«È in questo senso che le idee e le verità sono in noi innate: come inclinazioni, disposizioni, abitudini o virtualità naturali, non già come azioni» (W. Leibniz)
LA VITA
Wilhelm Leibniz nacque nel 1646 a Lipsia, dove suo padre era professore di filosofia morale all’Università. Intelligenza precocissima, profondo conoscitore del greco e della filosofia scolastica, svolse un’intensa attività diplomatica che gli permise di mettersi in contatto con Spinoza, Malebranche, Antonio Arnauld e Boyle. Nel 1682 fondò a Lipsia gli Acta eruditorum, e nel 1700 divenne primo presidente dell’Accademia delle scienze di Berlino, che diventerà poi l’Accademia della Prussia. Oltre a fondare società culturali, si occupò del problema dell’unione delle confessioni cristiane. Tra i suoi piani vi era quello di un’alleanza tra gli Stati cristiani per formare una specie di Europa Unita.
Leibniz fu uno dei personaggi più noti del suo tempo e godette della protezione di personaggi eminenti. Ma gli ultimi anni della sua vita furono amareggiati dalla dimenticanza. Quando nel 1714 l’Elettore di Hannover venne invitato da Giorgio I re d’Inghilterra, Leibniz non fu chiamato a seguirlo a Londra. La sua morte, avvenuta nel 1716, passò inosservata persino all’Accademia che egli aveva fondato a Berlino. L’Accademia di Francia fu la sola a commemorarlo.
«La rivoluzione scientifica, Bacone e soprattutto Cartesio avevano prodotto nella storia del pensiero occidentale una svolta radicale decisiva. In particolare due concetti sembravano irrimediabilmente compromessi: 1) quello di fine (o di causa finale), insieme alla generale visione teleologica (finalista) della realtà su di esso fondata, e 2) quello di sostanza, intesa nel senso di forma sostanziale, insieme alla connessa visione ontologica della realtà. Ebbene, sono proprio questi i concetti che Leibniz riprende, rivendicandone non solo la validità, ma, in un certo senso, la paternità (è sua l’espressione philosophia perennis per indicare le acquisizioni fondamentali della filosofia antico-medioevale) e, per giunta, mostrandone la possibilità di conciliazione con le più significative scoperte dei philosophi novi, ossia dei moderni filosofi e scienziati. Leibniz scopre che, in realtà, si tratta di prospettive che si collocano su piani differenti, che di per sé non solo non si elidono, qualora vengano intese nel loro significato appropriato, ma che si possono opportunamente integrare con grande vantaggio. Tutta la filosofia di Leibniz scaturisce da questo grandioso tentativo di mediazione e di sintesi fra antico e nuovo, reso particolarmente efficace dalla doppia conoscenza che egli aveva dei filosi antico-medioevali e di Cartesio» (Giovanni Reale, Dante Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, II, 2a ed., Brescia 1983, p. 331).
LA LOGICA
La logica da taluni è considerata come il fondamento della filosofia di Leibniz (Bertrand Russel), mentre da altri viene ritenuta importante, ma non tale da contenere in sé il germe dell’intero sistema.
Nella Dissertatio del 1666 Leibniz si rifà a Lullo nel programma di estendere a tutti i rami del sapere i vantaggi dell’analisi algebrica cartesiana: la logica matematica leibniziana mira a ridurre ogni ragionamento ad una combinazione di segni, cioè a un calcolo.
A questo scopo è necessario trovare per ogni concetto semplice un segno che lo rappresenti («caratteristica universale»), sì che, combinando variamente questi segni, si formi una specie di lingua universale, la quale permetta di esprimere tutti i concetti complessi e tutte le relazioni.
Con l’alfabeto delle idee Leibniz spera di foggiare uno strumento che per mezzo del calcolo delle combinazioni faciliti nuove scoperte e serva a sedare tutte le dispute: dovrebbe essere possibile ridurre un disaccordo su un qualsiasi punto a quello sul risultato di un’operazione difficile, per cui si possa dire «calcoliamo». E Leibniz, cultore del pascaliano calcolo delle probabilità, fa osservare che anche di ciò che è semplicemente probabile si dà una scienza non probabile ma matematicamente certa. Reperire tutti i possibili concetti e lavorare alla elaborazione della lingua logica universale è il compito delle Accademie che Leibniz andò fondando in numerose città d’Europa.
Per dimostrare i concetti e i principi supremi, Cartesio si era richiamato alla chiarezza e alla distinzione con cui li rappresentiamo; Spinoza aveva respinto sdegnosamente ogni dubbio sulla loro validità incondizionata affermando che l’idea vera è testimonio e garanzia di se stessa e del falso; per Leibniz gli elementi della deduzione non possono essere ricavati dall’intuizione immediata, come se si trattasse di un possesso immediato, ma debbono essere acquisiti gradualmente.
L’ideale criterio di certezza è l’idea distinta, la quale offre gli elementi di cui è costituita, sì che possa vedersene la struttura con una scomposizione logica sempre più approfondita che giunga a cogliere un concetto semplicemente attraverso se stesso (index sui).
Già nel Trattato sullo stile filosofico di Mizolius (1670), Leibniz criticava la comune visione empirista che vede nel concetto il riassunto di molteplici fatti singoli riuniti insieme da un nome comune. L’universale costituisce una determinazione estranea al campo della quantità, non sorge dal confluire di dati empirici: la «totalità del concetto» è un «totum distibutivum» e afferrare di un concetto il senso ideale (con l’atto della costruzione genetica) significa acquistare la sicurezza che qualunque cosa possa derivare da questo significato e da questo contenuto del concetto, essa dovrà estendere la sua validità ad ogni termine contenuto nell’ampiezza del concetto stesso.
L’empirismo rende impossibile spiegare la stessa induzione e toglie validità e giustificazione alle conclusioni dell’esperienza. La «certezza morale», con cui da un numero di casi direttamente osservati noi estendiamo una conclusione a innumerevoli altri casi che non si sono mai offerti all’osservazione, è valida solo in quanto si appoggi al postulato logico di leggi estese a tutto il campo del divenire.
A parte poche divergenze e innovazioni (quale ad esempio la logica della probabilità), la logica di Leibniz non si discosta molto da quella aristotelica, di cui peraltro vuole essere uno sviluppo e una integrazione.
Per Leibniz tutti i nostri ragionamenti e le verità che vi si esprimono possono ricondursi a due grandi principi: identità e ragione sufficiente. Tutte le «verità di ragione» (o verità necessarie a cui possiamo pervenire senza ricorrere all’esperienza) riposano sul principio di identità: il loro opposto indica contraddizione e non può essere pensato neppure da Dio, non essendo altro che un nulla. Esempio di tali verità sono i teoremi matematici e tutte le scienze necessarie e dimostrabili, quali la logica, la metafisica, la geometria, l’etica e il diritto naturale. Come i rapporti tra i numeri rimangono veri, vi sia o no qualcuno che calcoli e sussistano o no le cose numerate, così l’idea del bene non viene meno per il fatto che nessuna realtà empirica non le corrisponda mai pienamente. Così, ad esempio, la realtà non ci presenta mai un oggetto, il cui aspetto sia in ogni suo elemento identico a una qualche figura definita geometricamente; tuttavia noi dobbiamo assumere le definizioni esatte della geometria come suprema norma concettuale e nella misura in cui il fenomeno soddisfa alle condizioni di questa «forma», esso si rende intelligibile. In conclusione: le verità necessarie non hanno bisogno dei fatti per la propria evidenza, ma l’ordinamento e la connessione, il significato dei fatti devono pure accennare alle leggi ideali normative e conformarsi ad esse. Leibniz opera la distinzione ignorata da Spinoza tra necessità logica (impossibilità del contrario) e necessità causale (dipendenza di un fatto da un altro).
Vi sono poi «verità di fatto» il cui contrario non può da noi essere dimostrato contraddittorio, ma di cui si deve pur sempre poter indicare una ragione. Il Leibniz formula così il celebre principio di ragione sufficiente: «Di ogni verità si può rendere ragione o, come si dice volgarmente, nulla accade senza causa». «Ogni verità possiede una sua prova a priori, tratta dalla nozione dei termini, per quanto non sia sempre in nostro potere giungere a tale analisi». Un’analisi infinita, quale può essere compiuta non dalla mente umana ma da quella divina, riuscirebbe a risolvere anche le verità di fatto, per noi contingenti, in verità necessarie. Dio, infatti, conoscendo la «nozione individuale» di ciascuno, vede l’intero svolgimento della sua vita contenuto in quella, come un predicato nel soggetto. Questa concezione logica ha conseguenze metafisiche di grande portata ed è il nodo di tutte le aporie del sistema leibniziano.
L’applicazione del principio di ragione sufficiente ai fenomeni empirici si specifica in un certo numero di grandi leggi che apprestano un ordinamento a priori in cui vengono a disporsi i dati empirici. Il più celebre dei principi logico-metafisici è quello degli indiscernibili: «non vi sarebbe ragione per cui, se due enti sono assolutamente identici, Dio situi l’uno in un posto e l’altro nell’altro; dunque non ci sono due essere uguali (neppure due gocce d’acqua, dice Leibniz) se non nel mondo verbale e astratto».
Altre grandi leggi: la equivalenza (in ogni produzione naturale c’è identità tra causa piena ed effetto pieno); la continuità (natura non facit saltus: tutto procede per gradi insensibili; anche tra conoscenza sensibile e intellettuale non c’è che differenza di grado e in ciò Kant si opporrà decisamente a Leibniz); la convenienza (massima molteplicità nel massimo ordine).
L’UNIVERSO LEIBNIZIANO
La fisica, il meccanicismo e la finalità
Se la struttura logica del reale forma una delle componenti della metafisica leibniziana, altri elementi confluiscono dall’indagine fisica.
In fisica Leibniz, in un primo tempo atomista, si contrappone a Cartesio, negando che l’essenza dei corpi consista nell’estensione. L’estensione non è res extensa, non è sostanza: come il numero suppone la cosa numerata, così l’estensione suppone la cosa estesa. La materia non è estensione diversificata e specificata dal movimento; l’estensione non rende ragione dell’inerzia naturale per cui un corpo resiste al movimento.
L’elemento originario del mondo fisico non è l’estensione o il moto, ma l’energia cinetica: è falso il principio cartesiano della immutabilità del movimento ed è invece accertato (da Leibniz) il principio della conservazione della forza o azione motrice. L’azione motrice o forza viva è la realtà profonda dei fenomeni; il movimento è una semplice relazione, di per se stessa non reale, come non reali sono lo spazio e il tempo.
Spazio e tempo non sono altro che ordinamenti ideali dei fenomeni; non hanno una qualche realtà assoluta, ma si risolvono nella verità dei rapporti. Non sono cose, ma modi considerandi (così nelle lettere al newtoniano Samuel Clarke che difendeva lo spazio oggettivo e assoluto).
La «forza viva» o energia cinetica fonda le stesse leggi del meccanicismo: la massa corporea è ridotta a forza passiva o resistenza che il corpo oppone al conatus o principio d’azione e al movimento. Così, a poco a poco, con una continuità di sviluppi a linee spezzate, Leibniz si avvicina alla concezione delle monadi. Il termine «monade» è introdotto nel 1696, ma il concetto è già preannunciato in scritti del 1686.
La teoria della sostanza individuale
«La natura di una sostanza individuale è che la sua nozione è così completa da bastare a comprendere e a farne dedurre tutti i predicati dal soggetto a cui essa è attribuita» (Discorso di metafisica, par. 8).
La nozione individuale di Alessandro Magno include, per esempio, la ragione sufficiente di tutti i predicati che si possono dire di lui con verità, come che vinse Dario, fino a conoscere a priori se egli è morto di morte naturale o di veleno.
Naturalmente, l’uomo non può avere una nozione così compiuta della sostanza individuale e perciò desume dall’esperienza e dalla storia gli attributi che le si riferiscono. Ma Dio è in grado di scorgere nella nozione di una qualsiasi sostanza individuale la ragione sufficiente di tutti i suoi predicati. Per Leibniz la sostanza individuale non è che la stessa ragion sufficiente nella sua concreta espressione.
Donde consegue, si domanda Leibniz, che quest’uomo commetterà sicuramente questo peccato? La risposta è facile: è che altrimenti non sarebbe quest’uomo. Ad uno dei suoi corrispondenti, Isaac Jaquelot, che lo metteva alle strette su questo punto, Leibniz rispose facendo una distinzione netta tra il punto di vista di Dio e il punto di vista degli uomini.
Dal punto di vista dell’uomo nessuna anima sa di essere determinata a peccare se non quando pecca già effettivamente. Le lagnanze post factum, dice Leibniz, sono ingiuste, mentre sarebbero state giuste ante factum. «Forse è fissato da tutta l’eternità che io peccherò? Rispondete voi stessi: forse no. E senza pensare a ciò che non potete conoscere e che non può darvi alcun lume, agite seguendo il vostro dovere, che conoscete» (Discorso di metafisica, par. 30).
In altri termini, l’uomo non possiede la nozione esauriente e completa della propria sostanza individuale e pertanto non può scorgere in essa la ragione sufficiente delle sue azioni se non dopo averle compiute; sicché la garanzia della libertà umana sta, secondo Leibniz, nella diversità e incomunicabilità del punto di vista umano col punto di vista divino.
Innatismo virtuale e innatismo di estensione universale
I commenti al Saggio di John Locke (1704) esercitarono una notevole influenza sulla formazione della gnoseologia. «Io sono per i lumi innati contro la tabula rasa», scrive il Leibniz nel 1703. La mente ha una disposizione alla conoscenza da cui le nozioni innate possono essere tratte. Infatti tutte le verità necessarie traggono la loro prova da questo lume interno, e non dalle esperienze del senso, le quali non fanno che dare occasione di pensare a quella verità necessaria, e non potrebbero mai fornire la prova di una necessità universale (tale affermazione si riallaccia alla reminiscenza platonica e prelude all’esito che Kant darà alla problematica cartesiana).
Come Locke, Leibniz non parla della presenza in atto di certe verità alla mente fin dall’inizio; contro la concezione dello spirito «spoglio come la materia prima degli scolastici», Leibniz afferma che l’intelletto ha una sua virtualità per cui non potrà esperire se non in un certo modo. In tal senso va interpretata la correzione leibniziana del noto aforisma nihil in intellectu quod prius non fuit in sensu, praeter ipse intellectus (niente è nell’intelletto che prima non fosse nei sensi, ad accezione dell’intelletto stesso). Questa maniera di intendere l’innatismo come il modo proprio della nostra mente ad afferrare e a organizzare il materiale empirico si affaccia sì con Leibniz, ma non si consoliderà che con Kant e a prezzo di un duro conflitto con le premesse del sistema leibniziano che riduce a differenza di grado la differenza di natura tra intelletto e senso.
Quando Leibniz si pone il problema del «che cosa è innato in noi», allora la tesi della virtualità dell’intelletto si svuota delle sue implicanze più suggestive; né, d’altra parte, la risposta al quesito è unicamente determinata. Una volta Leibniz afferma che innate sono soltanto le prime e più semplici tra le verità necessarie. Altre volte sembra che innate siano tutte le verità necessarie, le quali non sono idee chiare e distinte, ma percezioni piccole e confuse, simili alle venature che in un blocco di marmo delineino, ad esempio, la figura di Ercole, sicché bastano pochi colpi di martello per togliere il marmo superfluo e far apparire la statua (la riflessione sull’esperienza compie appunto la funzione del martello: rende attuali, cioè pienamente chiare e distinte, le idee che nell’anima erano semplici possibilità o tendenze).
Ma la dottrina monadologica e la teoria dell’armonia prestabilita sospingevano Leibniz a dare al suo innatismo un’estensione universale comprensiva di tutto il contenuto dell’anima: tutto è innato dato che tutte le nostre idee, anche quelle delle cose sensibili, vengono dal nostro proprio fondo.
Le monadi non hanno porte e finestre e non agiscono l’una sull’altra; d’altra parte, per l’armonia prestabilita, ciascuna monade esprime tutte le altre ed è uno specchio vivente, perpetuo dell’universo, esprimendo ognuna l’universo inteso ad un certo modo e trovandosi in ogni singola monade «ciò che serve a dar ragione a ciò che accade nelle altre». «Accade come quando molti spettatori credono di vedere la medesima cosa e s’intendono infatti tra loro sebbene ciascuno veda e parli secondo la misura della sua veduta».
I due aspetti della gnoseologia leibniziana sono fasi contemporanee per Guido De Ruggiero, mentre per Émile Boutroux rispecchiano due stadi successivi. Ernst Cassirer enuclea con vigore il significato della posizione leibniziana in questi termini: «nessuna esperienza può introdurre nell’io un qualche contenuto che non possa risultare comprensibile partendo dalle condizioni insite nello spirito stesso. La natura delle cose è natura dello spirito e delle sue idee innate».
Dio e i «mondi»
Delle dimostrazioni dell’esistenza di Dio, Leibniz accetta quella cosmologica e quella ontologica corretta ed elabora la teoria dell’armonia prestabilita.
La prova cosmologica fa leva sul principio di ragione sufficiente: «Perché vi è qualcosa piuttosto che niente? La ragione sufficiente dell’universo non può trovarsi nella serie delle cose contingenti; quindi deve trovarsi fuori della serie della contingenza per quanto infinita questa possa essere» (Principi della natura e della grazia, par. 7 – 8).
Alla prova cartesiana Leibniz crede necessario premettere la dimostrazione che l’essere perfetto è possibile con questa considerazione: possibile significa non contraddittorio. L’essenza infinita e perfettissima non può essere limitata, in quanto tale; dunque essa è esente da contraddizione e perciò possibile. Ma se Dio è possibile, egli esiste, perché in lui l’essenza perfettissima coinvolge l’esistenza. L’essere necessario, essendo possibile, esiste; mentre, inversamente, se l’essere necessario non esistesse, non vi sarebbe alcun essere possibile.
Ma la prova più tipicamente leibniziana è quella dell’armonia prestabilita (che corrisponde per molti tratti all’argomentazione che Kant chiamerà fisico-teleologica). Dio non si trova soltanto in rapporto con gli esseri esistenti di fatto, ma anche con essenze esistenti come possibilità. Di tutte queste essenze solo alcune passano all’esistenza di fatto, fuori della mente di Dio, poiché – sebbene tutte prese per sé siano non contraddittorie – l’esistenza effettuale dell’una renderebbe contraddittoria l’esistenza dell’altra. Cesare poteva senza contraddizione astenersi dal passare il Rubicone; ma il fatto che egli compia questo passaggio rende impossibili certe altre eventualità. Le possibilità si organizzano in serie o sistemi che Leibniz chiama mondi, ognuno dei quali si scompone di tutte le eventualità che possono stare insieme senza contraddizione.
Sulla composizione dei singoli mondi lo stesso volere divino non può avere alcuna influenza, perché esso non ha alcuna influenza sul principio di non contraddizione. Cartesio dalla trascendenza di Dio concludeva alla possibilità del contraddittorio per Dio; Leibniz, sulle orme di Nicolas Malebranche, capovolge la posizione cartesiana e giunge a immaginare le verità eterne come imposte a Dio dal suo intelletto (mentre nulla può determinare Dio rispetto a ciò che non è lui stesso).
Dio, tra tutti i mondi possibili, ha scelto il migliore. In ogni serie organica di possibilità le imperfezioni sono inscindibilmente connesse con le perfezioni; Dio non può influire sulla composizione di ciascuna serie di possibilità necessariamente concatenate in un determinato sistema o «mondo», ma tra gli infiniti «mondi» possibili non ha potuto mancare di scegliere il migliore.
Jean-Jacques Rousseau, riassumendo Leibniz, dirà: «di tutte le economie possibili Dio ha scelto quella che riunisse in sé il minor male e il maggior bene». L’ottimismo leibniziano non esclude anche un certo pessimismo empirico: l’ottimo va inteso come superlativo relativo, che non giustifica dunque le critiche basate sulla constatazione di imperfezioni che Voltaire ed altri gli vollero muovere. Nessun finito, come tale, è esente dal «male metafisico» o limitazione della sua essenza, nella particolarità del suo essere e del suo volere.
Non tutti i mondi sono «compossibili»: dovendo scegliere, Dio crea il migliore dei mondi possibili obbedendo al criterio del meglio, non per necessità metafisica, ma per necessità morale. Se la decisione fosse necessaria metafisicamente, il mondo che ne consegue sarebbe esso stesso necessario; esso è invece contingente perché la decisione che lo pone in atto è pur sempre libera, anche se determinata dal criterio del meglio («Dio non può non volere l’ottimo»). Ma se la determinazione di quale dei mondi debba passare all’esistenza è dovuta al «meccanismo metafisico» dei possibili, tendenti all’esistenza ciascuno in proporzione della quantità di essenza che contiene, non ha senso parlare della libera decisione di Dio; Dio si riduce al teatro della lotta tra i possibili che, secondo Leibniz, non possono esistere tutti. In realtà Leibniz oscilla tra la veduta deterministica e la sua opposta, senza poter escludere nessuna delle due.
Due sono le aporie del concetto leibniziano di possibile.
La teoria della libertà
«La spontaneità delle nostre azioni non può essere messa in dubbio, nel modo come Aristotele l’ha definita, dicendo che un’azione è spontanea quando il suo principio è in colui che agisce» (par. 301 della Teodicea): la dottrina monodologica assicura tale spontaneità, la quale però non implica affatto indeterminazione, perché ciascuna sostanza contiene in sé allo stato virtuale tutto il suo futuro sviluppo, per cui «tutto è certo e predeterminato nell’uomo come in ogni dove, e l’anima umana è una specie di automa spirituale».
La sola differenza tra atti liberi ed eventi subiti è che nei primi l’intelletto ha una rappresentazione chiara e distinta dei motivi, nei secondi no (concezione della passività e materialità come coscienza oscura e confusa).
L’indipendenza del volere si ridurrebbe ad un arbitrio di indifferenza, ad un’assenza di ragione sufficiente (cioè di motivazione della volontà), simile al clinamen di Epicuro, che non può fondare alcuna azione ed è per Leibniz inammissibile.
Nella lettera 5 del 1716 a Samuel Clarke scrive: «Volere che lo spirito preferisca talvolta i motivi più deboli ai più forti, o che sia indifferente ai motivi, significa separare i pesi dalla bilancia». Tuttavia nel par. 311 della Teodicea Leibniz afferma in un importante passo che «qualunque percezione si abbia del bene, lo sforzo ad agire in seguito al giudizio ne è distinto… Ecco perché l’animo nostro ha tanti mezzi per resistere alla verità che conosce, specialmente quando l’intelletto procede con pensieri sordi».
In sede teologica nella discussione sull’amor puro Leibniz combatte le teorie quietistiche, anticipatrici – in un certo senso – di posizioni che dovevano poi essere del moralismo kantiano: «non è vero che l’amor puro debba giungere a sacrificare la salvezza finale o a disprezzarla: amare Dio per se stesso comporta, come conseguenza se non come fine, la fruizione gioiosa della perfezione dell’oggetto amato».
Osservazioni critiche:
– nella prospettiva leibniziana l’anima è dominata dal determinismo psicologico delle ragioni sufficienti; l’uomo da attore è degradato a spettatore della propria scelta;
– manca la distinzione chiara tra l’universale attrazione verso il sommo bene che qualifica costitutivamente la volontà e la scelta di ciò che è meglio nel e per il concreto atto di scelta tra due beni finiti per nulla determinati;
– colui che aveva pur detto «nulla è nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi, tranne l’intelletto stesso», avrebbe potuto pur dire, con ragione, «niente è nella volontà che non sia stato nell’intelletto, tranne la volontà stessa».
PROSPETTIVE E INTERPRETAZIONI
Leibniz e Spinoza
Georges Friedmann: Leibniz aveva scoperto i principi fondamentali del suo pensiero prima che su di lui si esercitasse l’influenza dello spinozismo.
Susanna del Boca: in Leibniz non si conciliano finalismo e necessità; vi è un invincibile contrasto tra il panlogismo spinoziano e l’affermazione della contingenza.
Clodius Piat: l’influsso spinoziano è la forza direttrice della filosofia leibniziana.
Michele Federico Sciacca: Leibniz è una delle menti universali della storia del pensiero e la sua concezione è una delle più grandiose e suggestive. Il suo programma filosofico fu l’approfondimento, partendo da Cartesio, della metafisica aristotelico-scolastica, attraverso la revisione critica dell’uno e dell’altra. Ma le grandi intuizioni di Leibniz non sboccarono in un esito unitario: Leibniz polemizzò con Spinoza ma, in molti punti, non superò lo spinozismo. I pericoli del panteismo e del determinismo si annidano nel sistema leibniziano e Leibniz fu reso più consapevole di ciò nel contatto con il filosofo olandese. Ciò forse spiega – psicologicamente – l’asprezza con cui Leibniz combatté Spinoza. Si combattono infatti con più accanimento negli altri quegli errori di cui temiamo di non essere completamente immuni. Risulta evidente nella sua opera quell’ampio spirito sincretico che lo induceva a dichiarare: «Benché sembri strano, io approvo quasi tutto ciò che leggo».
Rodolfo Mondolfo: «Lo sforzo sincretistico di Leibniz appare diviso tra tendenze divergenti, che non sempre riescono a conciliarsi tra loro e che mostrano invece un’instabilità nel loro equilibrio reciproco, la quale, a volte, corrisponde ad una successione di fasi nel processo evolutivo del pensiero leibniziano, ma altre volte sta a significare la persistenza di un contrasto interiore di esigenze o momenti opposti che non hanno raggiunto il proprio superamento in una superiore armonia» (Filosofia tedesca, Cappelli, Bologna 1958, p. 55). «La grande impresa filosofica di Leibniz, che ne ha determinato la posizione nella storia del pensiero e i molteplici influssi negli sviluppi ulteriori delle correnti filosofiche, è stata appunto l’unificazione dei suggerimenti neoplatonici con quelli della nuova scienza e delle nuove intuizioni matematiche» (op.cit., p. 38).
La formazione storica del suo pensiero
a. Il neoplatonismo rinascimentale. Friedrich Meinecke molto giustamente ha scritto nel libro Die Entstehung des Historismus (Berlino 1936, p. 47) che Leibniz è comprensibile solo in connessione con la tradizione neoplatonica, che nella vita individuale non vede altro che il riflesso del divino e negli uomini microcosmi del macrocosmo. Rodolfo Mondolfo (Filosofia tedesca, ed. cit.) aggiunge che «l’assimilazione di queste idee neoplatoniche, in gran parte, si è compiuta in Leibniz attraverso il neoplatonismo rinascimentale con il quale ebbe relazioni dirette».
b. Tommaso Campanella. Tra i filosofi del Rinascimento Leibniz mostrò di tenere nella massima considerazione Campanella. Leibniz elogia il filosofo italiano nel presentarlo, insieme a Bacone, come esempio di intelletto grande e poderoso, di fronte a Cartesio ed Hobbes, esempi di intelletti acuti: diversi tra loro come una palla di piombo scagliata contro una rupe con relativa destrezza – gli ingegni acuti – ed una catapulta – l’intelletto grande e ponderoso – che colpisce più lentamente, ma con una tale vigoria che frantuma il masso. Delle opere di Tommaso Campanella, pubblicate in gran parte in Germania, Leibniz ne possedeva parecchie. Nella Teodicea, inoltre, Leibniz si riconosce esplicitamente debitore di Campanella nella formazione del suo ottimismo e lo loda come assertore della presenza di Dio in tutte le cose. Quali elementi offerti da Campanella divennero fondamentali nella filosofia di Leibniz? La concezione dinamica e spirituale degli esseri; l’affermazione della psichicità incosciente; la legge di continuità; la legge di individualità e varietà infinita. L’idea – condivisa da Campanella – di un conato di conservazione immanente in ogni essere, idea che precorre in questo punto le concezioni di Pierre Gassendi, Hobbes e Spinoza, induceva a vedere nei corpi inorganici un principio di forza e di psichicità: psichicità incosciente nei minerali e nei vegetali, che appare come preludio e preparazione a quella cosciente degli animali e dell’uomo; mentre si afferma pure, nel passaggio o sviluppo evolutivo dall’una all’altra forma, la legge di continuità: «L’universo è infinito. E con tutta la sua varietà uno: armonia».
c. Giordano Bruno. Le somiglianza di idee sono così notevoli – nota Rodolfo Mondolfo – da non poter essere spiegate mediante delle coincidenze meramente accidentali. La concezione monodologica di Bruno supera l’iniziale materialismo (mediante lo sviluppo dell’intuizione neoplatonica dell’anima universale presente «tota in toto et in quolibet totius parte – tutta intera nell’intero e in qualsiasi parte dell’intero »). L’atomo di Bruno non ha nulla a che vedere con gli «empi elementi democritei» (De immortalitate V, 3, 36): esso è «il minimo metafisico convertito in centro di forza e di percezione» (De minimo I, 2, 5), tal quale la monade leibniziana. Comune è la concezione della monade come specchialità rappresentativa dell’universo: ogni essere è specchio dell’universo, microcosmo. Fortemente affermato in entrambi è il principio delle differenze indiscernibili. Oltre il suggerimento della principessa Carlotta Sofia – nel cui parco non si poterono trovare due foglie uguali – il principio delle differenze indiscernibili Leibniz poteva trovarlo più volte nel De minimo e nel De monade di Bruno, anche a prescindere da Seneca (Epistulae ad Lucilium, 113, 16: porta proprio l’esempio delle foglie) e Cicerone (Academica priora, II, 85: «Non c’è un chicco che non sia uguale in tutto ad un altro»). In entrambi vige la distinzione tra la forza attiva (Leibniz: entelechia dominante) e la materia passiva (Leibniz: resistenza e massa); e vivo è il comune interesse per l’arte combinatoria di Lullo, sebbene Leibniz sia passato – grazie alle applicazioni matematiche dell’ars combinatoria compiute da Tartaglia e Blaise Pascal – dalle infeconde elaborazioni di Lullo e Bruno alla feconda scoperta del calcolo infinitesimale.
d. George Berkeley. In che cosa differisce il fenomenismo leibniziano da quello di Berkeley, rigettato da Leibniz con espressioni spregiative? Esistono delle differenze, ma non là dove Leibniz vuole indicarle, cioè nella negazione della realtà corporea alla quale giunge egli stesso (materia cioè aggregato di monadi, unità inestesa di vita psichica). Le convergenze sono nell’ammissione della realtà degli spiriti finiti accanto a quella dello spirito infinito di Dio, e nel fatto che entrambi offrono un punto di partenza per la conclusione solipsistica (che avrebbe potuto fondarsi sul dinamismo interiore della monade leibniziana meglio ancora che sul passivismo conoscitivo attribuito da Berkeley all’anima, le cui impressioni dovevano procedere da un’azione spirituale dell’esterno).
Ma i due fenomenismi differiscono in punti essenziali come i seguenti:
– per Berkeley i fenomeni sono il prodotto di un’azione diretta dello spirito divino che si esercita ogni volta che succedono, e con la quale siamo in comunicazione immediata, continua; laddove per Leibniz sono lo sviluppo di una forza e di una legge interiore impressa nella monade originaria da Dio;
– manca nell’anima, così come la concepisce il Berkeley, il dinamismo interiore proprio della monade leibniziana, per la quale il filosofo inglese si avvicina più all’occasionalismo che al sistema dell’armonia prestabilita;
– Berkeley sviluppa la teoria genetica o empiristica riguardo all’idea dello spazio, mentre Leibniz afferma un innatismo o apriorismo delle nozioni di spazio e tempo e delle categorie universali e necessarie. Quest’ultima differenza fa di Leibniz il precursore più diretto di Kant.
Wilhelm Dilthey vede determinata la posizione di Leibniz nel pensiero moderno dal «concetto totalmente nuovo del carattere fenomenico del mondo fisico intero», avendo considerato «tutto l’ordine fisico un fenomeno fondato su unità inestese di vita psichica», da lui chiamate monadi («Leibniz e il suo tempo» in W. Dilthey, E. Troeltsch, Leibniz e la sua epoca, trad. it. Guida, Napoli 1989). Rodolfo Mondolfo (Filosofia tedesca, ed. cit.) osserva che il Dilthey trascurava non solo «il suggerimento che l’occasionalismo offriva, riducendo a pura apparenza la nostra supposta percezione diretta dei corpi e di accadimenti fisici, che sarebbe in realtà la mera ricezione di un’azione spirituale divina», ma anche «l’antecedente più esplicito offerto a Leibniz dall’abbozzo di fenomenismo presentato da Hobbes nel De corpore», nonostante il suo materialismo, cosa quest’ultima già sottolineata, a suo tempo, da Paul Natorp. Guido De Ruggiero ha messo in rilievo una derivazione importante, notando che la definizione di Hobbes dello spazio come phantasma existentis, opposta alla concezione cartesiana dell’estensione come essenza reale del mondo fisico, ha spinto Leibniz ad uno sviluppo ulteriore, che trasforma l’idea di spazio come puro fenomeno – affermata da Hobbes – in quella di ordine ideale dei fenomeni. Così Leibniz precorre la teoria dello spazio e del tempo del fenomenismo kantiano, definendoli modi soggettivi di situare e ordinare i fenomeni: «lo spazio è l’ordine delle possibili coesistenze, il tempo è l’ordine delle possibilità incostanti» (Réplique aux réflexions de Bayle, del 1702).
NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate.