«Chi si affatica in un tendere perenne, Costui lo possiamo salvare!» (J. W. Goethe)
Romanticismo e classicismo
Lo studio del romanticismo presenta alcune difficoltà dovute, per buona parte, alla doppia faccia di questo concetto, che da un lato designa un fenomeno storico, dall’altro una categoria universale qualificante un determinato atteggiamento dello spirito verso i valori dell’arte, della filosofia e della vita in genere. Che da fenomeno storico il romanticismo sia assurto in qualche modo a categoria spirituale è dimostrato dall’uso della parola «romantico». Il romanticismo è di fatto adoperato come categoria, cioè come un predicato universale che si afferma di un dato soggetto: ad esempio di un’opera d’arte, come qualifica intrinseca e non semplicemente traslata, non usata per pura figura retorica, per antonomasia, come nel caso di altri aggettivi analoghi (discussioni «bizantine», immagini «barocche»).
Il passaggio dal fenomeno alla categoria, dal singolare storico all’universale, è implicito anche nel concetto a cui «romantico» è correlato e contrapposto: «classico». Il concetto di classicità, infatti, designa anch’esso un periodo e un ambiente storico in cui l’umanità ha trovato la via per attuare certi valori spirituali (per alcuni la Grecia non è uno tra i molti possibili, ma addirittura l’unico e il supremo modello di vita), ma designa pure la perfetta attuazione di alcuni valori in qualsiasi tempo e luogo, la forma universale concreta presente in tutte le opere realizzanti i valori di cultura.
Per tutte queste ragioni la contrapposizione di «classico» e «romantico» viene a costituire essa stessa un intricato problema. Friedrich Schlegel – giunto al romanticismo dal classicismo più acceso – nel 1800, sulla rivista Athenaeum sorta nel 1798, nello scritto Epochen der Poesie sostiene che il romanticismo è la vera classicità dell’età moderna, contro le false classicità dei neoclassici. La vera classicità del romanticismo si oppone alla pseudo-classicità di imitazione. Croce nel Breviario di estetica (1913) afferma che «tutte le grandi opere […] sono insieme classiche e romantiche, mentre solo le opere non riuscite sono opera dell’una o dell’altra scuola, perché al di qua della sintesi estetica di immagine e sentimento».
I preludi, i precedenti e le concause del romanticismo sono diversi e complessi, e non di facile decifrazione. Tra questi vanno ricordati: l’irruzione di Jean Jacques Rousseau nella cultura moderna; la rivalutazione della filosofia di Spinoza, attorno al 1785, rivelatrice della presenza di vaste forze antilluministiche; l’individualismo ribelle, la violenza passionale dello Sturm und Drang e la sua protesta contro l’intellettualismo astratto e lo scientismo illuminista; il titanismo e il prometeismo affioranti persino nelle prime opere di Johann Gottfried Herder e di Johann Wolfgang Goethe. Ha un ruolo decisivo – com’è attestato dalla biografia dei grandi romantici – anche la riscoperta e l’appassionata trasfigurazione ideale del mondo classico, sicché non a torto Hermann August Korff ha potuto affermare che «l’opera della generazione romantica è la continuazione e il compimento dell’opera umanistica (Sturm und Drang più classicismo) ed è nata dal medesimo movimento» (Der Geist der Goehtezeit, Lipsia, 1956).
I caratteri e i temi dominanti del romanticismo
I romantici vivono il tormento di Faust. Essi sono poeti, artisti, letterati, filosofi che vogliono scoprire le sorgenti nascoste e il senso riposto della vita. Li muove una fede illimitata nelle potenzialità dello spirito umano, ma anche una viva, ironica coscienza del limite che pure essi vorrebbero abrogare.
Esaltano l’esigenza realistica, il nesso tra arte e vita, l’immediatezza, ma hanno la «febbre del teorizzare su tutto» fino all’assurdo, dissolvendo ogni cosa. Esprimono il culto per la poesia popolare e l’anima collettiva, e insieme il culto del genio solitario, interprete delle supreme esigenze dello spirito per tutta l’umanità.
Il sentimento e l’aspirazione verso l’infinito ha nella sinfonia del pensiero romantico il valore di un’ispirazione fondamentale e sue proprie tonalità. L’aspirazione all’infinito si traduce sia nello slancio propriamente religioso sia nella mistica dell’immanenza, dell’infinitizzazione del finito, del sentimentalismo. «Le idee di natura e di storia umana furono unitariamente concepite quali manifestazioni di una medesima Vita infinita che fungeva da fattore unificante nella visione cosmico-romantica […]. Il tipico romantico tendeva a concepire la totalità infinita esteticamente, come un tutto organico a cui l’uomo si sentiva unito, cogliendo questa unità mediante l’intuizione e il sentimento più che il pensiero concettuale, in quanto quest’ultimo tende a fissare e a perpetuare limiti e confini ben definiti, mentre il romanticismo tende a dissolvere i limiti e i confini nell’infinito flusso della Vita. In altre parole, il sentimento romantico dell’infinito non era di rado che un sentimento dell’indefinito. Un tale tratto risulta evidente sia nella tendenza ad oscurare il confine tra l’infinito e il finito, sia nell’inclinazione a confondere la filosofia con la poesia oppure, nell’ambito della stessa sfera artistica, a mescolare le arti» (Frederik Copleston, Storia della filosofia, vol. VII, Paideia, Brescia 1982, p. 32).
All’interno delle tensioni antinomiche che caratterizzano il romanticismo si possono individuare alcuni temi, in cui meglio si articola il contesto culturale dell’epoca e si situa l’apporto delle singole personalità. Essi sono il rapporto con la natura, la funzione dell’arte, il significato del linguaggio, l’interpretazione della storia, la fede religiosa, l’ironia.
a. È cambiato lo spirito con cui ci si avvicina alla natura. Si avverte che un legame misterioso e decisivo intercorre tra l’uomo e il mondo, pensato come vita, comunità organica, finalità. La scienza della natura è tolta dal suo isolamento logico-matematico e inserita in una visione globale della vita capace di indicarne le direzioni e i limiti.
b. Il romanticismo prende coscienza, come nessun’altra epoca, del problema della creazione spirituale, dell’arte. L’artista con l’intuito penetra il senso della natura e della vita superando d’impeto le astrattezze del discorso. «Soltanto attraverso la porta aurorale dell’arte, puoi entrare nella conoscenza» scrive Schiller. L’arte è quindi conoscenza, ma conoscenza aurorale, che precede e anticipa, che viene prima del discorso logico e della ricerca scientifica, ma che va ben al di là dei limiti ove questi sono costretti a fermarsi. L’arte riveste anche un valore morale e una precipua funzione educativa in quanto catarsi, emozione purificatrice.
c. Parlare non è un semplice processo logico, la ragione non ha solo valore strumentale. Il linguaggio accompagna l’emergere dello spirito dalla naturalità ed è il simbolo dell’unità tra natura e spirito, individualità e cultura. La vivente realtà del linguaggio esprime la turgida pienezza della personalità dei singoli e dei popoli. Il romanticismo riscopre il valore delle tradizioni popolari e della vichiana «sapienza volgare». Le tematiche di Vico circolano in Germania tra i due secoli.
d. La scoperta del valore della storia è decisiva non solo allo sviluppo della storiografia, ma anche come atteggiamento nell’impostare i problemi in ogni ambito della cultura. Il tema della storia in ambiente romantico ha avuto una ricca varietà di sviluppi: riscoperta delle tradizioni e, in particolare, dell’età medioevale; l’unità della stirpe e le diversità delle civiltà; il rapporto tra cristianesimo e civiltà; la visione genetica delle nazioni e la celebrazione dell’autonomia nazionale dei popoli. Da un punto di vista politico gli esiti sono ambivalenti, reazionari (tradizionalismo) e progressisti (liberalismo e autonomia nazionale).
e. Il senso dell’infinito, l’incoercibile aspirazione all’Assoluto si esprimono in una pluralità di posizioni che vanno dall’invocazione al Dio personale, che si rivela in Cristo, al panteismo di tipo spinoziano, all’immanentismo radicale degli idealisti tedeschi, dalla rivalutazione del cattolicesimo in Friedrich Schlegel alla laicizzazione radicale di Hegel.
f. Uno degli aspetti più ricorrenti del romanticismo è l’ironia. L’ironia romantica è la libertà assoluta di fronte a qualsiasi realtà o fatto ed è destinata a suscitare la coscienza dell’insanabile opposizione dell’incondizionato e del condizionato, della impossibilità e insieme della necessità di una perfetta unità. Secondo l’interpretazione critica che ne ha dato Hegel, essa è coscienza della soggettività assoluta che comprende se stessa come unica e suprema realtà, abbassando a puro nulla tutte le altre cose. È un atteggiamento che il filosofo idealista e il poeta romantico, identificandosi con l’Io assoluto o prendendone comunque coscienza, sono portati a far proprio. L’ironia pertanto si definisce come «autodistruzione che succede sempre nuovamente all’autocostruzione» (Friedrich Schlegel), cioè incessante e sempre rinascente superamento del finito. A giudizio di Hegel l’ironia romantica è un portato della filosofia di Fichte qual è stata intesa e interpretata da Schlegel. «Qui il soggetto si sa in sé medesimo come l’Assoluto e non dà alcun peso a tutto il resto»: è sollecito a distruggere le determinazioni che esso stesso si dà e perciò non prende nulla sul serio. Occorre, però, ricordare che nell’età dominata dal romanticismo si riscopre la funzione dialettica e di «maieutica della persona» che riveste l’ironia socratica, «misto di serietà e di scherzo», via per porre in chiaro il vuoto della iattanza e la presunzione del sapere. Ad essa farà esplicito riferimento Kierkegaard nella tesi magistrale del 1841, nella quale l’ironia si fa preludio alla vita morale attraverso il dubbio; più tardi, essa è pensata come categoria al limite tra lo stadio etico e quello religioso.
Gli apporti più fecondi del romanticismo sono:
– un nuovo senso della natura e del rapporto tra l’uomo e il mondo sentito, rappresentato, pensato come vita, comunità organica, finalità
– la presa di coscienza, come in nessun’altra epoca, del problema della creazione spirituale, dell’arte
– la scoperta del mondo storico.
Dal romanticismo all’idealismo
Nella complessa genesi dell’idealismo è inesatto vedervi il necessario corollario di dati postulati gnoseologici del criticismo kantiano. Vi fu la critica della cosa in sé (Karl Leonhard Reinhold, Gottlob Ernst Schulz, Salomon Maimon, Jakob Sigismund Beck), ma vi fu pure l’irruzione del monismo spinoziano nella cultura del tempo come componente decisiva, e il veicolo fu la polemica fra Friedrich Heinrich Jacobi e Moses Mendelssohn. L’idealismo sorge dal vigoroso innesto sul tronco della sintesi a priori di Kant dell’intuizione della dinamicità e storicità del reale: principio questo che è esteso a tutto il reale, concepito come processo di sviluppo di un unico spirito immanente. Ad enucleare dalla dottrina kantiana la concezione dell’attività sintetica originaria dello spirito, per conferirle un più vasto significato e per farne il centro di una nuova concezione del mondo, non sarebbe bastato il puro e semplice sviluppo di idee e di problemi attraverso il lavorio di avversari e critici, da Friedrich Heinrich Jacobi a Salomon Maimon, da Johann Schultz a Karl Leonhard Reinhold, senza il fermento romantico. Il romanticismo caratterizza il clima storico da cui sorse, massima espressione, l’idealismo stesso. Romanticismo e idealismo si svolgono, almeno per un certo tratto, contemporaneamente nell’ambito culturale tedesco, attraverso un’innegabile reciprocità d’influenza e di reazioni, che attesta la continuità ideale dei due fenomeni storici. Ove non giova confondere, è dannoso però separare. Anche se lo spirito romantico era più un atteggiamento verso la vita e l’universo che una filosofia sistematica, alcuni suoi tratti caratteristici furono ripresi e rielaborati dall’idealismo, quali: l’importanza dell’intuizione e dell’immaginazione creativa; la concezione della natura come vivente totalità organica; l’idea di uno spirito del popolo (Volksgeist) e il rinnovato interesse per la storia; l’aspirazione verso l’infinito. «In genere gli idealisti puntavano al pensiero sistematico mentre i romantici tendevano a privilegiare il ruolo dell’intuizione e del sentimento e ad assimilare la filosofia alla poesia. Schelling e Schleiermacher furono quindi, sotto questo aspetto, più vicini allo spirito romantico di Fichte o Hegel» (Frederick Copleston, op.cit., vol. VII, p. 35).
L’idealismo, da un punto di vista gnoseologico, afferma che la realtà è il contenuto della coscienza e non una cosa in sé: la realtà non esiste se non in quanto è nella coscienza. È esclusa l’esistenza di realtà che siano distinte dal pensiero, e quindi vi è immanenza di tutto il mondo empirico nell’attività produttiva del soggetto pensante. L’idealismo, da un punto di vista metafisico, concepisce il reale come processo dialettico, svolgimento di un unico Spirito immanente e, pertanto, vi è identità tra pensiero ed essere, soggetto e oggetto, ragione e realtà, Dio e mondo, infinito e finito, spirito e storia. L’idealismo fu chiamato dai suoi fondatori trascendentale, soggettivo, assoluto.
Trascendentale è l’aggettivo che tende a collegare l’idealismo con il punto di vista kantiano, che aveva fatto dell’io penso il principio fondamentale della conoscenza: soltanto che «trascendentale» non significa più la presenza attiva dello spirito umano in ogni conoscenza che riguardi il campo dell’esperienza; qui l’attività dell’io produce l’oggetto stesso. Si ripudia il trascendentale kantiano perché è soltanto forma che ha il contenuto fuori di sé: il trascendentale idealista, producendo esso stesso il suo contenuto, assorbe in sé tutto il mondo dell’esperienza, senza residuo: contrae tutta la realtà, che è quindi pensiero, nell’attività sintetica originaria dell’io.
La qualifica di soggettivo tende a contrapporre questo idealismo al punto di vista di Spinoza, che aveva, sì, ridotto l’intera realtà ad un unico principio, la Sostanza, ma aveva inteso la Sostanza stessa come oggetto o Natura. Inoltre soggettivo è l’idealismo moderno perché si contrappone all’antico, quello platonico, che si fondava sull’attività trascendente del vero.
Infine l’aggettivo assoluto mira a sottolineare la tesi che l’Io o Spirito è il principio unico di tutto e che fuori di esso non c’è nulla. In tal senso l’attività produttiva dell’Io è più propriamente processo di auto-produzione, sviluppo dinamico dello Spirito coestensivo alla totalità del reale; e il finito è dichiarato apparente, non reale, in quanto interamente risolto nell’Infinito.
«L’idealismo della filosofia – scrive Hegel nella Logica – consiste soltanto in questo: nel non riconoscere il finito come un vero essere». L’Infinito toglie di mezzo il finito, realizzando dietro le apparenze di esso la sua infinità. Ma fino a che punto il principio dell’immanenza è effettivamente realizzato? Il modo di attuare e concepire il principio di immanenza porterà Fichte, Schelling e Hegel, come poi Croce e Gentile, a differenziare le loro posizioni filosofiche.
Affermare che per l’idealismo la realtà è un processo di automanifestazione del pensiero «non significa, naturalmente, che il mondo è ridotto a un processo di pensiero, come comunemente si intende questa espressione; il pensiero o la ragione assoluta sono considerati come un’attività, una ragione produttiva che pone o esprime se stessa nel mondo, il quale conserva tutta la realtà che lo vediamo possedere. L’idealismo metafisico non comporta la tesi che la realtà empirica consiste di idee soggettive, ma implica la visione del mondo e della storia umana quale espressione oggettiva della ragione creatrice» (Frederick Copleston, op.cit., vol. VII, p. 17).
Considerazioni critiche sull’idealismo
Il sofisma fondamentale dell’idealismo è così enucleato da Antonio Aliotta: «La realtà per essere conosciuta deve essere pensata, dunque non esiste se non come pensiero» (L’estetica del Croce e la crisi dell’idealismo italiano, Ed. Perella, Roma 1951, p. 108). Coglieva nel segno Vincenzo Gioberti quando scriveva: «Vi ha una mitologia intellettuale, che comprende le forme moderne di panteismo e di idealismo: nelle quali tutto il verbo concettuale, invece di mantenersi diafano nella sua allusione al divino trascendente, si chiude in se stesso a sancire la divina sufficienza del mondo e dell’uomo. Il pensiero moderno è un grande poema eterodosso, vero come poesia, falso come filosofia» (Protologia, II). Analogamente Kierkegaard (Diario, II, A, 31) aveva sottolineato il carattere estetico dell’idealismo, poema che ha il suo medio nella fantasia, malgrado la veste concettuale: Hegel tratteggia immagini eterne, ma non supera lo stadio estetico del pensiero. L’idealismo è la filosofia dell’astratto: nega la personalità umana e divina, riduce Dio ad un «superlativo umano», sommerge il singolo nel panteismo, sovrappone una logica meccanicamente dialettizzata alla scienza dell’esistente concreto, la logica dei tre stomachi (tesi, antitesi, sintesi) alla categoria esistenziale del singolo.
L’idealismo è ben lungi dall’aver trionfato sul naturalismo, col quale anzi si identifica specialmente per quanto riguarda il problema dell’esistenza e la soluzione data ad esso. Se l’idea o l’atto del pensare sono immanentisticamente adeguate al «fatto», l’idealismo è anch’esso una forma di naturalismo. Positivismo e idealismo sono dottrine meno antitetiche di quanto può superficialmente apparire.
La critica idealista non colpisce il realismo cristiano nelle sue tesi autentiche di metafisica e gnoseologia, ma il materialismo e l’eleatismo. Consideriamo punto per punto i rilievi critici mossi dagli idealisti al realismo.
1- La percezione esterna non esiste perché è contraddittoria.
Risposta: sì, non c’è percezione esterna, ma c’è percezione dell’esterno e il sentimento dell’esteriorità è dato nella coscienza stessa, che si percepisce in rapporto ad un oggetto.
2- Nulla esiste o è concepibile fuori dell’idea ed è perciò inconcepibile un rapporto tra il pensiero e qualcosa che non proceda dal pensiero. La realtà dell’universo ha per contesto la connessione razionale dei nostri giudizi; è un intreccio di relazioni.
Risposta: è vero che non si può intendere che qualcosa d’intelligibile e che niente è concepibile al di fuori del pensiero e che non proceda dal pensiero. Ma se tutto è figlio dello spirito (ed in questo senso è spirito), tutto non è per questo in dipendenza del nostro spirito; basta ch’esso gli sia omogeneo. Se c’è una connaturalità dell’idea e del reale, se c’è un’idealità del reale stesso (come nell’ilemorfismo) perché crederne impensabile il rapporto? Inoltre è vero che tutto ciò che è dato, è dato al pensiero, ma non c’è pensiero che non sia pensiero di un dato. Il vero idealismo implica il realismo e viceversa.
3- Pure il mito idealistico dell’autocoscienza è stato sottoposto ad una serrata critica. Il primato dello spirito nella vita dell’uomo è una conquista acquisita al pensiero, ma che cos’è lo spirito dell’uomo? Rispondere sic et simpliciter che è autocoscienza non significa risolvere il problema. Il mito idealistico dell’autocoscienza cade per l’insoddisfazione delle esigenze invocate e fatte valere nel corso della sua laboriosa costruzione.
4- Il meccanismo triadico. L’alterità sorgente in seno all’atto ha sempre un valore episodico e strumentale affinché l’attività si eserciti e si realizzi, non è una realtà concreta ma una posizione dialettica che si riempie di volta in volta di un contenuto indifferente, in definitiva, alla sua funzione. Lo spirito è tutto nel produrre sé ed altro o sé come altro, nell’eterna vicenda del suo porsi, del suo smarrirsi e del suo ritrovarsi, è forma che pone e risolve in sé ogni contenuto, quasi combustibile di cui si alimenti l’immane meccanismo del suo ricorrente ciclo produttivo, stereotipato nella fissità dello schema triadico.
5- Non c’è posto per il dovere nell’autocoscienza ideale. In una concezione simile non ha alcun spazio la responsabilità e il dovere: un dovere quale che sia non ha senso per l’Io trascendentale concepito come eternamente realizzantesi, come tale che «nell’unica battuta eterna del suo atto vince e sorpassa tutta la natura, e in essa cose e uomini e Dio stesso», né il dovere può avere un senso per l’io empirico se non come un aspetto di quella fenomenologia in cui il medesimo io empirico rientra come fatto dell’Io puro.
6- L’io empirico, cireneo delle astrazioni idealistiche. L’io empirico, più che dedotto, è constatato e la presenza innegabile di esso e del contenuto della sua coscienza si vuol giustificare quasi momento dialettico della realizzazione dell’Io trascendentale, che per conoscersi deve porsi come altro, alienarsi da sé. Ma nessuna intrinseca esigenza come nessuna esperienza intima giustifica l’auto-oggettivazione come l’auto-alterazione. L’autocoscienza di cui possiamo legittimamente parlare è oggettivazione ideale in una semplice distinzione di momenti in cui si attua una perfetta circolarità dell’io cosciente e dell’io conosciuto.
La concezione storica di Schiller
Friedrich Schiller fu una figura poliedrica, di cui occorre ricordare la nobiltà dell’ispirazione poetica, ma anche la ricchezza di esperienze di cultura e le molteplici intuizioni profonde. Si pensi, per portare un esempio, a un’opera come le Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, del 1795, che fanno di Schiller un filosofo dell’arte e, contemporaneamente, un autentico maestro di vita morale. Novalis, che venerava Schiller come persona e come artista, vedeva in lui l’uomo degno di essere scelto a «educatore del prossimo secolo» che per lui era il XIX. Sulla stessa lunghezza d’onda sta l’apprezzamento che del drammaturgo tedesco e del suo magistero etico-politico dette qualche decennio dopo il nostro Mazzini.
Un aspetto della personalità ricca e insieme armonica di Schiller è il suo interesse per la storia, attestato dagli Scritti storici. Schiller fu spinto ad occuparsi di storia da una necessità reale, dal bisogno di conoscere da vicino quegli avvenimenti che sarebbero entrati, o che avrebbero potuto entrare, a far parte della sua produzione drammaturgica.
La prima ricerca riguarda la secessione dei Paesi Bassi. È un capitolo di storia europea tra i più esaltanti perché attesta la vittoria della libertà sul dispotismo, del debole sul prepotente, di un piccolo paese contro una potenza militare che perseguiva una politica moralmente inaccettabile. Lo scritto è incompiuto, ma il modo di raccontare è serrato, forte nel gioco delle antitesi, che lo permea da cima a fondo.
Due saggi sono dedicati all’attività legislatrice e alla missione storica di Mosè. Il cosiddetto stato di natura, su cui Rousseau aveva fatto leva nella sua polemica contro la società corrotta, non giustifica per Schiller le idealizzazioni fantastiche che ne sono state fatte. Esso è penosamente insufficiente all’attuazione delle potenzialità specifiche dell’uomo ed è, pertanto, di ostacolo al suo progresso. Alla libertà si giunge, invece, vincendo lo stato di natura ed entrando a far parte di una società fondata sulla legge. Senza legge, infatti, non c’è ordinata convivenza tra gli uomini, né popolo, né Stato. Per quanto imperfetta e sempre perfettibile, la legge apre il varco ad un processo di affrancamento: a un patto, però, che non si chiuda in se stessa, trasformandosi, a sua volta, in un aberrante assoluto, soffocatore dei sentimenti più nobili e di ogni progresso. Insomma, c’è una legge alla maniera di Solone, in Atene, e c’è una legge all maniera di Licurgo, in Sparta. Non è certo un caso che lo scritto La legislazione di Licurgo e di Solone fu ripubblicato e letto in Europa negli anni 1939 – 1945, come un manifesto antihitleriano.
Le pagine sulla Storia della guerra dei Trent’anni – Wallenstein sono tra le migliori. In esse si intravedono le ragioni che porteranno Schiller a dedicare una delle sue tragedie più importanti al duca di Friedlandia. La ricostruzione storica del personaggio ha il ritmo di un racconto di Hitchcock, in cui tutte le prove di colpevolezza del generalissimo, descritte con un crescendo di alta drammaticità, sono implacabilmente smontate solo alla fine. Il dubbio, allora, si insinua invincibile nell’animo del lettore, giacché nessun atto ci autorizza a considerare dimostrato il suo tradimento.
Lo scritto più ricco di intuizioni reca un titolo a dir poco ardimentoso: Che cos’è e a qual fine si studia la storia universale? È il testo della prolusione accademica tenuta dal poeta, che saliva in cattedra per la prima volta, nel 1789, nella piccola università di Jena. L’attesa di quel discorso attirò tanta folla che gli studenti e il docente dovettero cercare in un altro edificio un’aula più vasta, per tre-quattrocento persone, attraversando insieme in un insolito corteo le vie della cittadina.
«Ampio e fecondo è il cammino della storia – esordiva Schiller – e nel suo ambito è contenuto tutto il mondo morale. In tutte le situazioni che l’uomo vive, in tutte le varie forme dell’opinione, nella sua follia e nella sua saggezza, nella sua corruzione e nel suo perfezionamento, la storia l’accompagna. Essa deve render conto di tutto ciò che l’uomo riceve e dà». Alla storia, però, ci si deve accostare con una mentalità non utilitaristica, senza dover trarre da essa un guadagno immediato o differito che sia. «Nella ricerca della verità storica non si entra avendo un’anima da schiavo». Chi vuol studiare una scienza solo per servirsene, ne restringe l’ambito per meglio maneggiarlo; ma una specializzazione che frantuma e disgrega non può portare lontano. Chi, invece, abbia testa filosofica rispetta le discipline diverse dalla sua e si avvale con rispetto dei loro contributi, lavora a slargare di continuo i suoi orizzonti e, spinto da un impulso sempre vivo verso ciò che è perfetto, demolisce insoddisfatto l’edificio delle sue stesse idee per ricostruirlo più solidamente. «Chi ha testa filosofica amerà pur sempre la verità al di sopra del suo sistema». Lo spirito filosofico non può riflettere a lungo sulla storia senza che sorga in lui l’impulso a sottrarne gli eventi alla cieca causalità, ravvisando in essi un principio teleologico. Ciò consegue subito il risultato di disabituare le menti da una visione volgare e meschina della vita e di sospingerle a incontrare lo Spirito supremo nella sua più alta manifestazione.
La storia, infine, corregge i giudizi frettolosi, le astrattezze, le univisualità che falsano la vita. Dal cammino umano collettivo che chiamiamo storia si leva, tacito ed eloquente insieme, l’appello a incrementare il retaggio di verità, di eroismo morale e di libertà, che ci è stato affidato da quanti ci hanno preceduto perché noi lo trasmettessimo, arricchito e potenziato, a quelli che verranno dopo di noi. Questo e non altro è il vero senso della storia. Per quanto diverse siano le condizioni in cui siamo chiamati ad operare nella società civile, tutti possiamo recarvi un contributo. L’essenziale è per ognuno fare la propria parte.
NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate.