Johann Fichte

«Ogni dover essere è possibile solo in quanto io penso la libertà come condizionante la legge, la legge come condizionante la libertà» (J. Fichte)

La personalità filosofica

Nato da povera famiglia di contadini nel 1762 a Rammenau, da fanciullo è apprendista tessitore e guardiano di oche, finché un ricco possidente non si assunse l’onere di mantenerlo agli studi. La morte del benefattore l’obbligò al precettorato. Nel 1790 conobbe il pensiero di Kant, e quella scoperta lo fece sentire «uno degli uomini più felici del mondo». Nel 1792 pubblica, dopo averlo sottoposto all’approvazione di Kant, lo scritto Critica di ogni rilevazione, che gli procura una rinomanza europea. In esso viene affermato come la rilevazione ipostatizzi in un Dio personale la voce razionale del dovere, aiutando così l’uomo ad innalzarsi al dovere sentito come decreto divino.

Per suggerimento di Goethe nel 1794 fu chiamato all’Università di Jena, dove riscosse un grande successo: non vi erano aule capaci di contenere la folla degli ascoltatori. In quegli anni pubblica la Missione del dotto, i Fondamenti del diritto naturale, il Sistema della dottrina morale, e i Fondamenti della dottrina della scienza. Quest’ultima opera suscitò contro di lui accuse di ateismo e vivaci discussioni. Fichte nella controversia si mostrò imprudente e incoerente, e nel 1799 fu costretto a rassegnare le proprie dimissioni. Gli subentrò Schelling, che prese il suo posto anche nella direzione della vita intellettuale germanica. «Una stella tramonta, una stella sorge», commentò Goethe.

Dal 1799 al 1805 Fichte visse a Berlino, dove era giunto invitato da Friedrich Schegel e dal gruppo della rivista Athenaeum, che ravvisavano nella Dottrina della scienza il fondamento filosofico delle loro teorie estetiche. Dal 1805 al 1810 insegnò all’Università di Erlangen e dal 1810 fino 1814 ricoprì la carica di rettore di Berlino. Morì nel 1814 in seguito a tifo contagiatogli dalla moglie, che lo aveva contratto assistendo i soldati feriti. A questo periodo appartengono opere importanti (Lo Stato commerciale chiuso, La missione dell’uomo, Discorsi alla nazione tedesca, Introduzione alla vita beata, Tratti fondamentali dell’età presente, ma soprattutto i numerosi rifacimenti della Dottrina della scienza), nelle quali Fichte diede al suo pensiero un orientamento mistico-religioso.

Gli interpreti di Fichte distinguono infatti due fasi del suo pensiero. Nella prima, databile fino al periodo dell’insegnamento a Jena, Dio è l’infinito tendere, l’infinito colto come idealità presente nel finito stesso; l’Assoluto è il dover essere del finito. Dio è il compito che gli uomini hanno il dovere di realizzare. L’Io assoluto è quindi il compito infinito che l’io empirico deve realizzare.

Nella seconda fase (detta «giovannea», 1800 – 1814) perdura nel mutamento uno Spirito sussistente. Se l’uomo è in certi limiti la divinità, ciò non significa che la divinità si esaurisca nell’uomo. Vi è un margine di non coincidenza tra l’Io puro (Dio) e l’io empirico (l’uomo), e questo margine cade al di là dell’umano sapere. Dopo la filosofia dell’Infinito nell’uomo (prima fase), bisogna elaborare la dottrina dell’Infinito al di là dell’uomo, in sé, e della dedizione dell’uomo all’Assoluto. Dio è affermato come una realtà in se stessa a cui si accede per via mistica. L’Assoluto, limite superiore al sapere umano, è inattingibile. L’Essere puro è intuito non in sé, ma solo come fonte del sapere. Come il non-io deve essere posto affinché l’io possa toglierlo di mezzo e trionfare su di esso con l’azione morale, così ora il sapere concettuale deve essere posto affinché l’evidenza della luce divina possa distruggerlo e realizzarsi in questa distruzione. La dottrina della scienza deve trasformarsi in dottrina della sapienza. Il sapere è immagine inadeguata di Dio; l’immagine vera è il dover essere. Dio è al di là del sapere, perché al di là del mutamento e della molteplicità propri della forma riflessiva del sapere. Nel libro Introduzione alla vita beata (1806) Fichte sottolinea come la religione non sia un sogno devoto, ma moralità operante.

La grande novità di Ficthe, «il volo d’aquila che lo innalza di colpo al di sopra di tutti i kantiani del suo tempo e che imprime al suo pensiero, pur sempre ispirato alla vigile cautela del criticismo, lo slancio che susciterà e alimenterà il romanticismo, è l’affermazione dell’io: non più l’io teoretico o principio della conoscenza, ma l’io puro, l’intuizione intellettuale, l’io che si coglie da sé e afferma se stesso, principio unico e supremo capace […] di fondare la filosofia come scienza» (Luigi Pareyson). Fichte è considerato il fondatore dell’idealismo moderno, se per idealismo si intende l’esclusione dell’esistenza di realtà fuori dal pensiero. L’idealismo afferma che la realtà è il contenuto della coscienza e non una cosa in sé. Idealismo significa quindi immanenza di tutta la realtà nell’attività produttiva del soggetto pensante, in base alla seguente argomentazione: la realtà per essere conosciuta dev’essere pensata; dunque non esiste se non come pensiero. Pertanto «dire che c’è qualcosa oltre il pensiero è un’affermazione priva di senso». L’idealisno di Ficthe è detto etico in quanto l’impulso primo e originario e lo scopo finale di questa costruzione è il compimento del dovere morale.

La rivoluzione copernicana annunciata da Kant sembra aver ricevuto con Ficthe la più completa attuazione. Fichte inaugurò una nuova visione del mondo, uno degli indirizzi fondamentali del pensiero umano. Il vangelo faustiano dell’azione da intuizione poetica diventa dottrina filosofica.

Schelling disse di Fichte: «Il merito caratteristico di Fichte consiste nell’aver esteso a principio di tutta la filosofia il principio che Kant pose al vertice della filosofia pratica, cioè l’autonomia del volere». Fichte in realtà accentua il moralismo kantiano e trasforma l’immanenza gnoseologica di Kant in immanentismo metafisico.

Oltre al kantismo e alla rivoluzione francese (nel 1793 giudicata «l’illustrazione del gran testo: valore e diritto dell’uomo», nuovo vangelo di libertà) – e anteriormente ad essi – nello spirito di Fichte esercitarono un’influenza decisiva Lessing e Spinoza, il libero pensiero religioso e la celebrazione dell’inesausta ricerca nel primo, il panteismo nel secondo. L’idealismo etico di Fichte apparve a Friedrich Heinrich Jacobi «uno spinozismo rovesciato», perché non identifica Dio col non-io o Natura (Deus sive natura), ma lo identifica all’Io o soggetto. La filosofia di Fichte è pertanto uno spinozismo interiorizzato con forte accentuazione antropocentrica, in quanto l’Io puro è concepito come l’immanente sostanza dell’io individuale, il principio dinamico dell’illimitata libertà a cui l’uomo aspira, l’artefice interno della coscienza e della realtà (Nicola Petruzzellis).

Quando Fichte giunse a Berlino nel 1798 il movimento romantico era ancora in una fase aurorale, durante la quale la Scienza Nuova appariva una delle tre grandi direttrici del secolo insieme con la rivoluzione francese e con il romanzo di Goethe Wilhelm Meister. L’infinito tendere dell’io penso fichtiano, caratterizzato da un’ansia continua di superamento, pareva esprimere lo stato d’animo del romanticismo come nessun’altra dottrina metafisica. I romantici accettano la concezione fichtiana della natura come produzione inconscia dell’immaginazione, ma l’ispirazione romantica si chiarisce a se stessa come intimamente diversa da quella del fondatore dell’idealismo etico.

Per i romantici l’immanenza divina e la libertà creatrice dello spirito sono rivelate solo dall’arte e dal genio artistico; l’incessante e sempre rinascente superamento del finito mette a capo all’ironia, recante in sé la svalutazione della faticosa conquista umana e quindi della serietà della vita. I romantici presto abbandonarono l’idealismo etico di Fichte, perché incapace di spiegare la vita vera della natura ed i problemi dell’arte. Scheleiermacher e Schelling criticano il moralismo fichtiano, l’uno in nome del sentimento religioso, l’altro in nome dell’intuizione artistica. Fichte nella seconda parte del suo pensiero trattò temi simili o identici a quelli dei suoi critici, lavorando a differenziarsi da essi, ma il suo influsso andò progressivamente scemando.

La Dottrina della scienza

La Dottrina della scienza tende a evidenziare un principio fondamentale che garantisca il valore di tutte le scienze e lo garantisca non solo come logica (per la forma del sapere), ma anche per il contenuto. Il principio fondamentale è una proposizione certa per sé stessa, da cui sia possibile dedurre tutto il pensiero umano. In Fichte torna il mito della deduzione, che era già stato del razionalismo e che Kant aveva avuto il merito di combattere. Fichte, a differenza dei razionalisti, ha la chiara coscienza che un tale mito è realizzabile solo se il sapere umano è sapere assoluto.

Tale principio fondamentale è l’io come autocoscienza. L’oggetto è possibile soltanto sotto la condizione della coscienza (del soggetto). Non si dà conoscenza senza coscienza, ma non c’è coscienza senza autocoscienza. L’autocoscienza è il fondamento della coscienza: anche quando non sembri, tutti gli atti di coscienza dicono sempre «io». Tale principio, «dovendo essere assolutamente primo, non si può dimostrare né determinare; esso deve esprimere quell’atto che non si presenta, né può presentarsi, tra le determinazioni empiriche della nostra coscienza, ma, piuttosto, sta a base di ogni coscienza, e solo, la rende possibile». La Dottrina della scienza è il tentativo di dedurre dal principio dell’io come autocoscienza la vita teoretica e pratica dell’uomo.

Tre sono i principi fondamentali di tale deduzione: tesi (autoposizione dell’io – momento della libertà), antitesi (opposizione – momento della necessità), sintesi (definizione di un termine per mezzo di un altro antagonistico – momento della ragione dialettica). Fichte inventa così un metodo di deduzione che elimina la rapsodicità e l’arbitrarietà della deduzione kantiana: il nuovo schema dialettico rivelerà un’insospettata carica rivoluzionaria.

1) Tesi. Si è sempre ammesso come assolutamente certo e incondizionato il principio di identità: A=A. Esso, di per sé, è un principio meramente formale, che non ci dice nulla «riguardo alla questione se A medesimo sia o no»: se A è posto, è = A. Nondimeno sia dal punto di vista formale (A=A indica un rapporto assolutamente necessario) che dal punto di vista riguardante l’esistenza o meno di A, il rapporto tra soggetto e predicato è posto dall’io. Ma l’io non può giudicare di nulla se non pone se stesso come esistente: l’io non può affermare nulla senza affermare in primo luogo la propria esistenza. Ancora una volta si vede come l’autocoscienza è il principio di ogni conoscenza: da essa si deduce l’autoposizione dell’io.

Hegel ravvisa nel primo principio fichtiano l’originario filone idealistico dell’identità assoluta di essere e pensiero, filone disperso con la formula «l’io deve essere uguale all’io», formula con cui Fichte torna a far propria – secondo Hegel – la disequazione di fatto tra essere e pensiero.

L’io si distingue da tutti i contenuti di coscienza e da tutti gli oggetti della natura in virtù di un atto originario di libertà: infatti il pensiero con cui percepiamo noi stessi come necessariamente (necessità del Sollen) anelanti alla libertà è il grado più alto della certezza logica di sé. Senza autocoscienza non c’è coscienza; ma l’autocoscienza è possibile solo in questi termini: «io sono soltanto in quanto agisco»; «il mondo intelligibile è ciò che deve sorgere mediante il mio agire». Ciò che diciamo l’essere dell’io si risolve nella sua missione. In tal senso la formulazione più esatta del primo principio è: l’io deve essere uguale all’io.

L’intuizione intellettuale dell’io non coglie una vuota idealità formale, ma un compito, un accordo che deve essere realizzato dalla coscienza in se stessa e con se stessa: compito, dovere in cui l’io fissa se stesso e si realizza. L’intuizione dell’io è quindi sempre intuizione di quel mondo che deve sorgere mediante il mio agire, intuizione di una missione in cui la coscienza realizza se stessa. L’intuizione intellettuale non è mai intuizione di un essere (e qui Fichte è d’accordo con Kant), ma di un agire. La formulazione più esatta del primo principio è: l’io deve conquistare infinitamente se stesso.

2) Antitesi. L’esperienza non sarebbe qual è, se non ci fosse una continua opposizione tra io e non io. Il non io è l’assolutamente altro dall’io, ciò che è opposto all’io, anche se è all’interno di esso, giacché nulla è pensabile al di fuori dell’io. L’io umano, in quanto gli è opposto un non io, si dice io empirico, ed è esso stesso opposto all’Io puro o Soggetto assoluto. L’originaria reciprocità d’azione tra io e non io è costituita dall’azione motrice (urto – Anstoss) del non io sull’io e dallo sforzo (Streben) dell’io mirante ad eliminare il non io.

3) Sintesi. Pone la relazione tra io e non io per risolverne la contraddizione attraverso una limitazione reciproca. Viene affermata non semplicemente l’identità e non semplicemente l’opposizione, bensì la determinabilità reciproca di un elemento da parte dell’altro. L’esigenza del terzo principio è già implicita nel primo; il primo e il secondo principio danno il compito per l’azione che dal terzo principio viene posta.

Qual è questo compito? È il porre la relazione tra i due opposti (io – non io) per accoglierli e unificarli nella identità dell’unica coscienza. Si deve risolvere la contraddizione io – non io «mercé una decisione assoluta della ragione». La contraddizione appare tolta, in un certo senso, perché nella sintesi io – non io sono assunti come limitantesi reciprocamente. «Limitare qualche cosa significa sopprimerne la realtà mercé una negazione, non completamente, ma solo in parte».

Ma la relazione posta non rende identici gli opposti. Rimane allora il problema «peculiare»: «perché dopo la sintesi restano delle note opposte?»

E a quali condizioni la contraddizione sarebbe tolta? La contraddizione sarebbe tolta a condizione che l’io si consideri causa del non io e dunque assoluta attività incondizionata. Ciò si verifica soltanto mediante una decisione assoluta, un imperativo categorico della ragion pratica.

La realtà dà ragione a Kant; è solo la ragion pratica a prospettare una trasformazione tale della realtà che faccia diventare falso il dualismo kantiano. Il riconoscimento dell’imperativo categorico di considerare l’io come assoluto, come immanenza di tutto il mondo dell’esperienza, costituisce l’idealismo. Il concetto dell’io come assoluta attività incondizionata è una legge morale. L’Ich soll, l’io devo, esclude l’Ich muss: essere idealisti è un dovere morale, non una necessità logica.

Le conseguenze metafisiche del postulato idealistico

Kant aveva riconosciuto nell’io penso il principio di tutta la conoscenza. Ma l’io penso suppone già data l’esistenza. Per l’idealismo non si tratta solo di presenza attiva dell’io-soggetto all’oggetto, ma di attività che produce l’oggetto e se stessa.

L’io è l’unico principio non solo formale ma anche materiale del conoscere, il principio della realtà e del pensiero: la costruttività kantiana della intelligibilità dei dati da parte del soggetto trova qui un imprevedibile sviluppo.

La deduzione categoriale di Kant era diretta a giustificare il valore delle condizioni universali e soggettive della conoscenza; la deduzione di Fichte è una deduzione assoluta mirante a far derivare dall’io, in quanto infinito, sia il soggetto che l’oggetto del conoscere.

Per Kant il molteplice sensibile deriva dal modo in cui le cose in sé si manifestano a noi; per Fichte tutte le determinazioni della coscienza – e non solo quelle formali – sono necessariamente poste dal soggetto, dal suo atto di autoposizione.

Compito dell’io teoretico è la rappresentazione del mondo. Al livello dell’io teoretico sono valide la ragioni del realismo criticista: «la Dottrina della scienza è realistica». Infatti «essa mostra che non si può in alcun modo spiegare la coscienza delle nature finite se non si ammette una forza indipendente da esse, ad esse completamente opposta e dalla quale quelle nature dipendono per ciò che riguarda la loro esistenza empirica». L’opposizione tra il dato e la coscienza empirica è reale, ma è superata dalla riflessione filosofica, che dalla rappresentazione di un prodotto come «dato», giunge a riscoprire nel dato il «prodotto». A livello dell’io teoretico sono dunque valide le ragioni del criticismo, che però sono superate ponendosi dal punto di vista filosofico.

Ma come l’Io assoluto pone sé limitato dal non io?

L’immaginazione produttiva è la facoltà che svela il mistero e che produce il non io come mondo di oggetti veri e propri nelle forme del senso e dell’intelletto.

Nota Guido De Ruggiero: «Per raffigurarci l’opera dell’immaginazione produttiva nella sua forma inconscia possiamo ricorrere alle labili immagini dei sogni, che, pur essendo prodotte da noi, appaiono staccate e proiettate sopra uno schermo indipendente, da cui reagiscono sullo spirito stesso, che se ne rallegra o se ne rattrista e in mille modi le subisce come se fossero reali. Fichte trasferisce arditamente questa visione del sogno sul piano della emanazione cosmica».

Opposto all’io empirico, l’oggetto – non io in realtà non è opposto all’Io assoluto che lo ricomprende, in quanto «fonte di ogni realtà», produttore del soggetto (io empirico) e dell’oggetto (non io) fenomenici del conoscere.

All’età del sogno o della produzione inconscia dell’io fa seguito l’età della coscienza o della ripresa di possesso che lo spirito fa in rapporto ai suoi prodotti. La visione genetica di quel che l’io ha prodotto inconsapevolmente e che riconquista consapevolmente costituisce la storia prammatica dello spirito umano: dai dati di fatto frutto della coscienza empirica al principio del supremo dell’Io puro.

Le tappe successive della storia prammatica sono la sensazione, l’intuizione, l’intelletto, il giudizio, la ragione.

La sensazione è il primo punto di contatto con il non io, limite estremamente mobile, fuggevole; riflettendo sulla sensazione l’io è costretto ad esteriorizzarla nell’intuizione di alcunché di oggettivo.

L’intuizione è la coscienza in quanto obliata nel proprio oggetto, ma è pur sempre coscienza e dunque conferisce all’oggetto l’idealità sua propria; il non io è elevato a momento oggettivo della coscienza. L’intuizione ci dà un mondo oggettivo inconsistente ed effimero.

L’intelletto (Verstand) sottrae la materia intuitiva alle sue fluttuazioni nel tempo, elevandola ad una stabile essenza concettuale.

Il giudizio è l’atto con cui si confronta, divide e ricompone la materia intellettuale.

La ragione (Vernunft) è forza capace di astrarre da tutti gli oggetti come soggettività pura, che si determina solo mediante se stessa.

La situazione dell’io è duplice: l’io è infinito e finito. È finito, perché dev’essere limitato; è infinito, pur nella sua finitezza, perché il limite può essere sempre spostato più in là, all’infinito. L’Io infinito dice Io in tutti gli esseri empirici che dicono di sé io, è ad essi immanente. Le persone singole, in quanto tali, devono considerarsi semplici posizioni dell’Egoità (Ichkeit), da essa agite e non effettivamente agenti.

«L’impiego da parte di Fichte del termine Io generò in molti dei suoi lettori, com’era naturale attendersi, l’impressione che si trattasse dell’io individuale. Questa impressione però, come ebbe a dire lo stesso Fichte, era errata. Riguardando, nel semestre invernale del 1810 – 1811, la critica che era stata avanzata contro la Wissenschaftslehre, egli ribadì che non aveva mai inteso affermare che l’Io creatore è l’io individuale finito» (Frederick Copleston, op.cit., vol. VII, p. 62), bensì un’attività infinità. «La dottrina della scienza è stata pressoché generalmente intesa come se attribuisse all’individuo effetti che allo stesso non potrebbero assolutamente essere ascritti, come la produzione dell’intero mondo materiale… Ma costoro hanno completamente sbagliato; non l’individuo, ma l’unica Vita immediata spirituale è creatrice di ogni fenomeno, e così pure degli individui fenomenici» (Johann Fichte).

Il primato della ragion pratica

Perché esiste un mondo empirico plasmato dall’immaginazione produttiva?

La ragione, dice Fichte, non può essere teoretica se non è pratica.

L’intima essenza dell’io non è l’essere, ma l’agire (Johann Wolfgang Goethe: in principio era l’azione). L’attività dell’io ha natura morale: si dispiega appieno vincendo una resistenza, superando un ostacolo. Il limite è posto e superato, in un’alterna ed eterna vicenda, all’infinito.

L’attività etica è sostanzialmente uno sforzo (Streben), un infinito tendere che si realizza nel superamento del finito: lo sforzo è causalità ostacolata che tende a superare l’ostacolo. Il mondo, la natura, è nient’altro che il teatro dell’azione morale, «il materiale del dovere reso accessibile ai sensi».

L’io è attività infinita che si limita per un’interna esigenza; è un farsi, in virtù della coscienza di una legge incondizionata di natura morale.

«Ogni dover essere è possibile solo in quanto io penso la libertà come condizionante la legge, la legge come condizionante la libertà… Se tu ti pensi libero sei costretto a pensare la libertà sotto una legge; e se pensi questa legge sei costretto a pensarti libero… La libertà consegue dalla legge non più di quanto la legge consegua dalla libertà» (Il sistema della dottrina morale).

Ma di dove la legge morale trae origine? «La vita deve necessariamente essere intuita affinché si possa così intuire la legge morale, e la legge morale deve essere intuita affinché si possa così intuire l’Assoluto: questo sarebbe l’ordine ascendente della nostra riflessione» (Fatti della coscienza).

Ogni contrasto tra quello che si è e quello che si deve essere, appena è stato risolto per mezzo dell’azione, risorge come ad un piano superiore ed esige una nuova azione. All’infinito.

Quella realtà che pare imporsi a noi – e s’impone, effettivamente, per un certo aspetto, al nostro io empirico – sussiste, più profondamente, in funzione della nostra libertà: come ciò rispetto a cui la libertà ha modo di esercitarsi.

L’io finito sussiste nella sua empiricità solo grazie all’opposizione del non io, ma, negando questa opposizione, tende a diventare infinito, cioè ad identificarsi con quell’Io assoluto che è, insieme, radice della sua «egoità», e compito infinito che l’io empirico deve realizzare.

Fichte e Kant

Fichte, mentre da un lato riproduce il rapporto sussistente in Kant tra la Critica della Ragion pura e la Critica della Ragion pratica, in cui la ragione pratica riesce a raggiungere attraverso i postulati quell’incondizionato che è precluso alla ragion pura, dall’altro capovolge questo rapporto. Mentre Kant prima indicava l’indimostrabilità della libertà, per poi fare, nella Critica della Ragion pratica, della libertà un postulato della morale, per Fichte la libera attività è fin da principio la ratio essendi, la spiegazione e la finalità essenziale di tutta la dottrina della scienza: il non io è necessario solo perché l’io abbia un limite verso cui indirizzare la sua azione, e a questa possibilità di azione mira dunque tutta la costituzione dell’universo.

Fichte sviluppa liberamente il concetto di Kant del primato della ragion pratica. Per Kant questo primato si era risolto nella sovraordinazione della sfera di attività pratica rispetto a quella conoscitiva, sovraordinazione giustificata dalla dignità dell’oggetto a cui essa si riferiva. Le due sfere di attività rimanevano sempre estranee l’una all’altra: la ragion pratica non vede nel prodotto della ragion teoretica che qualcosa di estraneo alla sua legge, e la ragione teoretica ignora il dovere e la libertà. Per Fichte, invece, il primato della ragion pratica significa positiva unificazione delle due sfere, mediante la subordinazione dell’una all’altra come strumento a fine. Il mondo, una volta posta l’autonomia dell’io come principio incondizionato, è il mezzo che lo spirito stesso si costruisce per attuare la sua libertà.

La critica fichtiana del kantismo si impernia su due punti fondamentali: la denuncia degli equivoci che si celano nella cosa in sé e la denuncia dell’astrattezza dell’indagine kantiana, incapace di adeguarsi all’intimo dinamismo dello spirito.

L’equivoco che si cela nella cosa in sé consiste nell’interpretarla secondo una mentalità dommatica, che pone l’oggetto come fondamento del soggetto, realtà ignota che sta dietro i fenomeni. È un errore filosofico concepire il noumeno prescindendo dal fatto che esso si presenta sempre nell’esperienza di coscienza, come fatto di esperienza.

L’equivoco si supera restituendo alla cosa in sé il significato di noumeno negativo o concetto limite, secondo lo spirito profondo del criticismo. In tal senso si deve riconoscere che «l’idea base di ogni filosofia è l’idea della cosa in sé».

L’abolizione teoretica della cosa in sé è un errore filosofico. L’autentico idealismo riconosce che, dal punto di vista gnoseologico, ha ragione Kant, ma mediante la ragion pratica prospetta una trasformazione tale della realtà che faccia diventare falso il dualismo kantiano. Essere idealisti è un dovere morale (Ich soll – io devo), non una necessità logica (Ich muss – io sono costretto, necessitato). «Il nostro idealismo non determina ciò che è, ma ciò che deve essere». Hegel commentava: «una realtà non dualistica è nella fede».

L’idealismo critico di Kant è insufficiente: l’io legislatore accetta un dato che non potrà mai conoscere perché non è stato da lui prodotto. Occorre invertire il procedimento filosofico: non dall’esperienza all’io (dommatismo, passività), ma dall’io all’esperienza (idealismo).

L’idealismo è una forma di vita oltre che di pensiero. Due sono i modi di pensare e di vivere: il dommatismo e l’idealismo. Il dommatismo è il partire dalla realtà come un dato, è muovere dalla natura facendo scaturire da essa le leggi stesse del pensiero. Nella vita il dommatismo si traduce in conformismo, nell’accettare passivamente una situazione.

L’idealismo, al contrario, muove dall’io e spiega la natura, l’essere come prodotto del pensiero. L’idealismo implica nella vita lo sforzo continuo di produrre il dato, affermando l’autonomia dell’io nei confronti della natura in un processo mai concluso che tende all’infinito. «La scelta di una filosofia dipende da quel che si è come uomo, perché un sistema filosofico non è un inerte suppellettile che si può lasciare o prendere a piacere, ma è animato dallo spirito dell’uomo che l’ha scelto».

L’etica

La vita morale come sintesi di materia e forma

Il fondamento di ogni certezza e quindi di ogni verità teoretica è nell’attività morale: «l’unica e salda base della mia conoscenza è il mio dovere». L’io è quel che si fa; dunque egli coglie se stesso come volente, come proteso nell’attuazione di un Sollen incondizionato, di una spinta imperiosa a superare la materia, l’inerzia, la banalità che l’io empirico trova in sé e intorno a sé. Si deve parlare pertanto di impulso naturale, impulso puro, impulso morale.

a. L’impulso naturale è l’attaccamento alla sensibilità dell’io empirico attraverso la realtà del corpo e delle passioni; è il complesso di desideri e sentimenti che l’io empirico porta con sé e per cui è parte di un meccanismo naturale e psichico: l’io è limitato dal non io. È la materia, l’insieme delle tendenze sensibili, per cui l’io si limita ad esistere e a cercare il piacere senza «invadere il terreno della libertà».

b. L’impulso puro è la coscienza che l’io ha di sé come soggetto di vita morale e legislatore etico. È la forma. Come l’impulso naturale è impulso all’inerzia e all’indifferenza, così l’impulso puro è impulso alla libertà: «è l’io che limita il non-io attraverso l’io». L’impulso puro tende all’autonomia assoluta: per esso all’io empirico è assegnato un compito morale infinito.

c. L’impulso morale è la sintesi dell’impulso naturale e di quello puro, sintesi di materia e di forma. Non è concepibile, infatti, una volontà pura che non si determini ed esprima in un impulso naturale che le fornisca la materia e la determinazione empirica necessaria. L’impulso puro tende all’autonomia assoluta dell’Io puro, ma l’io morale adempie al suo destino realizzando progressivamente un fine, un compito inesauribile.

La legge morale fondamentale è la legge per cui ogni azione deve svolgersi nella direzione che conduce ad una più completa libertà spirituale (che è poi il criterio dell’esistenzialismo positivo di Nicola Abbagnano).

Come, allora, e donde il male?

Fichte afferma che l’io empirico deve conformarsi all’Io puro, ma non è necessitato a farlo.

Se il dovere dell’uomo è di esplicare la massima libertà morale e di superare continuamente la propria finitezza, in una tensione senza fine, il male radicale è l’inerzia.

L’uomo come essere naturale soggiace all’inerzia, adattandosi a rimanere in un grado embrionale di riflessione. L’inerzia genera l’indifferenza, la viltà, l’insincerità, e cioè la pigrizia dell’uomo ad affermare la propria libertà, la fuga davanti al compito di padroneggiare le sue inclinazioni, dominare le cose prive di ragione, vivere facendo coincidere pensiero e azione, ordinare i rapporti etico-sociali in libertà secondo ragione.

La libertà come processo di liberazione e la disequazione tra essere e dover essere

1- La libertà cui l’impulso morale tende è un processo progressivo di liberazione nell’attuare un compito peraltro infinito.

Fichte fece sua la divisa di Lessing, il filosofo del libero pensiero religioso e dell’inesausta ricerca: «Esser libero è nulla, diventarlo è tutto» (Frei sein ist nichts, frei werden ist das Himmel).

Concetto riespresso da Fichte in quell’altro motto non meno incisivo: «Debbo agire liberamente per diventare libero» (Ich soll frei handeln, damit ich frei werde).

2- Caratteristico dell’idealismo etico è l’insanabile, costitutiva disequazione tra essere e dover essere, fra la determinazione attuale dell’io – quel che l’io è diventato, si è «fatto» – e quel che deve essere. Inadeguatezza sempre risorgente, all’infinito.

Essere e dover essere sono in rapporto di contrasto, contrasto che l’azione morale risolve nell’atto del suo svolgersi per riproporlo su un piano superiore.

Il divino è proprio questa inesausta tensione. Nelle Lezioni di storia della filosofia Hegel, il nemico implacabile di questa disequazione tra essere e dover essere, dirà che per Fichte «la brama è il divino» (Sehnen ist das Göttliche).

Hegel, dal suo punto di vista, che è quello di una più rigorosa immanenza, rimprovererà a Fichte di averci dato una nuova versione dell’ebraica e kantiana «coscienza infelice» e di aver elaborato una dottrina della «cattiva infinità» dell’Io assoluto. «La cattiva infinità – scrive Hegel nell’Erstes System – è l’ultimo grado cui perviene l’incapacità di unificare e di togliere assolutamente l’opposizione, allorché tale incapacità pone solo l’esigenza di questo toglimento, e si accontenta dell’idea dell’esigenza senza realizzarla».

L’etica fichtiana è puramente formale?

L’etica fichtiana non ha un carattere puramente formale in quanto il contenuto è l’attività stessa, l’infinito tendere alla libertà assoluta come determinazione originaria e ineliminabile che si realizza nel processo di superamento del finito.

Fichte non si limita a prescrivere un imperativo categorico; il contenuto è l’affermazione della libera attività contro i limiti del non io. La coscienza comune considera l’oggetto qual fine e l’azione come mezzo. Invece vale il contrario: si deve considerare l’azione come fine e l’oggetto come occasione, stimolo, ostacolo.

A Friedrich Schiller e ai romantici della rivista Athenaeum l’etica di Fichte apparve come un’esagerazione del rigorismo kantiano e del suo formalismo. In realtà Fichte intende rivalutare, in armonia con lo spirito immanentistico della nuova filosofia, la sensibilità sia pure per trascenderla nell’aspirazione all’Infinito.

L’impulso sensibile come attaccamento alla sensibilità è ineliminabile; si tratta di farne uno strumento per l’esplicazione dell’impulso razionale.

Il superamento dell’ostacolo frapposto dall’impulso sensibile non si prospetta come ripudio del mondo sensibile, ma come compito razionale che si esplica attraverso la realtà del corpo e delle passioni.

La missione dell’uomo e del dotto

L’uomo è insieme spiritualità ed empiria: Io puro immanente nell’io empirico. Urge in lui, di conseguenza, l’imperativo di subordinare allo spirito il mondo dei suoi istinti, bisogni, desideri.

Detta esigenza si manifesta, di fronte alla molteplice caoticità degli impulsi sensibili e delle opinioni correlative, come bisogno di disciplina, di coerenza interiore, armonia tra teoria e pratica. Per dare unità alla sua personalità, l’uomo deve dominare le cose prive di ragione da un lato e padroneggiare le sue stesse inclinazioni dall’altro.

Ma razionalizzare se stesso e il mondo si può solo vivendo tra gli uomini, in società, perché gli individui da soli non possono bastare al grande compito e perché il vivere in società è il massimo destino dell’uomo: «l’uomo diventa uomo solo in mezzo agli uomini».

La società offre quell’incitamento reciproco e quella discordia concors che rendono possibile la dinamica della storia, il cui fine è di ordinare i rapporti tra gli uomini secondo ragione, in libertà.

La missione dell’uomo per Fichte è dunque farsi libero, rendendo liberi gli altri, e lavorare alla progressiva unificazione degli spiriti: «unificazione che divenga sempre più salda nell’intimo sentire, sempre più vasta quanto all’estensione».

In quest’opera di progressiva unificazione dell’umanità, ciascuno si sente congiunto a quanti nel passato lavorarono allo stesso scopo. Nobilissimo è l’accento con cui Fichte nella lezione IV de La missione del dotto esorta il singolo a farsi al servizio di un’umanità più fraterna e più saggia.

L’uomo rispetto ai suoi simili deve tendere alla coordinazione, non alla subordinazione: chi vuol dominare gli uomini, rende schiavi gli altri e perverte se stesso, degrada i suoi simili a meri mezzi per i propri fini. Ed invece non è permesso neppure di «rendere virtuoso o saggio, o felice alcun essere ragionevole contro la sua volontà».

La battaglia per l’incremento dell’umana dignità e per l’unificazione progressiva degli uomini esige la conoscenza del mondo e della natura umana.

La cultura è la luce che si proietta a fecondare e guidare l’azione morale degli uomini; essa mette in grado l’uomo di agire eticamente, svolgendo armonicamente la personalità di ognuno.

Di qui l’importanza del ceto dei dotti nella società.

Il dotto è incarnazione di libertà, coscienza attiva del proprio tempo, rifiuto di ogni grettezza e unilateralità. Il dotto porta alla luce le istanze fondamentali della sua epoca, dà voce alla coscienza morale, guida il progresso della storia mediando continuità storica e innovazione, senza sbalzi avventati e pericolose fratture con il passato. Nei momenti difficili sa assumersi le sue responsabilità anche nell’azione diretta, nella vita politica, riscattando questa dalle bassure di un cieco empirismo e del minuto calcolo utilitario nel piano etico.

Il dotto deve dedicare i suoi sforzi a un triplice ordine di discipline:

  1. le discipline filosofiche, che indagano gli atteggiamenti fondamentali dello spirito e i fini essenziali della storia; i disegni del filosofo possono sembrare irrealizzabili, e lo sono immediatamente, a causa della loro elevata generalità, ma la ragione ha i suoi diritti anche nel terreno storico, giuridico, politico;
  2. le discipline sperimentali (Fichte dice impropriamente «filosofie storiche»), che mediante la conoscenza scientifica del mondo, indagano i mezzi per attuare i fini essenziali dell’uomo nel grande palcoscenico dell’attività spirituale;
  3. le discipline storiche che, valutando le esperienze dell’umanità, tracciano il quadro del cammino umano, indagano sui problemi insoluti, prospettano migliori possibili soluzioni, a breve e a lunga distanza, richieste dal perfezionamento sociale.

Ma il dotto non può fiorire che in atmosfera di libertà. Maestro di libertà, non può degradarsi a strumento di perversione e asservimento.

Diritto e politica

Nella prima fase del pensiero sociale di Fichte si ha una svalutazione dello Stato e la rivendicazione dei diritti dell’uomo. L’opera del 1793 si intitola Contributo alla rettifica del giudizio del pubblico sulla rivoluzione francese. Celebra il significato della rivoluzione francese, che è l’illustrazione del gran testo: valore e diritti dell’uomo. Il conservatorismo storicistico (allora in auge con Edmund Burke e Jeremy Bentham) vincola gli uomini al passato e ne fa eterni fanciulli. Ogni popolo ha diritto a darsi il governo che corrisponde alle sue aspirazioni anche con la violenza. In questa prima fase del pensiero sociale, Fichte si sforza di conciliare i diritti della persona – affermati dalla rivoluzione francese – con le esigenze della vita sociale. L’uomo diventa uomo solo in mezzo agli uomini; ma, d’altra parte, lo Stato non è il fine assoluto dell’uomo, essendo solo un mezzo per la fondazione della società civile. La rigenerazione dell’umanità si compie attraverso il convergente concorso del rinnovamento degli istituti storici e del rinnovamento educativo (su questo punto Fichte influì su Manzoni).

Nel 1796 Fichte pubblica il Fondamento del diritto naturale, nel quale lo Stato viene concepito come il garante dei diritti naturali. L’uomo diventa uomo solo tra gli uomini; la sua attività è resa possibile solo da quella degli altri. Una società giuridicamente ben fondata è una società libera, che tende ad attuare la sovranità della legge, facendo sì che ognuno sia membro e non strumento passivo delle comunità di cui fa parte. Il diritto è la sfera delle manifestazioni esterne della libertà nel mondo sensibile. Non si identifica con la moralità, ma ne costituisce un’importante condizione preparatoria.

La realizzazione del diritto non è affidata all’arbitrio dei singoli, ma al potere dello Stato. Lo Stato è garanzia, strumento principale di attuazione dei diritti naturali; costringe gli individui che di per sé tendono all’isolamento o alla sopraffazione, a perseguire i fini etico-culturali della specie.

Tuttavia i valori dello spirito non possono essere i fini diretti dello Stato. Chi si sia levato al puro amore del bene è al di sopra di ciò che lo Stato può comandare o proibire. Quali sono i diritti fondamentali che l’organizzazione statuale rende possibili? Proprietà, libertà, conservazione dell’esistenza corporea. Il contratto sociale fonda il diritto di proprietà, ma non lo presuppone. A ciascuno sia garantito il suo. Quando un individuo non può vivere del proprio lavoro, vuol dire che è stato defraudato.

Nel 1800 Lo Stato commerciale chiuso, all’alba del XIX secolo, prelude al socialismo di Stato di Karl Marx e Ferdinand Lassalle, mentre raccoglie l’eco delle rivendicazioni sociali che determinarono la rivoluzione francese. Perché lo Stato possa assicurare ad ognuno lavoro e proprietà, bisogna che concentri su di sé tutta l’organizzazione della produzione e impedisca a qualsiasi cittadino ogni rapporto con l’estero, in modo che col tempo possa essere «chiuso», autosufficiente, autarchico.

Fichte riprende l’idea del contratto sociale. In una moltitudine di uomini illimitatamente liberi, nessuno lo è realmente: tutto ciò che è fatto dall’uomo può essere disfatto dall’altro. Di qui la necessità del contratto: originariamente tutti hanno lo stesso diritto su tutto; solo per rinunzia di tutti gli altri a qualche cosa che io desidero conservare per me, essa diventa mia proprietà. Il governo è garante dei patti sanciti nel contratto e deve mirare a prevenire ogni violazione o mancata osservanza delle norme contrattuali.

Lo Stato ha l’autorità su tutti coloro che riunisce nel suo consorzio e deve dare a ciascuno, immetterlo nella sua proprietà e proteggerlo nel godimento di essa.

Discutibile è la deduzione delle classi sociali, muovendo dalla premessa che i due rami principali di attività sono l’acquisizione dei prodotti naturali e la loro elaborazione per gli scopi che l’uomo si propone: produttori, artigiani e commercianti. Si tratta di un criterio angustamente economico, che non tiene in alcun conto, ad esempio, della classe dei dotti, a cui lo stesso Fichte attribuisce un’altissima missione. La divisione del lavoro non è soltanto un principio economico, ma una regola sociale e una norma giuridica.

Un luminoso contributo contenuto nel libro, non molto noto, è dato dalla disamina del rapporto tra teoria e pratica dal punto di vista generale. Nella lettera dedicatoria al ministro riformatore Carl August von Struensee, Fichte afferma: «Se il filosofo non considera la sua scienza come un semplice gioco, ma come qualcosa di serio, non concederà mai che i suoi piani ideali siano assolutamente inattuabili, poiché in tal caso potrebbe dedicare il suo tempo più utilmente. I suoi disegni possono essere irrealizzabili immediatamente perché per la loro elevata generalità convengono a tutto epperò a nulla di determinato… Tocca alla prudenza dell’uomo politico applicare la regola generale ai casi particolari e ciascuna volta in modo rispettivamente diverso». La politica, infatti, è la scienza di governare uno Stato reale, partendo non solo da ciò che è giusto, ma da quanto di ciò che è giusto sia applicabile in determinate circostanze. Fichte confuta, infine, la cecità del realismo pratico che porge l’orecchio solo a ciò che si presenta fattibile di primo acchito, senza alcuno sforzo di razionalizzazione etica della vita associate.

Nella concezione dello Stato autarchico, espressa nello Stato commerciale chiuso, vi è il germe di quella concezione nazionalistica dello Stato, che troverà la sua espressione più compiuta e più calda nei Discorsi alla Nazione tedesca, scritti da Fichte a Berlino tra il 1807 e il 1808, quando l’invasione napoleonica aveva tolto alla Germania la sua indipendenza politica.

La concezione fichtiana della politica e della storia si presta ad alcune considerazioni.

Fichte fu geniale nella critica dell’empirismo e nel rivendicare i diritti e il compito della ragione sul terreno storico, giuridico e politico.

Ma la pretesa di dedurre ciò che affiorava dal moto della storia da presunte leggi a priori dell’Io puro riduce il dato storico ad un processo astratto nel senso deteriore del termine.

La concezione dell’Io puro e l’effettiva inesplicabilità dei rapporti tra l’Io puro e l’io empirico rende aporetica la giustificazione fichtiana della storia. La stessa pluralità degli individui è postulata anziché giustificata; tanto meno essa si concilia con l’asserita unità assoluta dell’Io puro.

Difficoltà grave è pure quella rappresentata dall’idealizzazione dello Stato, considerato da Fichte un puro e semplice mezzo delle più alte finalità della specie umana.

NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate.