché infinito effetto di una causa infinita. L’universo è animato da una forza infinita, la Natura, «vivo specchio dell’infinita Deità», sua explicatio in senso immanentistico (di qui l’interpretazione immanentistica data alla filosofia del «divino Cusano»). La Natura che anima l’universo «o è Dio o la virtù divina che si manifesta nelle cose». Dio è fonte e fondo delle cose e l’universo è l’esplicazione attualmente infinita di Dio.

Poiché infinito, l’universo non ha né centro assoluto, né circonferenza. Centro e circonferenza si spostano a misura che si sposta l’osservatore. Il punto dal quale io guardo, dovunque mi trovi, è il centro. Quella coincidentia oppositorum che Cusano attribuiva a Dio come uno degli aspetti tipici della logica dell’Infinito, Bruno la ravvisa attuata nell’universo. Nell’unità dell’universo tutti i contrari si fondono. Infatti «l’ottimo, massimo, incomprensibile è tutto, è per tutto, è in tutto perché come semplice e indivisibile può esser tutto, esser per tutto, esser in tutto».

Nell’universo coincidono il centro e la circonferenza, il minimo e il massimo. Come? Nel mondo infinito vi sono tre generi di «minimo»: il minimo metafisico che è l’Uno (che è il massimo perché è Dio); vi è poi il minimo matematico, il punto; e il minimo fisico, l’atomo. Ma il minimo di ciascun genere è il massimo in quanto misura che abbraccia tutte le cose, il massimo, appunto, di quel genere: così come l’unità è misura di tutti i numeri innumerabili che concorre a formare. Bruno accoglie la suggestione cusaniana di una logica fondata sulla coincidentia oppositorum. La coincidenza degli opposti si realizza nell’Infinito. I finiti sono spinti a mutarsi l’uno nell’altro: ma ciò, lungi dal togliere a ciascuno la sua pur temporanea definitezza, tale definitezza esige, affinché non diventi illusoria la stessa incessante mutazione.

L’etica civile

Il monismo di Bruno non tende affatto a cancellare la varietà delle umane potenze, che anzi dice infinite, ma nell’atto di ciascuna potenza afferma come virtualmente presenti tutte le altre. La varietà nasce da una fondamentale unità e resta in essa; ma Bruno spinge tanto oltre l’esigenza dell’unità da concludere che il principio unico che opera atti diversi potrebbe essere chiamato indifferentemente intelletto o senso. Se l’universo non è creazione, ma manifestazione diretta del volere divino, è ammissibile il libero arbitrio umano? Bruno non è Spinoza e risponde sì. Pur essendo soggetta alla «ruota della nascita» e al «fato della mutazione», ogni anima reincarnata – entro il condizionamento che viene dalla particolare natura avuta in sorte – farà progetti e opererà libere scelte. Su questa base Bruno costruisce la sua etica civile, svolta soprattutto nell’opera Spaccio della bestia trionfante (si scacciano dalle sedi celesti le bestie che ricordano i vizi degli déi: al posto dei vizi s’hanno da porre le virtù, che vengono studiate qui prevalentemente in rapporto alla loro importanza per una retta convivenza umana). Per le virtù civili vale la regola della medietas: nella legge la verità si accompagna alla prudenza. La medietas è esigita dalla natura della legge «per cui hanno da essere retti e reprimuti gli uomini»: l’estensione della legge e il suo aspetto coattivo impongono, infatti, una limitazione, non potendosi da tutti pretendere quell’amore «furioso» che innalza la mente al puro oggetto intelligibile, all’Uno infinito. Bruno, nota Augusto Guzzo, è lontanissimo dal predicare un asservimento alle sollecitazioni della natura, ed anzi pregia e raccomanda ai migliori e ai più forti – agli eroi – l’ascesi di volgersi alle cose supreme, vincendo se stessi e ogni passione sensibile, e per tutti gli altri favorisce la religione perché infreni col timore gli incapaci di contenersi per ragione2. Il problema della libertà dell’uomo nasce – secondo Nicola Badaloni – dall’intuizione metafisica della costanza dell’essere nella sua infinitezza. L’eroe, infatti, non teme la morte e l’al di là, supera il bisogno dell’auto-conservazione a cui restano legati tutti gli uomini, e possiede una capacità di dominio su se stesso ed una possibilità di intendere e conoscere le cose quale nessuno può avere in egual misura. Il dominio intellettuale che l’uomo ottiene sulla natura apre il campo di una più piena attività pratica.

TOMMASO CAMPANELLA

La vita e le opere

1- La giovinezza tumultuosa, la sollevazione calabrese, la frattura dall’ortodossia

Di famiglia contadina, Tommaso Campanella entrò quindicenne nell’ordine domenicano. Mago e astrologo, di grande arditezza fantastica e acume intellettuale, uomo di veemenza passionale e con una straordinaria fame di conoscenze e di esperienze, ebbe un’esistenza travagliatissima.

A Napoli frequenta, all’insaputa dei superiori, il circolo di Giovanni Battista Della Porta, che coltivava curiosità magiche e naturalistiche e nel 1591 è processato a causa di pratiche demoniache per sospetto d’eresia. Dello stesso anno è la sua prima opera: Philosophia sensibus demonstrata.

Restò pochi mesi in carcere e, uscito, non si recò in Calabria come gli era stato comandato, ma andò a Padova, dove tra il 1592 e il 1593 conosce le persone più dotte dell’università e Galileo Galilei. Sostiene tre processi in difesa dei suoi primi scritti, oscillanti tra l’atomismo democriteo e l’animismo neoplatonico e fortemente pervasi di sensismo. Viene ordinato sacerdote nell’intervallo tra un processo e l’altro. Nell’ultimo processo, tenutosi a Roma nel 1597, viene assolto, ma è costretto a tornare a Stilo, con la proibizione di predicare e confessare. In quegli anni l’interesse politico si accompagna a quello naturalistico ed il pensatore calabrese pubblica: De monarchia christianorum (1593), Monarchia di Spagna (1593), De regimine Ecclesiae (1593), Discorsi ai principi d’Italia (1595, per esortarli a secondare l’egemonia della Spagna unificatrice del mondo cristiano), Dialogo politico contro luterani, calvinisti e altri eretici (1595, in cui l’eresia è combattuta come lesione della verità dogmatica e come rottura della comunità umana ed ecclesiastica).

Tornato in Calabria nel 1598, la tumultuosa fermentazione di idee e conati utopistici si configurarono nel modo seguente:

  1. ritorno dell’uomo alla natura;
  2. riduzione del cristianesimo a religione naturale sdogmatizzata;
  3. rovesciamento del filo-ispanismo in avversione al dominio spagnolo.

In questo clima Campanella prepara il tentativo insurrezionale della Calabria contro gli spagnoli per instaurare una repubblica secondo l’ideale d’un cristianesimo naturalizzato. La congiura è sventata per delazione e Campanella arrestato e tratto in giudizio a Napoli, ove subisce due processi, uno per sedizione e uno per eresia.

Di quella giovanile «frattura breve e violenta» dall’ortodossia, proprio negli anni della più aspra repressione inquisitoria, i motivi eterogenei ma convergenti sono così sintetizzati da Luigi Firpo in Lo Stato ideale della controriforma (Laterza, Bari 1957): «intolleranza disciplinare; iattanza di un libertinaggio epidermico e verbale; fascino delle scienze occulte; rozze suggestioni materialistiche d’una tradizione che da Democrito a Telesio tendeva a ridurre l’anima umana a spirito corporeo e caduco; concezione del peccato come violazione dell’ordine sociale e razionale». Più che verso questo o quell’aspetto del cattolicesimo, Campanella pare riluttante di fronte all’intera religione positiva, tutto immerso nella scoperta gioiosa di un’autosufficienza della natura e di una religione naturale che razionalmente la corona.

2-  Il carcere napoletano (1599-1626)

Tommaso Campanella, torturato quattro volte, durante il supplizio comincia a delirare, simulando la pazzia per evitare la pena capitale («ego in tortura dolebam et laetabar»). Riconosciuto folle, fu condannato al carcere perpetuo. La carcerazione fu dura e crudele nei primi anni, più tardi divenne così mite che, smessa la finzione, Campanella poté liberamente comporre libri, carteggiare, ricevere visite.

Si inizia così una fase di rimeditazione ed il più tipico prodotto di questo periodo è il dialogo La Città del Sole, scritto nel 1602, pubblicato nel 1623 e ristampato nel testo definitivo nel 1637.

Per il più grande biografo di Campanella, l’insigne medico napoletano positivista e anticlericale Luigi Amabile (1828-1892), La Città del Sole fissa prudentemente nella forma del mito il midollo ereticale del pensiero campanelliano; ogni altra opera è solo frutto di tortuosa simulazione per ottenere la libertà. La tesi psicologica di Amabile, esposta in due opere nel 1882 e nel 1887, riproposta da Norberto Bobbio nel 1941, tipizza il momento del processo, cancella l’operoso quarantennio della maturità intellettuale del Campanella e distrugge la figura morale del pensatore calabrese.

Occorreva accertare su ben più vasta base documentaria le direttrici del sistema campanelliano e quindi in esso inserire come parte del tutto il mito solare, invece di ridurre ad esso il significato dell’intera produzione filosofica campanelliana. È quanto ha fatto Romano Amerio, primo editore della monumentale Theologia e autore di acutissimi saggi su Campanella. L’interpretazione evolutiva di Amerio, ora accettata anche da Luigi Firpo e con qualche variante da Gioele Solari, in quale prospettiva situa La Città del Sole? Il mito solare, secondo Amerio, è espressione di «un momento irresoluto e immaturo»; di quell’opera gli elementi politici furono i soli durevoli. Molte idee corrispondono alle proposizioni insegnate dal frate durante la preparazione della sommossa calabrese; tuttavia molte altre vi contraddicono esplicitamente. Il mito solare traccia il disegno di una repubblica in cui gli uomini vivono secondo la legge della pura ragione, nello stato di natura integra.

Se anche nell’ispirazione originaria La Città del Sole fu «dapprima ripensamento composto del bel sogno fallito, non idealizzazione, ma rivendicazione dalle storture e dai fraintendimenti grossolani» (Gioele Solari), nell’economia del successivo pensiero di Campanella quell’opera poté essere assunta «come una dimostrazione indiretta delle congruenze esistenti tra la dritta ragione e l’insegnamento evangelico», come afferma lo stesso Campanella nel 1609 (Quaestiones politicae) e nel 1629 (Theologia, 1.XIV). Ciò è provato – secondo Firpo – dal fatto che i ritocchi apportati a La Città del Sole sono chiarimenti della dottrina ortodossa che nega ogni antitesi fra natura e grazia e mostra come la ragione preluda e aspiri alla Rivelazione. In questo senso La Città del Sole diviene il «trovato filosofico per dimostrare che la verità del Vangelo è conforme a natura»; conformità sostanziale e generica, s’intende, dal momento che nei particolari sussistono discordanze dalla Rivelazione in quanto il solo lume naturale non è infallibile; resta il fatto che i «solari», in quanto vivono secondo ragione, sono «quasi catecumeni della vita cristiana». Si spiega così il titolo ampliato in «Dialogo di republica, nel quale si disegna l’idea di riforma della republica cristiana conforme alla promessa di Dio fatta alle sue sante Caterina e Brigida».

Nella prima stesura come nell’ultima il rapporto tra religione naturale e religione rivelata permane immutato, senza attenuazioni né infingimenti. Dice il testo italiano: «seguon solo la legge della natura», ma «sono tanto vicini al cristianesimo, che nulla cose aggiunge alla legge naturale si non i sacramenti»; e ancora: «la vera legge è cristiana e, tolti gli abusi, sarà signora del mondo»; si limitino i solari alla sola concezione razionale della Trinità «perché non ebbero rivelazione». Concluderà in piena coerenza una glossa al testo latino del 1637: «vigor Evangelii non potest totus naturaliter nosci (la forza del Vangelo non può essere totalmente riconosciuta in modo naturale)». Il Campanella della Theologia rinuncerà solo alla comunità sessuale de La Città del Sole, comunità che il diritto positivo cattolico condanna, ma che viene tuttavia difesa efficacemente alla luce del solo diritto naturale.

Il rivolgimento veramente profondo, che caratterizza poi durevolmente il pensiero del frate filosofo, si determina tra il 1603 e il 1606. Questa metamorfosi spirituale è menzionata e metaforeggiata da Campanella in più luoghi come un disinganno da illusioni cui si era abbandonato, o una illuminazione di grazia in seguito a cui (sono parole sue) egli si dedicò alla vera religione dopo essere stato poco cristiano. Ma più tardi egli testimonia esplicitamente la conversione nella bellissima Canzone a Berillo di pentimento e nella lunga «Oratio ad Deum pro legatione sua (Orazione a Dio per la sua ambasceria)» nel Reminiscentur. In quegli anni scrisse, tra l’altro, il De sensu rerum et magia (1604), pubblicata in Germania nel 1620, di cui scrisse una Defensio nel 1627.

Dopo il 1606 sono superate le due posizioni essenziali della mentalità giovanile di Campanella, cioè il sensismo e il naturalismo religioso sdogmatizzato. La prima è superata con la metafisica nuova delle primalità dell’ente, con cui Campanella concepisce la struttura dell’ente creato sullo schema trinitario dell’ente increato. La seconda è superata con la dottrina del Cristo come razionalità universale, grazie alla quale il contenuto dogmatico del cristianesimo, prima rigettato come invenzione umana alogica, viene filosoficamente compreso come espressione del logo divino, di cui è pure espressione il logo umano. Il corollario pratico del teorema del Cristo razionalità è l’istanza missionaria, destinata a raccogliere tutti gli uomini nella società teocratica mediante la coesione perfetta della ragione che è il Cristo.

La produzione è vertiginosa. Fra i suoi numerosi scritti ricordiamo: De Gentilesimo non retinendo del 1609, pubblicato nel 1636 a Parigi e nel 1639 col titolo Instauratio magna scientiarum, come proemio alle sue opere; Quaestiones, dal 1609 in poi, trattato di filosofia naturale; Theologia (1613-1624), in trenta libri, è la più matura ed imponente opera di speculazione intesa a offrire un nuovo organismo culturale all’intero sistema della verità cattolica; Metaphisica, scritta all’origine in italiano e più volte rielaborata (si possiede la redazione latina stampata a Parigi nel 1638, mentre nel 1625 fu esaminata dalla Sorbona); Apologia pro Galileo, scritta nel 1616 e pubblicata a Francoforte nel 1622; Quod reminiscentur, terminato nel 1618, contiene messaggi ai responsabili delle quattro grandi religioni (cristiana, ebraica, pagana, maomettana) per l’unificazione della famiglia umana in Cristo.

3- Il periodo romano (1626-1634), l’esilio in Francia e la morte (21 maggio 1639)

Nel luglio del 1626 Campanella è trasferito a Roma nelle carceri del Santo Uffizio. Più tardi abita nel palazzo del Santo Uffizio loco carceris ed è riconosciuto interamente libero nel 1629. Il periodo romano non è tanto fecondo di attività speculativa, quanto di affermazione e diffusione dei suoi ideali religiosi e politici. Urbano VIII gli assegna una pensione e agevola l’approvazione dei suoi scritti. Campanella è così cresciuto in credito presso il papa da poter aspirare all’incarico di consultore del Santo Uffizio e da legittimare la voce pubblica che gli si prepari il cappello cardinalizio. Ma il suo intervento a favore di Galilei durante il processo del 1633 – che aveva già difeso nel 1616 al tempo del primo processo con l’Apologia pro Galileo – e la sua posizione antitolemaica, sebbene non coincidente con quella galileiana, acuiscono l’opposizione degli avversari e la condanna di Galilei rovina anche la posizione di Campanella presso il pontefice.

La successiva evoluzione sfavorevole è determinata anche dalla variazione che Campanella apporta alla sua concezione politica: il compito egemonico nella conquista cattolica del mondo che nella Monarchia di Spagna egli aveva assegnato al re cattolico, gli sembra ora convenire meglio all’energica Francia antiugonotta di Richelieu che al braccio malfermo di Filippo IV. Quando nel 1634 gli spagnoli scoprono a Napoli una congiura ordita da fra Tommaso Pignatelli, discepolo di Campanella, il filosofo venne ingiustamente considerato corresponsabile e fu ricercato dal papa per correità. Riuscì però a fuggire da Roma grazie alla protezione dell’ambasciatore francese De Noailles e a riparare in Francia (1634). Tra gli scritti si segnalano il De praedestinatione (1628), Astrologia, che lo fece incorrere nelle ire di Urbano VIII, e Discorsi universali sul governo ecclesiastico, già elaborati tra il 1593 e il 1595, perduti nella vicenda della congiura e riscritti con spirito nuovo e compendiati per Urbano VIII nel 1631. Campanella viene accolto dal re in Parigi con onori grandissimi, favorito di una pensione, ricercato da Richelieu, celebrato nei circoli dotti. Operano insieme l’ammirazione per la fama del sapere e la riverenza verso l’esule politico. In tale periodo brillante di visite, di conferenze e di onori, il filosofo già vecchio e gravato da una vita tormentosa, si raccoglie quasi esclusivamente su due compiti: l’azione antiereticale e l’edizione delle sue opere.

Nonostante gli sforzi degli avversari romani, che lavorano a bloccare le sue pubblicazioni e gli fanno sospendere la pensione papale, Campanella riesce a pubblicare parti importanti della sua opera e segnatamente la Metaphysica e le Disputationes, folta trattazione di filosofia naturale, etica, economica e politica.

Valendosi poi dell’interesse suscitato intorno alla sua persona, Campanella determina e difende ogni settimana in pubblico contraddittorio proposizioni della dottrina cattolica, specialmente quelle attinenti al dogma della grazia, e procura la conversione di molti calvinisti.

Ancor pieno dell’aspettazione di una nuova era, gli sembra di ravvisarne i segni nella crescente fortuna della Francia, che pareva aver assunto, succedendo alla Spagna, la direzione politica della cristianità. Quando, nel settembre del 1638, dopo vent’anni di vana attesa, nasce a Luigi XIII il successore, il frate filosofo celebra in un’egloga famosa la propria antica fede palingenetica e la prodigiosa natività del Delfino chiamato ad avverarla. L’egloga è l’ultimo lavoro.

Campanella muore nella sua cella del convento di Rue Saint Honoré la mattina del 21 maggio 1639, ricevuti i sacramenti, e viene sepolto il giorno seguente nel sepolcreto del convento. Le sue ceneri andarono disperse a seguito dell’abbattimento del convento nel 1793 durante la rivoluzione francese.

La metafisica

1- Metafisica delle primalità

Dio consta di un’entità infinita e di nessuna non entità, laddove le creature constano di un’entità finita e di una non entità infinita.

L’entità poi, così in Dio come nelle creature, trova la sua essenza nelle tre primalità – potere, sapienza e amore – le quali non fanno composizione, né sono parti di un tutto, ma costituiscono intrinsecamente l’unità dell’ente. Ogni ente è, in quanto può essere, conosce il suo essere e ama il suo essere.

Le primalità hanno tra loro un ordine di processione. L’amore procede dalla sapienza e dalla potenza, giacché l’ignoto e l’impossibile ad amarsi non è amato: esso è nella potenza e nella sapienza, dalle quali non potrebbe procedere, se queste già non lo avessero, e dalle quali dunque non recede quando procede.

La sapienza non è dall’amore, ma dalla potenza, giacché non sappiamo quel che non possiamo sapere, ma pur sappiamo quel che non amiamo: essa è nella potenza, dalla quale non procederebbe, se questa non l’avesse e dalla quale dunque non recede quando procede. La potenza poi non procede da nessuna primalità. Tali sono i primordi delle cose e anteriore ad essi non si può assegnare principio alcuno.

La trinità primalitativa divina dà origine a tutte le altre ed è rispecchiata per analogia da tutte le altre; in tutte infatti si verifica la stessa identità delle primalità con l’essenza e la stessa distinzione nella processione.

Tuttavia nelle creature le distinzioni non sono personali e sussistenti, come in Dio, perché la creatura non è Dio, ma solo immagine e similitudine di Dio. Inoltre come la creatura è «essenziata» di essere e non essere, così è «essenziata» delle primalità dell’essere, ma anche delle primalità del non essere – impotenza, insipienza, disamore -, non nel senso che le primalità del non essere siano incluse nella sua essenza, ma nel senso che sono limiti includenti l’essenza.

2- Dio e il mondo

L’intero organismo ontologico è posto da Dio, ma Dio non è né una parte del sistema, né costituisce sistema con il sistema posto. Come né il tempo, né lo spazio creati investono il principio creante, così non lo investe l’organicità dell’organismo creato. Il mondo è relativo a Dio, ma Dio è irrelativo al mondo. Si può anche esprimere l’immunità divina dall’organicità ontologica rilevando che mentre tra cosa e cosa creata vi è un rapporto di sintetismo, sicché le cose hanno necessità di essere l’una accanto all’altra secondo una reciprocità uguale dai due capi, tra le cose create e Dio il rapporto è di dipendenza, sicché la soppressione di un capo comporterebbe la distruzione dell’altro, ma il contrario no.

3- La gnoseologia della maturità. Analogie e differenze tra intelletto umano e intelletto divino

«Anima res potest scire, quoniam eas habet in rationibus aeternis, quarum ipsa est particeps (L’anima può conoscere la realtà, perché la possiede tra i fondamenti eterni, dei quali essa è partecipe)» (Theol., lib. IV, cap. 5 art. 2). Essendo lo spirito creato, autocoscienza seconda, notizia innata di tutte le cose, le cose stesse, operando su di lui, specificano e chiarificano quella notizia, traendola dal fondo stesso dell’autocoscienza.

Se l’intelletto umano funziona pertanto in analogia con l’intelletto divino, non per questo intende tutte le cose mediante la propria essenza come Dio. In un passo importante della Theologia (lib. IV, cap. 5 art. 3) la differenza tra l’intelletto increato e l’intelletto creato è riconosciuta in questi termini: che quello non ha bisogno di conoscere né di patire dalle cose, né di essere specificato, né di essere destato dalla notizia innata, in cui – per così dire – dorme, alla notizia illata.

La mente umana, invece, in quanto è unita alla sostanza corporea, abbisogna di patire dalle cose; in quanto possiede la notizia innata, dormiente, abbisogna di essere destata; in quanto possiede la notizia confusa delle cose, abbisogna di ricevere distinzione e specificazione.

La mente è sotto il lume divino non immediatamente, il che porterebbe ad un intuizionismo prossimo all’ontologismo, ma mediamente, cioè attraverso l’essenza propria, che è partecipazione di quel lume. Così è esclusa completamente l’intuizione delle idee eterne, essendo di altro genere la cognizione naturale dell’homo viator.

La teoria campanelliana della conoscenza si può caratterizzare come una concezione teologizzante, fortemente influenzata dal modello tomistico dell’autocoscienza divina; configura il pensiero umano sullo schema del pensiero divino, mantenendo in maniera rigorosamente coerente l’idea peculiare della filosofia del cristianesimo, quella cioè dell’esistenza finita come imitazione creata della natura divina. Come ogni ente è metafisicamente una triade primalitativa seconda, imitante la triade prima, così l’uomo è autocoscienza seconda imitante l’autocoscienza prima.

La passività inerente al pensiero umano riguarda soltanto l’occasione di manifestare la notizia radicale immanente, la quale occasione viene dagli oggetti, ma la notizia radicale stessa è già una specie di notizia attuale che non si aggiunge all’ente, ma lo costituisce.

Sebbene funzioni come l’intelletto divino, essendo primitivamente attualità e unità originaria di tutto l’intelligibile, l’intelletto umano è però in tutti i suoi costitutivi intelletto creato ed è per così dire un’infinità contratta e finita. Così Campanella gli mantiene il carattere speculare ed enigmatico, essenziale ad ogni gnoseologia del cristianesimo. Per lui, come per Tommaso (Summa Theologica, I, q. 84, art. 5), lo spirito intuisce ogni vero nel lume della prima verità, non nel senso che intuisce la stessa prima verità, ma nel senso che quel lume è una partecipazione o impressione della prima verità.

Ma posta questa differenza e trascendenza del lume divino sopra il lume umano, rimane tra i due, secondo Campanella, un’analogia precipua: tanto nel primo come nel secondo il pensiero è a priori rispetto all’oggetto, e non costituisce un’accidentalità sopraggiunta all’anima, ma una primalità essenziale all’anima. Non soltanto nell’ordine della natura divina, ma anche nell’ordine della natura creata il pensiero è un primo, che rende ragione di ogni concepibilità dell’oggetto, e del quale nulla rende ragione, coincidendo esso con l’essere: intelligere est esse.

In questa primazia dell’idealità è conservato nella filosofia campanelliana uno degli articoli più caratteristici del sistema cristiano. L’autocoscienza seconda che, contenendo virtualmente la notizia di tutte le cose, deve essere eccitata dall’esperienza ad attualizzarla, si riallaccia all’innatismo e all’anamnesi.

Il germe di questa concezione il Campanella lo poteva trovare nell’insegnamento di Tommaso, secondo il quale l’intelletto, sebbene come potenza che è, non può conoscersi se non in quanto si attua, conoscendo l’altro da sé, e tuttavia ha anche una cognizione di tale atto per pura presenzialità (Summa Theologica, I, q. 87, art. 1).

La religione

1- Il valore della religione

Nella teoria della religione appare la modernità del pensiero campanelliano. L’apparizione di mondi nuovi e genti nuove che seguono credenze e culti insospettati impone allo spirito il problema del valore di quelle credenze. L’idea di religione, che si identificava fino ad allora nel cristianesimo e non aveva quasi altra storica individuazione, si distacca dalla sua incarnazione, se ne solleva e va a collocarsi in un nuovo rapporto con la varietà dei riti.

Campanella si pone così un duplice problema: se la religione sia un valore o un disvalore dello spirito, e quale sia tra le varie forme religiose il valore peculiare del cristianesimo. La religione è per Campanella l’intera moralità considerata come il moto di ritorno della creatura al creatore: religione e moralità si identificano e quella è l’intimità di questa. La moralità consiste nell’operare con discernimento di ciò che asseconda e di ciò che impedisce il moto verso il bene, e la religione consiste nel moto stesso verso il bene. Il moto verso Dio è naturale a ogni creatura, poiché ogni creatura tende a Dio suo principio: così ogni fuoco va al sole e ogni acqua al mare. Questo moto è, dunque, natura e immediatezza, e Campanella lo chiama religio innata o indita, e afferma essere identica in tutti gli uomini e in tutti gli enti, poiché anche la creatura irrazionale volge naturalmente al suo autore.

Nascendo dalla struttura ontologica più intima, il moto religioso è dunque giustificato come valore; esso appartiene all’ordine del creatore e all’influsso dell’essere. Viene così confutato il modo di pensare, che Campanella chiama «machiavellismo», il quale, interpretando la religione come una struttura secondaria derivata dalla vita sociale e pertinente all’economia esteriore del vivere, ne cancella il significato metafisico, quasi non fosse l’attitudine dello spirito nativamente orientato verso l’universalità.

Religione naturale è dunque la volizione di Dio da parte di un soggetto che porta nel suo fondo il senso di Dio e che, soltanto costituendosi in Dio, si costituisce nel suo vero essere. La naturalità di questa religio naturalis di Campanella non corrisponde alla religione naturale nell’accezione moderna, per la quale si intende la riduzione della religione nei termini di natura e la conseguente dissoluzione del soprannaturale, ma significa carattere di originalità, spontaneità e necessità della religione come funzione radicale dell’essere intellettivo.

2- Religione «indita» e «addita»

Le funzioni addite, cioè aggiunte, dello spirito sono estensioni ed espressioni delle funzioni innate. Essendo, per esempio, funzione innata l’autocoscienza, tutta la concreta vita conoscitiva, che è poi la funzione addita, non è che la medesima autocoscienza modificata dai dati dell’esperienza, sintesi di sé e dell’altro. Analogamente, la vita volitiva non è astratta volizione di sé, ma concreta volizione di sé negli oggetti, volizione storica in cui l’io si attua nella coesistenza.

Se, dunque, le funzioni innate dello spirito sono fondamentali ed essenziali, non si esprimono però nella presente condizione di vita se non attraverso le funzioni illate, cioè attraverso i rapporti che si stabiliscono tra l’anima e gli oggetti coesistenti.

In piena conformità con questo insegnamento, Campanella distingue la religio indita – innata, naturale, che lega ogni cosa a Dio – dalla religio addita – rivelata, che sviluppa e conferma la religione naturale, e fornisce i sacramenti.

La religio indita è l’esigenza di tutti gli enti, che tendono a tornare al principio che li fa essere.

La religio addita è l’espressione concreta della religio indita e dipende da questa, così come l’amore accidentale degli oggetti dipende dall’amore essenziale di sé. L’uomo si converte a Dio non solo per notizia e amore innati, ma anche per notizia e amore additi, cioè mediante atti liberamente voluti, dipendenti direttamente da sé e non dalla natura. Anzi per il Campanella il carattere addizionale diventa la peculiarità stessa della religione umana. Il regno della religione è il regno della spiritualità, e la spiritualità, che è la sfera dell’uomo e dell’angelo, è nella sfera dell’addito.

Se l’uomo potesse contenersi nella religione innata, lo spirito arretrerebbe alla natura e la sua religione resterebbe oscurità istintiva. Con la religione addita, invece, egli trasporta la ragione divina, impressa nella natura, dalla natura allo spirito, in modo che la natura, la quale è l’arte divina indita nella creatura, ritorni in certo modo arte, cioè consapevolezza e attività creatrice, anzi l’arte principale della vita umana, come afferma Campanella.

3- Il valore del cristianesimo

a. La rivelazione come esigenza innata della religione addita divina.

Chiarito il significato della distinzione tra religione indita e religione addita, appare esattamente situato il secondo problema della filosofia religiosa campanelliana: quale sia il valore del cristianesimo. Se la religio indita, essendo non un fatto, ma una tendenza, è identica in tutti gli uomini, la religio addita, espressione di tale tendenza, è invece un contenuto concreto di dogma e di rito, e per questo contrae l’accidentalità e l’incertezza del concreto. Se, però, tutte le religioni positive sono buone, in quanto intendono interpretare l’esigenza della religione innata, non tutte sono tuttavia vere o tutte false, ma sono vere o false secondo che realizzino o no un’adorazione del nume quale Dio intende nel costituire l’essenziale impulso religioso della creatura: «Si autem dicis quod pluralitas religionum et falsitas indicat nullam esse veram, mentiris: neque enim nulla est medicina aut philosophia vera, quoniam medici inter se dissidentes et philosophi in quiddatibus rerum (Se però affermi che la pluralità e la falsità delle religioni indica che nessuna di esse è vera, menti: perché allora neppure una medicina o una filosofia è vera, per il fatto che i medici sono in contrasto tra di loro o lo sono i filosofi circa l’essenza della realtà)» (Theol., lib. IV, cap. 3 art. 1). Si noti anche qui la coerenza sistematica. Al teorema della contingenza dell’errore nelle nozioni illate non può corrispondere il teorema della necessità dell’errore nella religione addita, ma puramente quello della contingenza di esso: né tutte le idee acquisite, perché errabili, sono errore, né tutte le religioni addite, perché fallibili, sono false. La religione addita o positiva, contenuto concreto di culto, sacrificio, dogma, sacerdozio, lungi dall’essere una sovrapposizione estrinseca, che sempre turbi e oscuri l’immanente appello al divino, è al contrario l’adempimento – sempre tentato e ora riuscito ora fallito – di quell’appello, è l’atto con cui l’uomo lo assume. La religio addita si difforma talora, anziché conformarsi, alla religio indita, e così deformata la occulta e la sopisce, invece di esprimerla e rivelarla. Per questa condizione di fallibilità, di antagonismo e di alienazione in cui si trova lo spirito, l’uomo non riesce a formulare e a realizzare la religione addita che interpreti adeguatamente la religione indita. Di qui la necessità della rivelazione: quello che è ultimamente inteso dalla religio indita come essenziale, e cioè il vero Dio, principio e universalità della mente che a lui tende, può essere raggiunto soltanto con l’aiuto del vero Dio stesso, il quale si pone non più soltanto come un oggetto occulto, ma altresì come oggetto manifesto. Questa esigenza della rivelazione è essenziale e innata come la religione indita, e come questa universale, una e uguale per tutte le religioni le quali tutte si presentano con i titoli, veri o falsi, della divinità, né potrebbero altrimenti legittimarsi, dato che la rivelazione è postulata intrinsecamente dall’indigenza religiosa dell’uomo.

b. Diagnostica della religione positiva.

Ponendosi tutte le religioni come manifestazione di Dio, in qual modo si discernerà dalle false la vera? Il problema della verità del cristianesimo, che è il problema centrale dell’età moderna, è il problema estremo della filosofia campanelliana: esiste una ricognizione della vera religione basata sull’analisi razionale, la quale non può già comandare e produrre l’atto di fede teologica, ma la prepara e la giustifica. La ricognizione è possibile mediante un procedimento diagnostico che separa la rivelazione divina da ogni altra e che è sostenuta dalla teorica del criterio, ossia dalle note per le quali può il filosofo discernere la divinità del rivelatore. Queste note possiamo brevemente riassumerle in dieci punti: il miracolo; il martirio; la profezia; la profezia propria; la santità della vita; il potere di trasmettere e continuare i carismi; l’efficacia santificante; la conformità dei precetti morali alla ragione; la convenienza razionale del rito; la razionalità soprannaturale del dogma. La diagnostica della religione positiva forma la sostanza dell’opera Atheismus triumphatus (1631), dove in forma di dialogo interiore dell’uomo con la ragione si conclude alla verità del cristianesimo.

c. Esame filosofico del dogma cristiano.

La religione cristiana ha tutti i segni della credibilità e della ragione. I suoi dogmi sono secondo natura oppure sono sopra natura, ma tutti razionalmente credibili. La fede cattolica in Dio creatore, governatore e remuneratore è confessata in tutte le nazioni. Il dogma della Trinità personale nell’unità della sostanza, quantunque soprannaturale, ha un modello analogico di evidente credibilità nel rapporto di insidenza delle tre primalità metafisiche che essenziano ogni ente. Anche il dogma dell’incarnazione è congruo alla natura. Né l’incarnazione importa un’opera di avvilimento, poiché non potendo Dio né salire a grado più alto di se stesso, né in se stesso discendere, ben poté condiscendere nei suoi effetti senza avvilirsi, come non si avvilisce per la sua universale presenza e intimità. Aver poi voluto insegnare con la parola ciò che già aveva espresso nella natura, appartiene all’eccellenza e alla conferma della dottrina e alla necessità di riformare quel che nella religione illata era andato deformato. L’osservanza dei due precetti compendiari dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo include la realizzazione di tutta la moralità. Campanella conclude che la legge di Cristo è l’unica che rende la natura capace di purezza interiore, la sviluppa secondo la sua costitutiva razionalità, è dotata di applicabilità universale, prescrive la più alta moralità e ne rende l’uomo capace mediante l’ausilio della grazia. Non la giustificazione di una data confessione contro un’altra confessione nel supposto della validità del cristianesimo viene così portata a compimento da Campanella, come fino ad allora era stata la teologia dei controversisti, ma la giustificazione del cristianesimo in solido raffrontato a tutte le religioni positive.

4- Teoria del Cristo Logos universale

Il cristianesimo non è una setta tra le sette, ossia una parzialità della ragione, ma la totalità della ragione, perché il suo principio è lo stesso Cristo che è principio dell’universale ragione. I cristiani si denominano dal Cristo in maniera del tutto diversa rispetto a quanto si denominano i platonici da Platone e i socratici da Socrate, poiché Cristo non è capo in particolare, ma in universale come principio di tutte le creature razionali. La ragione umana, infatti, è irradiazione del Cristo, verbo e divina ragione espressa, dal quale nella creazione tutti gli uomini hanno la razionalità e nell’incarnazione la riparazione e il compimento della razionalità. Se, dunque, in capo alla razionalità come in capo al cristianesimo è lo stesso Cristo, chi professa di vivere secondo ragione, pur ignorando il Cristo, non cerca forse lo stesso Cristo, dal momento che cerca ciò che soltanto nel Cristo si può trovare? I giudizi della sapienza naturale non sono fuori o contro il lume del cristianesimo, ma sono sotto il suo lume, hanno la stessa fonte delle verità rivelate.

Non si può condannare la rivelazione senza condannare la filosofia, né viceversa condannare Socrate senza condannare Cristo. Le conquiste della ragione naturale effettuate dal mondo classico appartengono più propriamente al cristianesimo che al paganesimo. Chi, arrestandosi nel processo dell’intelligenza, afferma il Verbo naturale e ricusa, ove sia persuasivamente predicato, il Verbo soprannaturale, possiede ingiustamente anche quel che possiede, poiché la verità naturale contiene in sé un’impulsività a sorpassarsi per aderire al Verbo rivelato. Così virtualità ed ombra di cristianesimo sono tutte le conquiste della sapienza dal momento che tutte sono participio e splendore della Prima Ragione. La sapienza naturale è dunque un cristianesimo implicito e il cristianesimo è la sapienza implicita: quella è in sé inadeguata, come una forza abortiva, se non si adempie nel logo incarnato, questa è pienezza che compie la natura e la sovrabbonda.

5- Apologia pro Galileo

L’Apologia pro Galileo (ancora più significativa perché l’astronomia campanelliana differiva dall’astronomia galileiana) costituisce una lucida delineazione dei rapporti tra scienza e fede. Tali rapporti, derivando dai rapporti tra il codice della natura e il codice della Scrittura, sono necessariamente di consonanza, poiché l’uno e l’altro codice si riducono a Dio e la verità non può contrariarsi. La mente cristiana, irradiazione del Verbo, è sapienza vastissima e ricetta di tutto il sapere: nessuna ricerca essa condanna e nessuna verità essa proscrive.

a. La distinzione tra scienza e teologia.

La finalità della Scrittura non è una rivelazione cosmologica, ma una rivelazione teologica e un’istituzione religiosa e morale. Gli scrittori sacri, conoscessero o no la costituzione del mondo, non intendevano significarla e non la significano: onde non può impegnare la fede il testo biblico, anche se dice la medesima cosa in più luoghi, se la cosa è di quelle che non era intenzione del dicente esprimere o definire. È un procedimento prepostero quello di chi adopera la Scrittura per stabilire una verità della natura, e commette petizione di principio chi produce contro una proposizione naturale un passo della Scrittura, il cui vero senso è appunto messo in dubbio da quella proposizione.

b. I danni della confusione tra scienza e rivelazione.

La celebre sentenza del processo galileiano, condannando l’astronomia eliocentrica in base ad un passo della Bibbia, incorporava al dato scritturale la cosmologia peripatetica. In questo modo, dopo aver comunicato ai glossemi filosofici l’autorità appartenente esclusivamente alla Scrittura, adoperava la Scrittura contro la cosmologia copernicana. Permettere alla teologia di comandare le conclusioni delle scienze naturali significa: annullare una parte dello spirito, cioè la sensata esperienza che è data all’uomo per l’investigazione della natura; sconvolgere la gerarchia delle scienze, facendo sì che la teologia serva le scienze naturali, anziché le scienze alla teologia; naturalizzare la teologia.

La teologia comanda l’esercizio delle scienze, non le conclusioni, in suo servizio. E poiché le scienze non possono servire se non siano perfettamente costituite, è compito dell’intelletto cristiano leggere il codice della natura con intera libertà.

NICCOLÒ MACHIAVELLI

Machiavelli e il machiavellismo3

Machiavelli appartiene a quella categoria di spiriti che, nel corso dei tempi moderni, si sono sforzati di smascherare l’essere umano. Questo pensatore appassionato è il primo di quella schiatta e il suo campo d’indagine, la «sua» verità è la politica, «colta nella sua ferina nudità» (Federico Chabod). Il Segretario fiorentino ha portato dal piano dei dati di fatto più o meno accettati a quello della riflessione e della teoria la pratica comune di coloro che fanno in tutti i tempi una politica di potenza ed è perciò al centro del continuo, aspro, angoscioso travaglio fra kratos (potere) ed ethos. Affrontare il «problema Machiavelli» significa dunque affrontare il problema del rapporto fra morale e politica. Con Machiavelli bisogna fare i conti, senza evasioni e senza ipocrisie, sia perché la sua dottrina indica un qualcosa di originario, un fondo oscuro della natura umana, una tentazione sempre rinascente, sia perché quel certo modo di concepire e di esercitare il potere reca in sé una logica inesorabile che conduce ben oltre la razionalizzazione puramente tecnica della politica offertaci nel Principe all’alba della scienza e della storia moderne.

A sgrovigliare gli equivoci che si infittiscono intorno al machiavellismo gioverà forse la semplice distinzione tra il pensiero di Niccolò Machiavelli da taluni ridotto, più o meno felicemente, a sistema (il machiavellismo di Machiavelli, per così dire) e la prassi politica e gli sviluppi dottrinali che si rifanno, a diritto o a torto, al Machiavelli. Al riguardo un illustre pensatore ha creduto di poter distinguere un machiavellismo attenuato o moderato, alla Richelieu, un machiavellismo assoluto, sublimato, che eleva l’arte politica machiavellica a metafisica e a culto statolatrico nel XIX secolo, secondo i moduli di Hegel e di Bismarck, e, infine, il machiavellismo irrazionale, demoniaco di cui il XX secolo ha dato prove terrificanti, quando l’ingiustizia illimitata, la violenza illimitata, l’immoralità e la menzogna illimitate sono i mezzi politici ordinari e la tecnica dell’oppressione, dello sfruttamento, del lavoro forzato, della deportazione in massa trae da questa stessa illimitatezza del male una forza esecrabile.

Noi ci occuperemo soprattutto della questione implicita nel primo e fondamentale significato della parola «machiavellismo», articolando il discorso in due punti essenziali:

a. quali sono le motivazioni di fondo e le conseguenti aporie dell’utilitarismo politico di Machiavelli;

b. in che cosa consiste la grandezza storica del Machiavelli non filosofo della politica, ma fondatore della scienza empirica e fenomenologica della politica.

L’anti-machiavellismo di maniera che prevalse dalla seconda metà del secolo XVI a tutto il secolo XVIII confuse spesso la condanna con l’esorcismo, la critica col fanatismo, suscitando per reazione una serie di tentativi di riabilitazione, che non può ritenersi ancora conclusa. Il motivo apologetico escogitato da Alberico Gentili, da Traiano Boccalini e da Giuseppe Baretti fu ripreso da Jean-Jacques Rousseau e da Vittorio Alfieri e reso popolare da Ugo Foscolo nei famosi versi dei Sepolcri. Di questo passo, facendo ricorso ai più diversi e speciosi argomenti, si giunse all’assurda tesi di Marc Monnier di proclamare che nessuno è meno machiavellico e più contrario al machiavellismo dello stesso Machiavelli, il quale sarebbe un altro grande incompreso non solo da parte dei contemporanei, ma anche dei posteri. Nessuno penserà, oggi, ad un Machiavelli maestro di popoli nell’atto di erudire tiranni. Attribuire all’autore del Principe la volontà di rendere un servizio ai sudditi, rivelando loro le arti malvagie dei principi, e, per usare l’espressione secentesca di Boccalini, «mettendo denti di cane in bocca alle pecore» può esser diventato un luogo comune, ma suona, a veder bene, come intenso rifiuto e trasfigurazione arbitraria della visione machiavellica della politica

Le tesi apologetiche si sono fatte nel nostro tempo ben altrimenti raffinate e complesse e ricevono soprattutto alimento dalla rivendicazione della cosiddetta autonomia della politica rispetto alla morale (Benedetto Croce) e dalla interpretazione del machiavellismo come utilitarismo politico sì, ma di carattere sovraindividuale, statale e, dunque, etico, in quanto l’utile che si cerca è l’utile dello Stato e fa della dedizione allo Stato l’assoluto della moralità (Francesco Ercole).

Croce è stato il più illustre e il più personale apologista di Machiavelli, a partire dalla Filosofia della pratica sino ai Quaderni della critica del luglio 1949. L’apologia crociana si fonda sull’attribuzione a Machiavelli del merito di aver scoperto «la necessità e l’autonomia della politica, della politica che è di là, o piuttosto di qua, dal bene e dal male morale, che ha le sue leggi a cui è vano ribellarsi, che non si può esorcizzare e cacciare dal mondo con l’acqua benedetta» (Etica e politica, Laterza, Bari 1967, prima edizione economica, p. 205).

Machiavelli sarebbe dunque lo scopritore della categoria dell’utile come distinta e autonoma categoria dell’azione politica. Il limite di Machiavelli, secondo Croce, sta nel fatto che egli, individuata la sfera dell’attività politica con le sue leggi, non ne ha però indagato i rapporti con le altre attività spirituali, implicandosi in dolorose aporie; per questo motivo il suo pensiero va integrato con quello di Vico, per il quale la politica è un momento solo della vita dello spirito e della società, cui segue il momento della giustizia e della moralità.

Sicché Croce, per un verso, legge in Machiavelli la sua dottrina della amoralità o anteriorità ed estraneità della politica alla morale e, per un altro, con l’accentuarsi dell’esigenza etica che caratterizza il suo pensiero nell’ultima maniera, protesta contro questo aspetto del suo stesso pensiero e così di fronte alla tesi dell’amoralità di atti utilitari o politici scrive che «la nostra umana coscienza ci grida che in nessun caso è lecito rompere la fede data o compiere delitti; che non c’è una morale in casa e una in piazza» (Etica e politica, op. cit., p. 172).

Le citazioni si potrebbero moltiplicare perché il rapporto tra morale e politica è uno dei motivi sui quali Croce ama spesso ritornare, ma il suo pensiero, ogni volta che si propone l’antinomia di politica e morale, riesce sempre a una giustapposizione e non a una conciliazione.

Il Croce della coscienza morale fattasi via via più esigente ci offre quindi le più suggestive argomentazioni per confutare il Croce filosofo della politica come mera attività utilitaria e «forza vitale, incoercibile» (Il carattere della filosofia moderna, Laterza, Bari 1941, p. 238) e della concezione degli Stati come giganteschi animali tendenti ad «asserire la forza senz’altro limite che questa forza stessa e il più conveniente e utile modo di usarla» (Etica e politica, op. cit., p. 142). In breve, posto pure che nel pensiero machiavellico vi sia effettivamente la formulazione della tesi del carattere amorale e autonomo della politica, è certo tuttavia che le difficoltà intrinseche di questa posizione non consentono di giustificarla.

La politica come non è di là, così non è di qua dalla morale, non potendosi concepire aspetto o momento della vita umana in cui si verifichi una carenza o una sospensione della coscienza morale. Se la politica impegna l’intelligenza, la volontà, la riflessione, la valutazione di fini e di mezzi impegna necessariamente anche la coscienza morale, la cui funzione e la cui sanzione non hanno luogo solo là dove non sussistono intelligenza e volontà.

Amorale è soltanto l’animalità nel bruto o l’attività del folle, pre-morale la vita dell’infanzia. Ogni volta, invece, che l’utile è fine a se stesso, che non serve a valori che lo trascendono, si può parlare di amoralità per eufemismo, in realtà siamo in piena e qualificata immoralità.

Il dilemma, dunque, si rende inevitabile. Croce non può essere apologista e critico del machiavellismo nello stesso tempo e sotto il medesimo aspetto, cioè nel modo di concepire il rapporto tra politica e morale. O ha ragione il Croce della coscienza morale quando scrive che «non si possa essere ‘uomo politico’ senza essere ‘uomo’» (Etica e politica, op. cit, p. 185), che l’unione della morale con la politica è necessaria, ha carattere positivo, non dev’esserci contaminazione ossia sostituzione di particolari interessi all’azione morale (Il carattere della filosofia moderna, Laterza, Bari 1941, pp. 246-247) – e allora il machiavellismo ha torto – o ha ragione il Croce filosofo neo-hegeliano e immanentista, per il quale la storia storicisticamente concepita tutto livella e tutti sommerge, soffocando ogni idea di valore e la possibilità stessa di una vita morale, e allora il machiavellismo è pienamente giustificato e il pensatore abruzzese non può più essere invocato tra i maestri della libertà e della protesta morale contro la barbarie del totalitarismo.

Il magnanimo travaglio e la felice incoerenza di Croce sul problema dei rapporti tra politica e morale ci dà modo di ribadire il punto di partenza delle considerazioni svolte fin qui. La politica è un ramo dell’etica, che ha per scopo diretto il bene comune, delle comunità terrene di cui l’uomo è parte, ma è un ramo specificamente distinto dagli altri del medesimo tronco. Di qui una differenza specifica di prospettiva tra la morale individuale e l’etica politica. Così si spiega che molte cose nel comportamento politico, che i pessimisti invocano a sostegno dell’amoralismo politico, sono cose in realtà eticamente fondate: come per esempio la tolleranza politica di certi mali, di certi atti cattivi, tema questo svolto con stupendo realismo da Tommaso nella q. 96 della Prima Secundae della Summa Theologiae.

Allo stesso modo risultano eticamente fondate altre forme di attività che devono essere esercitate da chi ha la responsabilità di governare: tali sono l’uso da parte dello Stato nella forza coercitiva non per violare i diritti del popolo, ma a presidio della libertà dei cittadini; l’uso dei servizi segreti a garanzia della sicurezza dello Stato; il riconoscimento del fatto compiuto (il cosiddetto «statuto di limitazione») che permette di trattenere beni in altri tempi male acquistati perché nuovi legami e nuove relazioni vitali hanno generato e infuso in loro diritti nuovi; la richiesta di una dose di artificio o di riserbo per evitare un male maggiore o per ridurre gradualmente quel male perché la stupidità e l’imprudenza non sono virtù, ma vizi e non si può essere virtuosi senza intelligenza.

Il tema è affascinante e ho voluto qui solo accennarlo per mostrare come la determinazione in concreto proprio dei problemi che sembrano al limite tra etica politica e politica amorale esige una prospettiva filosofica che abbandoni i due astratti assolutizzati dell’amoralismo politico e dell’ipermoralismo, del purismo farisaico, non certo migliore del primo.

«La purezza dei metodi – scrive Jacques Maritain – consiste nel non usare mezzi moralmente cattivi in se stessi, e non nel rifiutare farisaicamente ogni contatto esteriore con le brutture della vita umana» (La fine del machiavellismo, La Locusta, Vicenza 1962, p.72). «La paura di macchiarsi entrando nel mezzo della storia non è virtù, ma un modo di fuggire la virtù». Il modo proprio del delirio farisaico.

Alla formula dell’utilitarismo politico (ancorché di carattere statal-nazionale) si riduce l’interpretazione di Francesco Ercole che attribuisce a Machiavelli la scoperta di «un nuovo concetto della politica in quanto scoprì un nuovo concetto della moralità…» (Da Carlo VIII a Carlo V, Vallecchi, Firenze 1932; cap. «Il machiavellismo di Machiavelli»). La scoperta consisterebbe nell’aver visto e affermato che la volontà di domino e di affermazione, la virtù machiavellica ha carattere egoistico e immorale quando è rivolta all’utile individuale, acquista carattere etico quando è diretta all’utile dello Stato. L’antinomia, in ultima analisi, non sarebbe quella fra politica e morale, fra potere ed etica, fra kratos ed ethos, ma fra le azioni rivolte soltanto al bene dell’individuo e quelle rivolte al bene comune dello Stato. Questa interpretazione del machiavellismo è alla base della famosa formula «il fine giustifica i mezzi», la quale sta a significare l’indifferenza morale dei mezzi rispetto al fine presupposto buono.

Non v’è dubbio poi che il fine, al quale il Machiavelli tendeva con tutta l’anima, fosse buono, soggiungono i compiacenti apologisti, non v’è dubbio, poiché basterebbe a provarlo la commossa chiusa del Principe. In tal modo l’interpretazione dell’utilitarismo nazionale fa sistema con un luogo comune che è sì infondato, ma è così diffuso da sopravvivere in noi anche dopo averlo confutato.

Questa interpretazione

  1. ci impone in primo luogo di chiarire il significato del ventiseiesimo capitolo del Principe, e cioè dell’idealità patriottica del Machiavelli rispetto a un metodo di prassi politica e ad un concetto di virtù utilitaria, che il Machiavelli aveva descritti e considerava validi per se stessi, al solo fine della conquista e della conservazione del potere;
  2. in secondo luogo ci obbliga a precisare se il machiavellismo è caratterizzato dall’asserita indifferenza morale dei mezzi rispetto al fine presupposto buono in quanto coincide con l’utile dello Stato o se è peculiare del machiavellismo l’indifferenza dei fini.

Federico Chabod ci pare abbia dato la risposta esatta al primo quesito. Nel ventiseiesimo capitolo «portato in alto dalla sua passione; immaginando e quasi già fisicamente vedendo il redentore dell’Italia più schiava che gli Ebrei, più serva ch’ei Persi, più dispersa che gli Ateniesi; sanza capo, sanza ordini; battuta, spogliata, lacera, corsa», Machiavelli dimentica antichi e nuovi giudizi (pessimistici sull’Italia dei suoi tempi), con negli occhi una nuova luce abbagliante – l’Italia libera dai barbari». L’esortazione finale non è un’appiccicatura posticcia, come fu talora detto; fa tutt’uno con il concepimento stesso del Principe e nondimeno non si può dire che la «patria» riassuma in sé l’etica machiavelliana: perché anche qui egli distingue bene, sia che dica per sé «amo la patria mia più dell’anima» (Lettera al Vettori, 16 aprile 1527), o, per i fiorentini del Trecento, che «stimavano allora più la patria che l’anima» (Istorie Fiorentine, III, 7). «La patria – osserva acutamente Chabod – merita le si sacrifichi l’anima, ma non è l’anima, vale a dire non sostituisce quei valori religiosi e morali che costituiscono l’anima. La patria può, deve indurre a sacrificare anche il giusto e il laudabile; ma, anche sacrificato per la salvezza dello Stato, il “giusto” rimane “giusto”. Come Machiavelli non immagina, neppur di lontano, di rovesciare la morale comune, sostituendovi una nuova etica, […] così nemmeno egli pensa di sostituire la patria all’ideale morale cristiano, creando un’etica civica nuova». «Il vero è che il Machiavelli lascia, ben fermo, l’ideale morale: e lo lascia fermo perché non se n’ha da occupare. Tutto e soltanto preso com’è dal suo demone interiore, dal suo furor politico… il resto rimane al di fuori del suo sguardo».

Nicola Matteucci, in un bel saggio del 1959 sulla rivista bolognese Il Mulino ha condensato in questo giudizio il suo pensiero sul problema in discussione: il sentimento di italianità di Machiavelli «non diventa elemento riflesso della sua costruzione, non si trasforma in pensiero, concetto, idea, e resta invece solo elemento del suo sentire e del suo appassionarsi al mondo». Né va taciuto che le idee di Machiavelli riguardanti l’unità d’Italia nell’ultimo capitolo del Principe rimanevano piuttosto vaghe: «Non era chiaro se egli prospettasse un’alleanza militare transitoria, una costituzione federale permanente o uno stato nazionale unificato» (Felix Gilbert, Machiavelli e la vita culturale del suo tempo, Il Mulino, Bologna 1964, p. 148).

«Il patriottismo non riesce a umanizzare il concetto machiavellico di Stato» (Nicola Petruzzelis), né l’artista-eroe della tecnica politica machiavelliana, il Cesare Borgia, è certo un esemplare di devozione al bene super-individuale della patria, intento com’era a mettere insieme un piccolo principato nel cuore dell’Italia, con ambizioni del tutto personali.

Da Benedetto Croce a Gaetano Mosca, da Vittorio De Caprariis a Nicola Petruzzellis storici, esegeti, filosofi non riescono a spiegarsi come il Machiavelli abbia potuto fare dell’ultimo tirannello del Rinascimento signorile il primo politico moderno, il prototipo dell’azione politica coerente ed efficace, se si pensa che Cesare Borgia, oltre a quei delitti che ebbero o potevano avere movente politico, altri ne compì per privata sregolatezza o efferatezza, con l’uccisione nelle braccia stesse di Alessandro VI, del cognato Alfonso d’Aragona, del fratello duca di Candia e d’un servo che, vistosi minacciato per futili motivi, vi si era rifugiato. «In lui era completo il predominio delle passioni più basse e selvagge – scrive Mosca – [e] nulla viene fuori che riveli un ingegno eccezionale ed un’energia straordinaria».

La celebrazione che il Machiavelli fa di questo autentico avventuriero e delinquente nel cap. VII del Principe («Raccolte io, adunque, tutte le azioni del duca, non saprei riprenderlo; anzi, mi pare, come ho fatto, di preporlo imitabile») costituisce un aspetto così proficuo ed esplicito del machiavellismo da fare del suo autore indubitabilmente il più grande apologista del delitto politico. Né l’ammirazione compiaciuta di Machiavelli per il comportamento politico del Valentino può essere smentito dal diverso giudizio che su di lui si esprime altrove e precedentemente: si tratta di una contraddizione che vale, se mai, a provare soltanto che non è facile soffocare la spontanea protesta della coscienza morale, di cui anche Machiavelli era dotato.

In ogni caso, al di là delle convergenti linee interpretative e delle osservazioni fin qui svolte, contro la pretesa di elevare Machiavelli al ruolo di costruttore di una nuova coscienza morale e di anticipatore dello Stato etico di conio hegeliano, si deve obiettare alla tesi di Ercole – in questo dopoguerra riproposta da Goffredo Quadri in un libro traboccante di brillante erudizione e di idee confuse (N. Machiavelli e la costruzione politica della coscienza morale, La Nuova Italia, Firenze 1947) – che l’utilitarismo non cambia natura, sia che riguardi l’individuo che la collettività o lo Stato. L’utile di uno Stato riveste valore morale solo là dove, per quanto urgente, non si configuri come un fine assoluto, esclusivo, che debba cancellare o subordinare violentemente a sé, deformandolo, ogni altro valore. Un egoismo non diventa «sacro» per il fatto di essere collettivo e sovraindividuale. Il nazionalismo, il razzismo, il totalitarismo non mutano la loro essenza barbarica e disumana perché imbarbariscono e disumanizzano intere comunità fanatizzandole. L’uomo può sacrificare la sua vita per la comunità a cui appartiene, ma non la sua anima. Vi sono nell’uomo valori che non possono essere subordinati allo Stato perché sono universali e trascendono ogni e qualsiasi confine statuale: sono i valori di scienza, dell’arte, della cultura, della giustizia, della vita morale, della verità in ogni ordine e campo della fraternità.

A questo punto il discorso ha acquisito elementi sufficienti per far giustizia della famosa formula «il fine giustifica i mezzi», in cui si è creduto di compendiare il pensiero machiavellico.

Il machiavellismo non solo proclama l’indifferenza morale dei mezzi rispetto a un fine presupposto buono, ma energicamente sostiene l’indifferenza morale dei fini. Se si è compreso esattamente il significato e il limite dell’aspirazione nazionale di Machiavelli, non è lecito confonderla con la concezione del fine così come emerge dalle lucide e insieme inaccettabili, anguste teorizzazioni di Machiavelli. Il fine è uno solo: l’acquisto e la conservazione del potere con qualunque mezzo (anche buono, se se ne offrisse l’opportunità) alla sola condizione che i mezzi scelti siano atti ad assicurare comunque il successo. «Vincere o per forza o per fraude», ecco la divisa del machiavellismo: ecco il fine a cui si commisura il valore dei mezzi.

Il machiavellismo vuol essere la «grammatica del potere» e il Principe ci offre una filosofia della razionalizzazione puramente tecnica della politica: in altre parole eleva a sistema, a norma il modo in cui gli uomini per lo più si comportano di fatto, e insegna a maneggiare il potere con una concezione squisitamente artistica della politica.

L’indifferenza morale dei fini nella concezione machiavellica è la premessa logica dei quattro canoni tipici del machiavellismo:

  1. il canone della «virtù»
  2. il canone della «verità effettuale»
  3. il canone delle «crudeltà bene usate»
  4. il canone della morale e della religione come instrumenta regni.

Questi capisaldi del machiavellismo son troppo noti e inequivocabili perché si indugi ad analizzarli partitamente. Machiavelli ci ha fatto prender coscienza di ciò che sono di fatto i costumi politici concreti dell’umanità. Questa presa di coscienza ha un’importanza capitale e nel contempo dei rischi di pervertimento. In che consiste questo rischio di pervertimento? Nell’avere il Machiavelli teorizzato la perfetta indifferenza al bene e al male come la regola, la legge stessa della politica. La responsabilità storica gravissima di Machiavelli è di aver accettato, riconosciuto e adottato come regola il fatto della immoralità politica, e di aver dichiarato che la buona politica, quella conforme alla sua natura e ai suoi fini autentici, è per essenza una politica non morale, mentre la giustizia politica e il rispetto dei valori morali significano debolezza e condannano all’insuccesso. Qui il bene morale è ridotto ad uno scialbo e stanco velleitarismo, e si misconosce completamente il carattere realistico e sperimentale della vita morale e la forza liberatrice del dover essere, la sua funzione di spoltrire il reale e di promuovere l’aspra attuazione dei valori nei solchi della storia, perché la storia è e sarà dramma per la coscienza morale e non idillio. A queste inevitabili conclusioni dell’utilitarismo machiavellico la coscienza storica di chi ha visto gli sviluppi del machiavellismo e la coscienza cristiana devono reagire vigorosamente, contestando le basi stesse di quelle concezioni.

Non è vero che il fine della politica sia l’acquisto e l’accrescimento del potere in quanto tale: al contrario il fine della politica è il bene comune di un popolo e della famiglia umana, cioè qualche cosa di essenzialmente e concretamente umano, e dunque etico. La forza è decisamente forte solo se la suprema regola è la giustizia e non la forza.

Noi non ci rassegneremo mai, come se fosse una fatalità, alla cosiddetta «realtà effettuale», e cioè ai giochi e alle manipolazioni menzognere e ipocrite della politica di potenza, di oppressione e di sfruttamento.

La nostra coscienza morale e storica non irride come fa l’autore del Principe ai profeti disarmati, perché sa che della verità effettuale più viva e vitale fanno parte proprio le forze autenticamente morali e religiose i cui grandi testimoni – da Socrate a Cristo, da Agostino a Francesco, da Giovanni XXIII a Luther King – fanno compiere alla coscienza umana i grandi salti qualitativi di cui essa ha bisogno, restituendoci alla Sorgente e immettendo nel mondo lo slancio vitale dell’amore di Dio per tutti gli uomini.

È vero che gli insegnamenti di Machiavelli implicano una utilizzazione essenzialmente razionale e misurata, cioè artistica, del male, ma ciò resta radicalmente insufficiente e precario. Noi siamo fermamente convinti che c’è un altro genere di razionalizzazione della vita politica: la razionalizzazione morale che mira a sottomettere, con energia implacabile, il pesante complesso di interessi contrastanti, di potere e di coercizione inerenti alla vita sociale, alla forma e alle norme della ragione umana tesa verso la libertà e che basa l’attività politica non sull’ingordigia infantile – la gelosia, l’egoismo, l’orgoglio, la frode, le pretese al prestigio e al dominio trasformate in regole sacre di un gioco tragicamente serio – ma su una conoscenza adulta delle più profonde necessità del genere umano, delle reali richieste di pace e di fratellanza.

Questo modo di razionalizzare la politica è essenziale all’uomo, alla civiltà perché in tema di organizzazione razionale della vita politica siamo ancora in epoca preistorica. Non è più tollerabile fare della politica uno scandalo dell’intelligenza e l’arte di moltiplicare l’angoscia, l’infelicità e il disprezzo tra gli uomini. Se il machiavellismo di Machiavelli e quello dei suoi continuatori si rifiuta persino di recepire un simile problema perché lo avverte estraneo al suo spirito, per l’umanità esso è essenziale alla sua stessa sopravvivenza. Ed anche per questo, diremo con Francesco De Sanctis, ma conferendo maggior forza ed estensione alla sue parole, «tra noi e il grand’uomo c’è il machiavellismo e noi non possiamo dirci suoi discepoli».

Uno studioso non sospetto di avversione per Machiavelli, Chabod, in una lezione tenuta a Firenze nel 1952, riprendendo e svolgendo alcuni aspetti centrali della sua interpretazione, in polemica con le interpretazioni eccessivamente sistematiche del pensiero del grande fiorentino, insisteva sul «primeggiare assoluto [in Machiavelli] del momento intuitivo su quello della logica e della dottrina».

Croce vede sorgere «il singolare tono di poesia del Machiavelli» dal «suo veder profondo e pure angusto», dal prevalere del ragionamento immaginativo, che procede per asserzioni ed esclusioni, sull’atteggiamento e l’indubbia attitudine del loico.

Petruzzellis, dal canto suo, in un saggio di alto livello teoretico, concorda con Chabod, Croce e Firpo, nell’affermare che il pensiero di Machiavelli è alieno dagli orizzonti e dalla disciplina della speculazione filosofica. Il problema etico-politico non è suscettibile di una soluzione filosofica, se non in intimo rapporto con gli altri problemi della filosofia. Non si può fare filosofia della politica senza fare filosofia.

L’assenza di interessi speculativi, la forte sollecitazione della prassi sul suo pensiero sino a trasformare il fatto in legge e il dato in valore inducono gli stessi apologisti a non considerare il Machiavelli un filosofo e sia pure un filosofo della politica. Ma ciò non significa che il suo pensiero sia irrilevante per la storia dell’etica e della politica, e quindi anche per la storia della filosofia.

Se l’influenza storica esercitata da Machiavelli – a causa dell’importanza del problema affrontato – non basta a provare l’intrinseco valore filosofico delle sue teorizzazioni politiche, giustifica però la posizione del problema storico-critico. Noi crediamo che Machiavelli abbia un posto preminente nella scienza empirica e fenomenologica della politica.

La scienza descrittiva e fenomenologica della politica era nata da un pezzo, se si pensa alle osservazioni sui fenomeni politici e le loro costanti empiriche contenute nelle opere di Platone, di Aristotele, di Tucidide, di Polibio, di Tacito e la serie potrebbe continuare. Il Machiavelli del Principe e dei Discorsi sopra la prima decade di Tito Livio rappresenta una svolta decisiva in questo processo di differenziazione. Lo aveva acutamente notato Manzoni, in una lunga nota al saggio «Del sistema che fonda la morale nell’utilità», in cui si dice ammirato dinnanzi alla mirabile sagacia dello scrittore fiorentino «nel discernere e nel connettere le cagioni degli avvenimenti, nel vedere la concordanza o il contrasto tra gli intenti degli uomini e le forze delle cose». Si vuole qualche esempio?

Si rileggano i suoi giudizi sulla politica estera di Firenze, sempre desiderosa che altri la cavassero d’impaccio, miope nel suo sistematico temporeggiare, e dunque vero vaso di coccio posto a viaggiare tra vasi di ferro; e che dire della vibrata denuncia del particolarismo di Venezia e del bellicismo di Giulio II, l’impetuoso apprendista-stregone che aveva scatenate forze assai più grandi di quante riuscisse a dominare?

L’immedesimazione del cittadino col soldato è intuizione felice e anticipatrice del futuro, anche se, a parere di Chabod, la diagnosi delle origini della crisi italiana che si andava svolgendo sotto i suoi occhi era sbagliata, «puntando lo sguardo soprattutto sulla viltà di armi mercenarie».

Machiavelli accenna a superare il superomismo demiurgo del Principe, l’artista-eroe della tecnica politica, non solo e non tanto nel tema del rapporto antinomico fra virtù e fortuna, quanto ponendo il problema delle basi dello Stato nella chiara intuizione che la solidarietà di uno Stato non risiede soltanto nell’energia del suo capo, ma anche ed essenzialmente nelle sue «membra» nei suoi ordini, nel tipo di rapporto che il principe stabilisce con i sudditi.

Ma come concretamente realizzare questa esigenza? Quali sono gli istituti, i provvedimenti, i rapporti sociali che permettono di realizzare in forme nuove e moderne quella convivenza e dialettica di forze che i romani avevano realizzato nelle forme loro proprie?

A queste domande non troviamo sostanzialmente risposta nelle opere di Machiavelli – nota Giuliano Procacci – ma l’averlo posto è uno dei tratti distintivi del suo genio.

Le osservazioni geniali e i moniti che il politico attento può trarre dalla meditazione di Machiavelli colpiscono per la loro evidenza. È preoccupazione costante di Machiavelli che gli uomini nella «bonaccia», faccian sempre conto della «tempesta» (Principe, XXIV), e che principi e legislatori veglino incessantemente (come si legge, ad esempio, in Discorsi, I, 18 e, soprattutto, III, 1) sui loro Stati pronti a «ridurgli verso e’ principii suoi» non appena i segni della decadenza incominciano ad essere presenti nelle loro strutture: «perché è cosa più chiara che la luce, che, non si rinnovando, questi corpi non durano» (III, 1).

Felicissima poi l’osservazione che nulla è più nocivo nelle pubbliche azioni, delle deliberazioni ambigue o lente e tarde le quali derivano «o da debolezza d’animo e di forze, o di malignità di coloro che hanno a deliberare» (Discorsi, II, 15). E si potrebbe continuare, e non sarebbe male perché è qui la grandezza autentica di Machiavelli.

Con felice accostamento Ernst Cassirer scriveva nel 1944 che Machiavelli «analizza il movimento politico con lo stesso spirito con cui Galileo analizzerà quello fisico»; ma quasi un secolo prima, rompendo ben più impacciati remore e pregiudizi, già Vincenzo Gioberti aveva dichiarato ch’egli «fu pel metodo il Galileo della politica, introducendovi l’esperienza feconda e ampliata dall’induzione e dal raziocinio».

Questo giudizio è ancora la chiave per intendere Machiavelli oggi.

Storia della critica su Machiavelli

Si sono occupati di Machiavelli non soltanto i critici, ma anche religiosi, filosofi, giuristi e politici, che tendono a risolvere il pensiero di Machiavelli entro i propri schemi, con ordini di valutazione che trascendono Machiavelli e l’ambito rinascimentale. In questo senso ha avuto centralità nella storia della critica il rapporto etica-politica, a scapito dell’analisi del problema stilistico come espressione della tendenza della personalità definitiva dello scrittore, che vive il dramma della sua dottrina.

1- Il confessionalismo contro Machiavelli

Da ricordare è il fatto che le opere di Machiavelli uscirono con il favore della curia e soltanto per la cattiva fama creatasi intorno al suo pensiero nel 1559 il Principe è incluso nel terzo indice. Il cardinale Reginaldo Poole è il primo vero inquisitore di Machiavelli, e gli mostra il suo raccapriccio per quelle che chiama le «orribili pagine scritte da un nemico del genere umano col dito di Satana». Il cardinale polemizza contro la tesi della religione come instrumentum regni, che secondo lui, è un tutt’uno con l’ateismo e la corruzione dell’istituto monarchico.

Il domenicano Catarino Politi (1484-1553) scrive nel De libris a Christiano detestantis che Machiavelli è da esecrare per il suo immanentismo. Il Concilio di Trento sancisce definitivamente la condanna di Machiavelli quale emblema degli scrittori perversi. La Chiesa vuole ristabilire il principio della sovranità su basi religiose; Machiavelli non è più uno scrittore, ma un atteggiamento politico da combattere. Egli è cinico perché rinnega la guida della Chiesa, perché le muove le accuse in ordine alla crisi politica dell’Italia.

Innocent Gentillet, un riformato, nel 1576 scrive l’Antimachiavellus: non si tratta di critica ma di un unico assioma, Machiavelli è strumento di Satana per portare in Francia il veleno italiano. Innocenzo IX incarica Antonio Possevino di scrivere un testo critico su Machiavelli e costui lo produce senza nemmeno leggere il Principe; sempre per incarico della curia scrive il filippino Tommaso Bozio che cerca di mostrare la falsità delle accuse mosse alla Chiesa da Machiavelli.

L’affannarsi degli avversari contro Machiavelli è prova della sua vitalità e testimonia come sia nata una scienza che si può tentare di addomesticare ma non negare. Tra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo il gesuitismo politico origina il «tacitismo» con due opposte interpretazioni: Tacito è colui che ammaestra i sovrani oppure, obliquamente, Tacito, con la loro rappresentazione, volge alla esecrazione degli stessi. Giovanni Botero scrive nel 1589 Della Ragion di Stato, vero codice politico dei gesuiti, e utilizza il machiavellismo contro Machiavelli. Vagheggia un governo clericale che abbia il favore divino e la religione diviene veramente instrumentum regni; il fine della supremazia papale e della distruzione degli eretici e dei ribelli giustifica, presso gli uomini e presso Dio, ogni mezzo.

2- Vari atteggiamenti nel Seicento

Mentre il cardinale Roberto Bellarmino fornisce una sistemazione organica del pensiero controriformista, il fiammingo Giusto Lipsio denuncia il machiavellismo degli antimachiavellici e sostiene che la colpa di Machiavelli è di «avere messo i denti in bocca alle pecore con grave pericolo dei pecorai quando avessero voluto mangiare le loro pecore e tosarle». Manca a tutti, difensori e accusatori, una precisa visione del pensiero machiavellico, della sua serietà ed originalità. Francesco Bacone, teorico dello sperimentalismo, apprezza invece la posizione metodologica di Machiavelli e il suo esame della realtà effettuale. Cartesio nelle lettere fa professione del machiavellismo e pare accettare la riduzione della politica alla ricerca dell’utile nonché la sua autonomia dalla morale. Tommaso Campanella offeso invece dall’empirismo e dall’immanentismo di Machiavelli, lo condanna in nome di una politica fondata sulle leggi divine.

3- Il Settecento

Va esaurendosi ormai la polemica. L’Illuminismo razionalista avrebbe potuto sentire Machiavelli vicino a sé ma solo tardi lo esalterà, perché il Principe di Machiavelli è troppo lontano dal sovrano illuminato del Settecento e perché il giusnaturalismo e il contrattualismo sono lontani dal concetto di Stato del Cinquecento. Interessante è la posizione di Gian Battista Vico, secondo cui Machiavelli nega la provvidenza ed è il teorico della forza. Molti sono i punti di contatto tra Vico e Machiavelli: tutti e due utilizzano il concetto di ricorso storico e di ritorno alle origini della grandezza romana. Ma per Vico, più storico, non ci sono premesse pessimistiche ed egli vede non solo l’importanza della forza, ma anche dei valori ideali. Inoltre in luogo della circolarità di Vico, Machiavelli parla di coincidenza senza mediazioni, mancando del concetto di sviluppo storico. Federico di Prussia scrisse un Antimachiavelli riveduto da Voltaire che è testo di trito antimachiavellismo; secondo l’autore Machiavelli è da rigettare perché l’immortalità è controproducente. La critica di Giuseppe Baretti si trova nella «Prefazione» a Tutte l’Opere di Niccolò Machiavelli (1772): Machiavelli è perverso, però è un grande storico e politico. Baretti sostiene la tesi della duplice obliquità, ovvero Machiavelli presenterebbe una mostruosa immagine del Principe ai fiorentini affinché lo respingano e spinge contemporaneamente i Medici a governare in modo da svergognarsi, a «snodolare il collo». Jean Jacques Rousseau sostiene che Machiavelli maschera con l’esaltazione tirannica il suo amore per la libertà. Così pure Giuseppe Parini e Vittorio Alfieri. Secondo quest’ultimo Machiavelli è un focoso entusiasta della libertà, non insegna ai principi alcun modo di governo, poiché i principi non hanno affatto bisogno che siano loro insegnati i mezzi, che hanno sempre utilizzato. Nelle parole di Alfieri, Machiavelli diviene un suo fratello preromantico. La pregiudiziale etica non viene comunque superata né da Baretti, né da Rousseau, né da Parini e Alfieri. Machiavelli sta ora diventando la bandiera del laicismo e del liberalismo. Ugo Foscolo scrisse un saggio su Machiavelli in cui rivendica la nobiltà del suo pensiero presso i fautori dell’indipendenza nazionale. L’immoralità del Principe nascerebbe da un’indagine amara sulla realtà effettuale, contro il predominio della chiesa e le usurpazioni straniere. Machiavelli sceglierebbe il principe come male minore. Nelle parole di Foscolo, Machiavelli cerca un usurpatore felice e poi un popolo che sappia rovesciarlo.

Vincenzo Cuoco (1770-1823) in Viaggio in Italia nel secolo di Leone decimo vede in Machiavelli il tecnico della politica e lo scopritore della logica segreta dell’agire umano, osservazione questa acuta e notevolissima che verrà ripresa da Russo.

4- I giudizi di tendenza e l’istanza storico-critica

Nell’Ottocento Vincenzo Gioberti, di fede neoguelfa, cerca di discolpare la Chiesa dalle accuse mossale da Machiavelli. Quest’ultimo non sarebbe moderno, perché non collaborerebbe all’incivilimento, mancando di ogni morale e fede religiosa. Tuttavia nel Rinnovamento Gioberti concede invece a Machiavelli di essere il «Galileo della politica». Alessandro Manzoni nelle Osservazioni sulla morale cattolica parla di Machiavelli «mariolo sì, ma profondo». Tra gli scrittori che presero l’utilità per norma suprema sarebbe toccato a Machiavelli il triste privilegio di dare il suo nome. Tuttavia Manzoni sostiene che Machiavelli non vuole l’ingiustizia né il male, vuole l’utilità, sia con la giustizia che con l’ingiustizia e in fondo preferisce la prima. Cesare Balbo condanna l’analisi dissolvitrice di Machiavelli e Cesare Cantù riconosce in lui l’immoralità del Rinascimento. Il Risorgimento italiano in definitiva accetta Machiavelli come precursore dell’unità, ma lo sente troppo lontano dal proprio idealismo.

L’Ottocento in Germania pone invece Machiavelli al servizio della statolatria prussiana, provocando spaventose alterazioni del suo pensiero. Friedrich Treitsche sostiene che Machiavelli ha esaltato lo Stato come forza libera e superiore. Da parte sua Friedrich Hegel apprezza invece l’autonomia della politica, riconosce che il male è utilizzato non per interessi privati; tuttavia afferma che le tesi politiche di Machiavelli, adatte alla situazione storica del momento, non sono valide universalmente.

5- Francesco De Sanctis

L’analisi di De Sanctis inizia con una polemica contro chi ha tentato di difendere il Machiavelli con assurde attenuanti. Machiavelli è comprensibile solo alla luce della crisi della civiltà medievale, la corruttela altro non sarebbe che la putrefazione del Medioevo e Machiavelli cercherebbe al di là di essa le fondamenta per un nuovo edificio. Se non è vero che con Machiavelli muore la scolastica (già morta) e nasce la scienza (già nata), è tuttavia notevole che De Sanctis affermi che Machiavelli fu il primo a fare della politica una scienza. L’originalità della critica di De Sanctis è l’interpretazione storica del pensiero di un uomo, nella sua personale complessità e nel legame con l’ambiente. Machiavelli viene indagato con obbiettività critica e iuxta sua principia. De Sanctis, mentre scrive di Machiavelli è già fuori dall’idealismo hegeliano e si sta accostando al pensiero positivista; logico dunque che lodi l’autonomia dello Stato e la scienza in Machiavelli. A questo punto De Sanctis integra Machiavelli con Vico, vedendolo dunque come precursore del concetto di nazione. De Sanctis si accosta al problema dello stile di Machiavelli e indica la sua novità nella nascita di un periodare caratterizzato da proposizioni staccate, che enunciano senza perifrasi, circonlocuzioni, argomentazioni. Il problema dello stile è visto in concatenazione con il pensiero dell’autore. Per questi spunti De Sanctis sarà un punto di partenza per tutta la critica recente.

6- Da Croce a Russo

Benedetto Croce insiste sulla validità dell’autonomia alla politica rispetto all’etica: Machiavelli non vuole il male per il male, ma vede il male come coefficiente necessario della realtà, senza di cui non può esistere il bene. Machiavelli è espressione del Rinascimento, ma è anche vicino alla Riforma: Croce sottolinea il suo anelito verso un’attingibile società di uomini buoni e puri, il suo sognarla nei tempi passati, il suo sentimento amaro e pessimistico per la corruttela del mondo. Limite di Machiavelli è l’aver diviso la natura dallo spirito: solo Vico colmerà questa lacuna, risolvendo le aporie e il pessimismo, facendo divenire la politica momento dello spirito umano. Con Francesco Ercole siamo allo Stato etico e totalitario, e alla deviazione grossolana della interpretazione statolatrica. Per Ercole il bene è lo Stato, l’amore della patria è la moralità, dunque, contro tutta la critica, si identificherebbe in Machiavelli il momento etico e quello politico, la morale pubblica e quella privata. La ragione di Stato è moralizzata. Virtù è la vitalità dello Stato, studiata da Machiavelli nella sua attività (fondatori e politici) e passività (popolo). Ercole, pur non seguendo Friedrich Meinecke (L’idea della ragion di Stato nella storia moderna, Vallecchi, Firenze 1924), vede in Machiavelli il fondatore della ragione di Stato, vede la grandezza d’animo di Machiavelli nella sua immoralità, sottolineando che, quando consiglia il male, pur sostiene che è male. Come Meinecke ci riconduce all’ottocentesco imperialismo germanico, tanto Ercole al fascismo. Karl Vorlaender sostiene che l’utilitarismo nello Stato è la vera eticità, lo Stato è una divinità, tutto è ciò che gli serve. Giudicando su questa base Machiavelli accade che il suo pessimismo diventi tranquillamente ottimismo. Siamo alla politica della forza che vuole divenire politica della ragione.

Tra il secondo e il terzo decennio del Novecento la critica è dunque succube di un’ideologia che, analogamente a quella gesuitica e illuministica, non consente obbiettività.

Altro valore ha la critica di Federico Chabod che parla di Machiavelli come personaggio storico. Machiavelli è la coscienza della crisi; la perdita di fiducia del popolo lo avrebbe spinto a smettere i Discorsi e a scrivere il Principe. Machiavelli non è precursore dell’umanità, la sua volontà di respingere gli stranieri ha il fine di formare una signoria che equilibri le monarchie nazionali. Merito di Machiavelli è la scoperta storica dell’autonomia della politica e, mentre i Discorsi sono un esame della storia, il Principe è un esame della realtà effettuale. Lo stile di Machiavelli è immediato e incisivo e nel contempo composto; si ritrova in esso il gusto della logica, nonché la passionalità di una fede che vuole mutare il mondo. In Chabod confluiscono spontaneamente il giudizio storico e quello estetico.

Gli studi di Luigi Russo (Machiavelli, Laterza, Bari 1949) si basano su un’attenta lettura e approfondimento del pensiero di Machiavelli. Secondo Walter Binni l’esame di Russo raffigura finalmente l’unità di Machiavelli uomo, politico e artista in una formula che è il più alto esito della critica moderna.

7- Altri contributi e il problema stilistico

Gli studi successivi non contengono alcuna significativa novità rispetto a Russo. In generale si è capita la necessità di ricercare il rapporto tra i vari momenti dello spirito dello statista per ricostruirne la personalità e capirlo nella sua totalità. Ricompaiono però talora atteggiamenti moralistici come in Ugo Spirito, che studia il rapporto etica-politica e vede un Machiavelli che cerca di calare l’etica nella politica e, non riuscendovi, si dedica all’arte.

La difficoltà che ostacola gli studi su Machiavelli è il non poter parlare di lui senza mettere avanti le nostre idee e i nostri problemi; tuttavia è ben questo un aspetto della vitalità di Machiavelli. Tra i vari atteggiamenti della critica, ricordiamo Eugenio Garin che mostra il naturalismo alla base del pensiero di Machiavelli come origine delle sue aporie. La virtù fa violenza alla fortuna e, non potendola vincere, vi si adegua.

A parte vanno considerati i sostenitori di una teoria morale della politica. Ad esempio i redattori di Civiltà Cattolica che, in occasione del IV centenario della morte di Machiavelli, lo definiscono padre dell’indifferentismo e del liberalismo statolatrico, la cui sola audacia sta nell’affermare la propria immoralità. Jacques Maritain nel 1947 in La fine del machiavellismo (Quaderno di Roma), pur lodando l’atteggiamento antifarisaico di Machiavelli, si scaglia contro la sua pessima filosofia e vede Machiavelli come grande eresiarca dei tempi moderni.

Per opposto si ha l’interpretazione di Walter Binni: «Nell’asprezza della condanna come nel travisamento piagnone manca l’obbiettività nell’interpretazione di uno scrittore del quale anche solo il nome significa peccato. Non è certo facile mutare l’abito dell’inquisitore con quello del critico» (I classici italiani nella storia critica, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 474).

Giustamente Binni sostiene che l’interpretazione della personalità di uno scrittore include anche necessariamente la valutazione stilistica. Purtroppo, come si è detto, tale tema ha incontrato poco il favore della critica su Machiavelli. A parte gli interessanti spunti di De Sanctis e Croce, bisogna arrivare a Luigi Russo perché si abbia una sistematica interpretazione dello stile di Machiavelli.

Inoltre è segnalabile il testo di Fredi Chiappelli (1965) che procede dagli studi di Russo per un’analisi della lingua tecnica di Machiavelli e del rapporto fra detto tecnicismo e lo spazio lasciato al gusto dello scrittore.

Vi è poi la «disputa sulla Mandragola». De Sanctis affermò di provare un disagio morale nei confronti della commedia in cui ravvisò un gioco di temi comici e un riso triste, non satirico. Altri critici minori vedono invece uno stile satirico nella Mandragola, altri una satira involontaria, altri ancora si fermano all’immoralismo. Ma già con Giuseppe Toffanin (Machiavelli e il tacitismo, 1921) il riso di Machiavelli viene interpretato come dissimulata sensibilità morale; Croce riscontra nella commedia un’amarezza di fondo e una rassegnata chiaroveggenza; infine per Luigi Russo non vi è nella Mandragola né rammarico, né cinico compiacimento, ma solo un’analisi spregiudicata della corruttela con una tristezza profonda sublimata nella serenità dello stile. Russo vede in Machiavelli un’ispirazione morale nel riconoscimento della vita dove bene e male operano insieme. Si apre dunque anche per il tema dell’arte comica una maggiore comprensione storica, un esame stilistico obiettivo e pacato, possibile solo quando i pregiudizi sono vinti e i segni del tempo meno incisi nella coscienza del critico.

NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate.

NOTE

1 Articolo pubblicato dal Giornale di Brescia il 28.11.1994 con il titolo: Quegli Umanisti, figli del Medioevo.

2 Secondo Nicola Badaloni, possiamo distinguere nella posizione di Bruno riguardo alla religione tre diverse gradazioni. In primo luogo, si può individuare una lotta contro gli aspetti più apertamente superstiziosi del culto, poi contro la religione cristiana e infine una polemica antireligiosa in generale di cui più tardi divenne la bandiera. A questo proposito Antonio Labriola scrisse a Engels: «I liberali e i radicali sono molto coraggiosi contro i preti inermi e contro deboli monarchici costituzionali; essi sognano tanto volentieri di Giordano Bruno nelle logge massoniche: però la proprietà è per essi cosa sacra e i ministri borghesi, le banche e il militarismo sono per essi inviolabili» (Antonio Labriola, Lettere a Engels, Edizioni Rinascita, Roma1949, p.3).

3 Testo della conferenza tenuta all’Università Popolare Astolfo Lunardi a Brescia il 27 ottobre 1969.