«Sarò sempre contro ogni tirannia, anche quella del numero, per spingere ogni uomo, assolutamente ogni uomo, a essere sveglio, a divenire Singolo, a rapportarsi con l’Assoluto» (Søren Kierkegaard)
LA VITA
Søren Kierkegaard venne al mondo il 5 maggio 1813 a Copenhagen; morì l’11 novembre 1855 a 43 anni. La sua fu una vita breve, strana, ardente. Il padre aveva sposato in seconde nozze la propria domestica. E se il primo matrimonio era stato sterile, fecondo di ben sette figli fu il secondo. Søren fu l’ultimo dei sette figli e nacque quando il padre aveva già 56 anni e la madre 44. Per questo egli si definì «figlio della vecchiaia». Cinque fratelli di Søren morirono prima di lui. Soltanto Pietro, il quale divenne poi vescovo luterano, gli sopravvisse.
Ebbe una iniziazione precoce a un cristianesimo non solo severo, ma cupo («Ragazzo, ricevetti una educazione rigida e austera che fu umanamente una follia»).
Il «Socrate del Nord» fu alunno, non discepolo, dell’ultimo Schelling a Berlino. Entrato all’Università nel 1831, visse molti anni di «frivolezze estetiche», di lontananza dalla fede, di burrascosa opposizione al padre, un cappellaio divenuto ricchissimo ma che nell’infanzia e nell’adolescenza aveva conosciuto la miseria e la disperazione, pastorello nelle lande dello Jutland.
Kierkegaard sperimenta per anni fascino e veleni dell’estetismo: si distacca dalla fede e vive la «esistenza al punto-zero» (Null-punkt), il né sì, né no, ma il forse, l’arbitrarietà e quindi l’equivalenza di ogni scelta. È la tesi a cui si ferma l’esistenzialismo ateo di Sartre. Spande successo tra gli studenti, ma la disperazione è in agguato nel suo cuore.
A partire dall’estate 1838, cessò la lunga tentazione dell’incredulità. Nel 1841 si laureò con una dissertazione su «Socrate e il concetto di ironia».
Gli scritti più importanti di Kierkegaard sono Aut-aut (1843), in cui comincia a delineare le alternative fondamentali dell’esistenza; Timore e Tremore (1843), Il concetto dell’angoscia e Briciole filosofiche (1844), Stadi nel cammino della vita (1845), Postilla conclusiva non scientifica (1846), La malattia mortale (1849), Scuola di cristianesimo (1850). Di fondamentale importanza è, inoltre, il Diario. Questo occupa quasi cinquemila pagine dei venti volumi di cui è costituita l’edizione postuma delle sue carte. Il Diario è un’opera che Kierkegaard inizia nel 1833, quando egli era poco più che ventenne, e che arriva agli ultimi giorni di settembre del 1855, meno di due mesi prima della morte avvenuta l’11 novembre.
Un pensatore così anti-accademico e così drammatico come Kierkegaard, che tende a realizzare, nella tensione più appassionata, la coincidenza della verità e della vita, non ha da esibire una carriera o episodi esteriori decisivi. I casi, gli avvenimenti apparentemente insignificanti che però ebbero grande importanza per lui sono riconducibili a tre: il rapporto con il padre, con Regina Olsen e la polemica aspra con la chiesa danese.
Il rapporto con il padre Mikäel
Nel settembre del 1837 si giunge alla rottura formale con il padre: Kierkegaard vive la parabola del figliol prodigo.
Nel luglio del 1838 Kierkegaard ritorna all’atto pubblico della comunione e, come per il passato, lo fa in compagnia del padre Mikäel Pedersen, che allora aveva 82 anni e che sarebbe morto l’8 agosto. Fu in queste circostanze che Mikäel confidò al figlio prediletto un tremendo segreto di coscienza, «una colpa segreta che tiene sempre aperta la porta al pianto per una vita intera»: «fu allora che accadde il gran terremoto, il terribile sconquasso che d’improvviso m’impose un nuovo principio d’interpretazione della vita».
Si è pensato che proprio a questo tragico segreto paterno faccia allusione Kierkegaard in un brano del Diario del 1846: «Era ancora bambino e custodiva il gregge nella landa dello Jutland. Un giorno accasciato dalla sofferenza e soffrendo molto per la fame, salì su di una collina e maledisse Dio. Quest’uomo non era capace di dimenticarlo all’età di 82 anni».
Il rapporto con Regina Olsen
Il primo incontro risale al 1837.
Nel settembre del 1840 Regina e Søren si fidanzano: Regina, figlia di un alto funzionario, ha diciotto anni, Kierkegaard ventisette. Per Søren, Regina abbandona un altro pretendente.
Nell’agosto del 1841, Kierkegaard decide di rompere il rapporto: «Perdona a un uomo il quale, benché potesse molto, non è stato tuttavia capace di rendere felice una giovinetta».
In una pagina del Diario del 1843, tornando sull’accaduto, Kierkegaard scrive: «Il mio rapporto con lei, lo si può davvero chiamare un amore infelice: io l’amo, essa è mia; il suo unico desiderio è che io resti con lei e questo è il mio voto supremo. E io devo dire: no!».
Pensò di rendere meno dolorosa la rottura per Regina, fingendosi «stanco di lei, impostore, cervello pazzo». Nel 1843 Regina si fidanzò col giovane da lei conosciuto e amato prima di Kierkegaard ed ebbe un matrimonio sereno.
Un ultimo episodio. Poco prima della morte di Søren, Regina fece in modo di incontrarlo in strada, dovendo partire per le Antille, dove il marito era stato nominato governatore. Regina gli disse dolcemente: «Dio ti benedica e che tutto possa andare secondo i tuoi desideri». Søren non rispose che con un saluto.
Quali le ragioni della rottura?
– Tormentato dalla differenza di età di dieci anni, Kierkegaard giudicò un tradimento legare a sé una giovinetta tutto candore e semplicità.
– Kierkegaard avvertiva come un ostacolo insuperabile la malinconia, dimensione costitutiva del suo essere, avviato fin dalla fanciullezza dal padre ad una «disperazione senza soluzione».
– Kierkegaard non riteneva giusto far pesare su un’altra creatura i sacrifici richiesti dalla sua missione filosofica e religiosa. «Un soldato alla frontiera potrebbe essere sposato, dovendo combattere notte e giorno, in prima linea?».
Il rapporto con la Chiesa stabilita in Danimarca
Negli ultimi due anni esplode la polemica, che gli abbrevierà la vita, contro la «Chiesa stabilita di Danimarca». L’occasione fu l’elogio funebre del vescovo luterano Mynster (morto alla fine del gennaio 1854), degno rappresentante della rispettabilità borghese definito «testimonio della verità» dal successore Martensen. Il teologo «razionalista» celebrò il vescovo «imborghesito».
La polemica di Kierkegaard si sviluppa nei nove fascicoli de Il momento dal maggio al settembre 1855; in essa Kierkegaard consuma le sue ultime energie prima di cedere di schianto e morire l’11 novembre dello stesso anno.
Le due più insidiose degenerazioni della chiesa sono la mondanizzazione e il razionalismo teologico.
La mondanizzazione della chiesa tende ad assicurare ai fedeli gli accomodamenti atti a permetter loro di vivere da pagani dietro il comodo paravento della rispettabilità: «si vuol vivere tranquilli e attraversare felicemente il mondo», e così tutta la cristianità diventa «un travestimento: ma il cristianesimo non esiste affatto».
Il razionalismo teologico svilisce i connotati autentici di una verità difficile, come quella cristiana, e crede di poter impiantare il rinnovamento religioso subordinandolo alle filosofie dominanti, e in particolare a quella del più sottile raffinato negatore del cristianesimo, Hegel. Al di là dei compromessi e delle illusioni di una cristianità storica, occorre riscoprire il senso della vita e, dunque, del cristianesimo autentico che ce lo rileva con inaudita potenza e profondità. «Lutero aveva 95 tesi, io non ne ho che una: il cristianesimo dev’essere realizzato». «Il cristianesimo è una cura radicale per la quale ci si schernisce in tutti i modi, rimandando sempre all’ultimo giorno il passo decisivo». Diventare cristiani è «la più terribile delle decisioni: si tratta di conquistare la fede, passando attraverso la disperazione e lo scandalo, i due cerberi che montano la guardia all’ingesso del cristianesimo».
Kierkegaard, commisurandosi a questo ideale, più diveniva cristiano meno si sentiva disposto a definirsi tale. Si disse «aspirante al cristianesimo», non degno del nome cristiano. Parlando di sé al passato nell’epilogo del Punto di vista sulla mia attività di scrittore, destinato ad essere pubblicato dopo la morte, poté scrivere: «la purezza del suo cuore fu di non volere che la sola cosa necessaria».
Kierkegaard ha messo l’accento ora sull’uno ora sull’altro tema, insistendo sulla «categoria del Singolo». Ma ha pure fornito, negli Stadi della vita, come in Aut-Aut, un piano che consente di raggruppare, secondo un criterio abbastanza rigoroso e logico, le diverse possibilità della vita secondo tre stadi o sfere distinte che corrispondono allo stadio estetico, etico e religioso.
LA DOTTRINA DEI TRE STADI DELLA VITA
La categoria del salto e la dialettica della vita
Per cogliere esattamente il senso e la portata della divisione della vita secondo tre stadi, è necessario anzitutto definire chiaramente il concetto kirkegaardiano di stadio o sfera di esistenza. Non è assolutamente il caso di considerarlo come momento di un’evoluzione, necessariamente legato ai momenti che lo precedono e lo seguono.
Kierkegaard al contrario concepisce gli stadi come mondi a sé stanti e chiusi. Lo stadio è una sfera di vita indipendente, uno stato definitivo e isolato. Ogni uomo si trova necessariamente nell’uno o nell’altro e il problema che ognuno deve risolvere, per conoscersi socraticamente, è quello di determinare in quale stadio si trovi. Ogni stadio è dunque, in quanto isolato, una specie di infinito, vale a dire è impossibile accedere allo stadio successivo per semplice sviluppo dello stadio in cui ci si trova. Il progredire nel senso dell’estetica non porterà mai all’etica, né d’altro canto l’esasperazione dell’etica consentirà di accedere al religioso, benché il «campo del religioso sia così vicino a quello dell’etica da comunicare incessantemente tra loro». Non si può effettuare il passaggio dall’una all’altra sfera dell’esistenza se non mediante il salto.
È necessario insistere su questa categoria del salto, senza la quale non è assolutamente possibile comprendere il pensiero di Kierkegaard. Il salto si oppone alla mediazione, che è la categoria del continuo, dell’omogeneo e dell’identico. Mediare, alla maniera di Hegel e del razionalismo, è identificare i contrari, sopprimere ciò che è irriducibile alla logica, volatilizzare il concreto e l’esistenziale a favore dell’astratto, abolire la qualità a favore della sola quantità. La dialettica, così concepita, volge le spalle alla vita e si arena nell’immobile. Kierkegaard ha sottolineato con forza i gravi errori del metodo idealista e l’assoluta contraddizione in cui si chiude il razionalismo idealista. L’esistenza non può essere concettualizzata senza cessare di essere esistenza.
Ecco perché, ogni volta che Hegel o gli idealisti decidono di prendere in considerazione l’esistenza, questa, con una fatalità che non ha nulla di misterioso, diviene subito, come tutto il resto, un concetto.
Sulla carta, ben inteso, con l’aiuto della mediazione, si arriva a produrre la stessa esistenza. Il tema fondamentale di Hegel consiste infatti nel supporre che la speculazione sia un movimento continuo mediante il quale si passa da un termine dato al termine contrario (tesi e antitesi); quindi, per mezzo delle transizioni interne necessarie, ad una sintesi che li comprende entrambi in un’unità superiore, e che diverrà essa stessa, a sua volta, per opposizione al suo contrario, l’elemento di un progresso nuovo.
Il monismo è dunque ad un tempo presupposto e richiesto da un sistema del genere, in cui la diversità è sempre provvisoria, l’opposizione relativa, il conflitto apparente. L’immobile e l’omogeneo trionfano sul divenire e sul differente, l’universale sull’individuale e l’uno sul molteplice.
Come pretendere di arrivare all’esistenza seguendo una strada del genere? L’esistenza è ciò che serve da intervallo, ciò che tiene le cose separate, ciò che le distingue e le contrappone le une alle altre, mentre il sistematico è l’identico e il continuo.
Le esigenze della mediazione obbligano perciò Hegel a passare sopra alla dualità dello spirito e del reale, del soggetto e dell’oggetto, dell’interiore e dell’esteriore. La coscienza individuale non è più universale e deve ritrovarsi, sotto una forma superiore, nel tutto vivente rappresentato dalla società e specialmente dallo Stato, il quale è la forma più alta dello spirito oggettivo, l’universo spirituale in cui si realizza la ragione divina, il mezzo per cui l’individuo viene definitivamente assorbito nell’universale.
Non si potrebbe dire in maniera più chiara di così che l’esistenza – la quale è realtà individuale e personale – non trova posto nel sistema se non come semplice episodio. L’ideale consisterà per l’individuo nel divenire un concetto!
A tutto ciò Kierkegaard contrappone una dialettica della vita che è passaggio continuo dall’identico al differente, che è polemica e conflitto-salto.
È chiaro ormai in qual modo si effettuerà il passaggio da uno stadio all’altro: esso comporterà un salto, vale a dire una scelta assoluta, la quale sarà, non la continuazione dello stadio precedente, ma la sua negazione. Ciò significa, psicologicamente, che l’uomo nel momento fatidico del salto non continua un movimento già iniziato. Determina un movimento e produce un atto che è esclusivamente frutto di una libera decisione da lui presa in considerazione del suo valore essenziale. Va notato tuttavia che ogni stadio ha qualcosa di prezioso che lo giustifica; è, se si vuole, un aspetto della vita che dovrà come tale ritrovarsi negli stadi superiori, sia pur trasformato e trasfigurato.
Lo stadio estetico
La categoria dello stadio estetico è l’immediato. Il primato è del piacere, non necessariamente edonismo volgare, ma chiunque ha fatto della sua vita una ricerca del piacere e dell’affermazione di sé, vive da esteta. Il romantico dissolve ogni realtà in un gioco di possibilità, obbedisce solo agli imperativi mutevoli e quindi passa incessantemente da un piacere all’altro, da un desiderio all’altro. Cambiare, ecco la parola d’ordine; si deve volere una cosa che non deve essere mai la stessa. L’esteta ignora la categoria della ripetizione. L’essenza è il culto dell’io.
Kant in polemica con i moralisti inglesi afferma: «Non è affinando il piacere che possiamo trasformarlo in dovere…». Lo stesso Kierkegaard afferma: «Bisogna evitare di ridurre la tendenza estetica a puro sensualismo; essa riunisce in sé tutti gli atteggiamenti che mirano esclusivamente al piacere per quanto nobili e intellettuali essi siano. Godere delle idee, abbandonarsi al fascino di orizzonti intelligibili senza impegnare la propria vita; questo è estetismo».
Il simbolo di questo stadio è il Don Giovanni, seduttore, il Faust. Carpe horam, afferra l’istante è il suo motto. Per l’esteta non esiste nulla realmente; egli dissolve ogni realtà, in un infinito di possibilità. È teso alla ricerca appassionata dell’attimo che fugge.
La noia («L’oscuro cavaliere che accompagna il piacere è la noia») è l’esito, insieme alla disperazione. L’esteta, malgrado le apparenze, è infelice, votato alla disperazione; l’esteta non trova che il vuoto e il dolore.
Allorché ci si abbandona al piacere bisogna subire la legge del piacere, che sfugge, perché è sempre del momento, dell’istante. A chi non ha cercato altro che il piacere per sé non rimane che l’inevitabile inabissarsi in istanti di volta in volta assolutizzati. Chiunque viva su questo piano, lo sappia o no, è un disperato in fuga davanti a se stesso.
La zona limite è l’ironia, in quanto coglie la contraddizione. L’ironia può essere una forma di egoismo, una manifestazione di superiore indifferenza. Vi è tuttavia un altro tipo di ironia che fa intervenire il comico per introdurre nascostamente l’etica. L’ironia, elemento interno allo stadio stesso, pone l’esteta all’improvviso in relazione con un’esigenza che ha qualcosa di assoluto. Tende così a dissolvere la falsa infinità dello stadio stesso.
Lo stadio etico
Il primato spetta la dovere. Il simbolo? Il lavoro e il matrimonio. La categoria è la ripetizione, la ripresa. Bisogna personalizzare l’universale, e gli atti attraverso i quali ciò avviene sono il lavoro e il matrimonio. Vi sono situazioni che esigono una rinnovata fedeltà creatrice.
Dovere: non è che l’uomo possa contare sulle dita quali sono i suoi doveri, ma bisogna che abbia sentito una volta per tutte l’intensità della legge morale così fortemente che la coscienza del dovere divenga per lui la garanzia dell’eterno valore del suo essere. L’individuo etico cerca di raggiungere la chiarezza, obbedendo all’assoluto del dovere che diviene il «suo» dovere. Egli cammina verso l’intima coerenza. Il dovere morale diviene il suo dovere personale e specifico ed egli realizza nella propria persona l’unità dell’universale e del particolare: mediante questa sintesi si attua la vocazione personale di ognuno. Bisogna personalizzare la legge morale.
Coraggio: occorre molto coraggio per volere che la propria vita consista nell’appropriarsi in modo del tutto personale di un valore universale. Occorre del coraggio per divenire singoli. Il coraggio consiste nel sostituire all’instabilità dell’estetica la continuità della durata morale: è un rinnovato atto di fedeltà libera e creatrice.
Tre sono le possibili deformazioni dello stadio etico.
a. Presupporre l’identità di virtù e felicità. Grazie a questo presupposto si potrebbe credere che l’uomo virtuoso sia anche felice, ma la virtù richiede sofferenza. Chi accetta questo presupposto potrà essere un egoista raffinato, ma non sarà mai un uomo virtuoso, né felice.
b. La tendenza a confondere l’attuazione della legge morale con il costume, con l’adeguazione al costume e all’opinione corrente.
c. La pretesa di un’autonomia morale assoluta. Se in Kant l’affermazione dell’autonomia morale non esclude una concezione pessimistica della natura umana, in altri presuppone il rifiuto del peccato (male morale) e conduce all’autosufficienza e all’arbitrio.
Secondo Kierkegaard, la conseguenza del pensiero di Kant – nel quale si afferma che l’uomo sia a se stesso la sua legge, cioè si leghi alla legge che egli stesso si è data – è, in sostanza e nel senso più radicale, la mancanza di ogni legge e il puro sperimentale. La legge morale diventerà in questo modo talmente poco seria come i colpi che Sancio Pancia si dà sulla schiena. Se ciò che lega non è qualcosa di più alto del mio e tocca a me legare me stesso, dove allora come A (colui che lega) dovrei prendere la severità che non ho come B (colui che dev’essere legato), una volta che A e B sono il medesimo io?
La zona limite tra l’etico e il religioso è l’humor. Se l’ironia è comica, l’humor è lirico. L’humor è il sentimento del nulla relativo alla temporalità dell’io. Per suo mezzo la serietà della vita è portata alla sua più alta vibrazione. L’umorista non è necessariamente un credente; egli sa cogliere il paradosso non nel suo aspetto doloroso, ma, per così dire, dal di fuori. Non si rapporta egli stesso a Dio, ma mette continuamente in relazione la presunta autosufficienza del moralista e la falsa pace del credente pago di sé con le esigenze assolute di Dio. In ogni caso l’umorista esprime un presentimento, il bisogno non solo di riallacciare il dovere a Dio, ma di non subordinare il religioso all’etico.
Lo stadio religioso
Il presupposto: la coscienza del peccato come condizione. La categoria: l’assurdo e il paradosso, lo scandalo. Il primato della fede. Il simbolo: Giobbe o la prova, Abramo o il movimento nella fede. L’esito: la religiosità della ragione naturale, il cui esponente più significativo è Socrate (A); la salvezza per la fede in Cristo (B).
Soltanto nello stadio religioso si pone il rapporto assoluto con l’Assoluto e l’uomo si eleva a potenza infinita se la misura è Dio.
Più è completa l’idea di Dio, più completo è l’io; più completo è l’io, più completa è l’idea di Dio. Soltanto quando questo singolo io determinato si rende conto di «esistere davanti a Dio» e che qualcosa di eterno vi è in lui, soltanto allora l’io diventa infinito. La qualità dell’io dipende dalla sua misura. «Ogni cosa è qualitativamente ciò con cui viene misurata, e ciò che qualitativamente è la misura, eticamente è la sua meta».
L’uomo che esiste davanti a Dio si sente peccatore. Già la lotta per l’attuazione del dovere morale obbliga il soggetto a riprendere una parte di sé come male; ma l’io che si apre all’Assoluto non si appaga di essere irreprensibile agli occhi degli altri e non si illude di esserlo ai suoi propri, interiormente obbligato com’è all’ubicazione verso Dio di tutti i suoi pensieri e desideri più segreti.
I pagani, compreso Socrate, ignorarono la realtà del peccato, non solo come atto contingente e personale, ma come stato, come condizione dell’uomo in quanto tale, come volontà cattiva e rapporto cattivo con l’Assoluto. Il peccato non è ignoranza, ma posizione e rifiuto. Solo chi conosce il fondo dell’abisso, grida a Dio: «munda me».
Il rapporto negativo con Dio, il peccato come rifiuto a innalzare il proprio io umano alla misura di Dio, l’uomo lo ha compreso solo con il cristianesimo; anche perché solo con Cristo l’uomo è chiamato a vivere un rapporto positivo con Dio, mediante la fede o «certezza interiore che anticipa l’infinito».
C’è anche una fede naturale, della religiosità A. È la fede che aveva Socrate. Socrate, il filosofo al servizio di Dio, è il vertice a cui può arrivare la ragione naturale; ma la religiosità A non può vincere il dubbio e l’angoscia.
Oltre l’aspirazione dell’uomo a Dio (religiosità A), c’è la rivelazione di Dio all’uomo e l’oggetto proprio della fede non può essere che la rivelazione di Dio all’uomo nella persona di Cristo, uomo-Dio, dono e grazia, via e modello di vita, «paradosso essenziale». In Cristo solo Dio è meta e misura dell’uomo (religiosità B).
I simboli della fede, del rapporto assoluto e personale con l’Assoluto, sono Giobbe e Abramo.
Giobbe vive la «prova», che sembra porlo in un rapporto di opposizione a Dio.
Abramo esprime in maniera unica, nell’accettazione dolorosa del sacrificio di Isacco, il «movimento della fede». L’inaudito paradosso del padre dei credenti consiste nel fatto che, per una singolarità d’elezione eccezionale, ma che farà di lui un eroe della fede, il comando divino sembra imporgli una «sospensione dell’etica». Abramo è incommensurabilmente grande perché, colpito proprio nel cuore dall’ordine personale di Dio e lacerato dalle contraddizioni, si affida alla prima e alla più fondamentale di tutte le leggi: «Tu adorerai Dio incomprensibile e gli obbedirai».
In Timore e tremore Kierkegaard scrive: «Mediante la fede io non rinuncio a nulla, anzi ricevo tutto… Ma ci vuole l’umile coraggio del paradosso per afferrare allora tutta la realtà temporale in virtù dell’Assoluto: e questo coraggio è quello della fede. Per fede Abramo non rinunciò ad Isacco; anzi, per la fede, l’ottenne».
L’etica è fondata, trasfigurata e trascesa dal rapporto assoluto con l’Assoluto, non distrutta e calpestata. «Se c’è una sfera religiosa quel che è sospeso non è perduto, ma conservato» e «l’eccezione si trova riconciliata con l’universale».
In conclusione, l’oggetto della fede è assurdo per chi non vuol credere. Prima o fuori della decisione e nell’atto di decidersi, la fede è paradosso. C’è una preparazione alla fede da parte della riflessione filosofica: l’ascesi del pensiero sta nel prospettare, col massimo rigore, la «possibilità dello scandalo» giacché «gli uomini si scandalizzeranno sempre del cristianesimo perché è troppo alto».
CRITICA DELLO STORICISMO
Opere: Briciole filosofiche (1844) e Postilla conclusiva non scientifica (1846).
Kierkegaard si chiede: in quale rapporto stanno il corso degli eventi della storia e l’iniziativa umana? Il possibile, per il fatto stesso di essere diventato reale, è diventato con ciò necessario?
Per lo storicismo hegeliano «togliere di mezzo il finito» è lo scopo dichiarato della filosofia, ma l’esistenza concreta dei singoli e il cammino umano della storia non sono concepibili se si abolisce il finito, il contingente, se la realtà personale e quella storica sono assorbiti dalla necessità del processo globale. La filosofia hegeliana della storia ha distrutto il senso e il valore della storia, l’ha resa inintelligibile facendo di essa la sfera del necessario. Il sistema ha divorato il problema, la cornice ha distrutto il quadro, lo storicismo ha falsificato la storia.
La storia è «l’aperto» per eccellenza; il sistema hegeliano «il chiuso» per eccellenza, nel tentativo di rinserrarla nelle sue ruminazioni pseudo-dialettiche, la rende impensabile, facendone una teofania, un divenire necessario. In realtà non c’è un divenire effettivo se c’è necessità, se l’esistenza e la storia debbono essere pensati sub specie aeternitatis e determinati ad unum. Il necessario non è soggetto al divenire, si rapporta sempre a se stesso e sempre allo stesso modo. Il divenire è, invece, propriamente il luogo della storia. C’è storia perché c’è libertà condizionata, perché la struttura del soggetto umano è il possibile e il fondamento della libertà finita è nella divina onnipotenza.
Ma il possibile, per il fatto di essere realizzato, non diventa necessario? No, risponde, Kierkegaard. Un possibile, nell’essere diventato reale, non cambia essenza, natura; rimane un possibile che si è realizzato. Il reale e il possibile si differenziano tra loro per l’esistere non per l’essenza; il necessario differisce da entrambi per l’essenza. Soltanto perché i fatti storici sono passati, e quindi immutabili, noi scambiamo l’impossibilità nostra odierna di mutarli per un’impossibilità di quel tempo in cui si verificarono e, quindi, trasformiamo degli eventi contingenti in momenti necessari di un necessario divenire globale. Nella storia si deve dire piuttosto: date certe cause, non necessariamente derivano le conseguenze che poi effettivamente si verificarono. Nella storia il passato non ha maggior necessità dell’avvenire. Voler predeterminare l’avvenire e voler intendere la necessità del passato sono una sola e medesima cosa ed è solo questione di moda se una generazione trova l’uno più plausibile dell’altro. Il passato, non necessario nel momento in cui diviene, ancora di meno lo diventa nell’atto di essere interpretato.
Gli storici autentici non riducono l’evento a necessità e sono instancabili nel mettere in risalto le diverse possibilità in gioco nel momento in cui una di esse diventò reale. Nicola Abbagnano osserva: «il concetto hegeliano della storia come di un divenire necessario ha trovato in queste parole di Kierkegaard la sua confutazione più semplice e decisiva».
L’esistenza umana ha una sua drammaticità costitutiva e la speculazione rigorosa rifiuta «la pretesa» di superarla attraverso la «politica» con i suoi inevitabili miti millenaristici come esito finale della vicenda terrena. Quando la scepsi terrena sarà meno presente e alienante, l’uomo riscoprirà più direttamente il suo valore eterno e non si lascerà assorbire dalle bagatelle delle cure quotidiane. Ma in ogni istante, a colui che approfondisce il senso della vita senza lasciarsi assordare dai tamburi della cultura e ubriacare dal chiasso delle ideologie e dalla necessità del corso storico-mondiale in cui si spegne la responsabilità di ognuno, si apre la prospettiva di accogliere la verità di Dio e di vivere da suoi testimoni.1
NOTE
1 Dal paragrafo «La dottrina dei tre stadi della vita» in avanti è riportato il testo di una lezione tenuta il 2 marzo 1987 alla Famiglia universitaria Card. Giulio Bevilacqua – Emiliano Rinaldini.
NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate.