Leibniz e l’unità delle Chiese
La dottrina di Lutero fu per Leibniz un riferimento importante sin dalla sua giovinezza e per tutta la sua vita[1]. Egli stesso testimonia che il De servo arbitrio segnò in modo decisivo l’inizio della sua avventura intellettuale e spirituale: “Quando, ancora quasi bambino, mi aggiravo liberamente nella biblioteca di mio padre, mi imbattei in alcuni libri di controversie. Eccitato dalla novità della cosa e non essendo ancora imbevuto di alcun pregiudizio (infatti imparavo la maggior parte delle cose da me stesso), lessi volentieri tutti quei libri e alcuni li esaminai anche scrupolosamente. Spesso annotavo anche a margine dei libri le mie considerazioni, cosa che talvolta mi creava un qualche pericolo. Mi compiacevo assai degli scritti di Calixtus; avevo anche molti altri libri, sospetti per alcuni, che la stessa novità mi rendeva sufficientemente interessanti. Allora, per la prima volta, cominciai a riconoscere che non tutte le cose che sono dette comunemente sono vere e che spesso si discutono con veemenza delle inanità su questioni che non sono di grande importanza. Dunque, non ancora diciassettenne, intrapresi con maggiore accuratezza la discussione di alcune controversie. Infatti vedevo che la cosa era facile per l’uomo preciso e diligente. Mi erano piaciuti straordinariamente il libro di Lutero sul servo arbitrio e i dialoghi di Lorenzo Valla sulla libertà”[2].
L’apprezzamento della posizione di Lutero sul problema della predestinazione rimane costante nel giudizio di Leibniz. Nel Dialogue effectif sur la liberté de l’homme et sur l’origine du mal, inviato a Dobrzensky, il 25 gennaio 1695, per esempio, Leibniz rinnova la sua ammirazione per “l’eccellente opera di Lutero sul servo arbitrio, che a mio parere è molto buona, purché si addolciscano alcune espressioni eccessive, e che sin dalla giovinezza mi è sempre sembrata il libro più bello e più solido che egli ci abbia lasciato”[3]. Anche nella Teodicea Leibniz ribadisce questa testimonianza personale: “poiché le materie di riflessione mi attraevano tanto quanto le storie e le favole, fui incantato dall’opera di Lorenzo Valla contro Boezio e da quella di Lutero contro Erasmo, pur vedendo bene che esse richiedevano qualche attenuazione”[4]. In numerosi altri luoghi troviamo brevi giudizi, sempre positivi, di Leibniz su Lutero e sulle sue principali dottrine (predestinazione, eucarestia, rapporto fede-filosofia), per lo più accompagnati, come quelli sopra citati, da un benevolo temperamento degli eccessi. Anche rispetto all’ostilità di Lutero per la filosofia, Leibniz, che certo non può trovarsi d’accordo, riesce a dare un’interpretazione ridimensionata in positivo, alla luce dell’evoluzione dell’atteggiamento luterano: “I riformatori, e soprattutto Lutero, come già ho osservato, si espressero qualche volta come se rifiutassero la filosofia e la giudicassero nemica della fede. Ma, prendendolo nel senso giusto, si vede che Lutero non intendeva per filosofia se non ciò che è conforme al corso ordinario della natura, o, forse, addirittura ciò che si insegnava nelle scuole (…). Aristotele fu oggetto della sua ira; e Lutero si proponeva di espurgare la filosofia fin dall’anno 1516, quando, forse, non pensava ancora a riformare la Chiesa. Ma alla fine si raddolcì, e permise che nell’Apologia della Confessione di Augusta si parlasse favorevolmente di Aristotele e della sua morale. Melantone, spirito solido e moderato, formò piccoli sistemi di parti della filosofia, adattati alle verità della Rivelazione e utili nella vita civile: essi meriterebbero ancor oggi di essere letti”[5].
Il giudizio su Lutero, dunque, è spesso accompagnato in Leibniz da una critica degli eccessi e da una ricerca della moderazione. Ciò è certamente attribuibile alla sua adesione alla confessione di Augusta e allo spirito moderato e tollerante di Melantone che l’ha ispirata. Influenti sono stati anche gli ambienti in cui Leibniz ha vissuto e operato: le corti di Magonza e di Hannover, nelle quali egli fu sempre in contatto con uomini di grande apertura mentale e di profondo spirito di tolleranza, come Boineburg o Molanus, e attivamente impegnato nell’opera di conciliazione tra le diverse confessioni religiose. Ma oltre a questi dati storici irrefutabili, si deve risalire a strutture più profonde, non solo del carattere, ma del pensiero di Leibniz, per apprezzare in pieno la ricchezza del suo atteggiamento.
Prima di tentare questa deduzione, consideriamo ancora una serie di dati della vita e dell’opera di Leibniz, attinenti alla sua attività teorica e pratica per favorire l’unione delle differenti confessioni cristiane, che non sono solo un aspetto accidentale e secondario della sua vita e della sua opera filosofica, ma, al contrario, ne costituiscono un interesse e un ambito di applicazione costante e di primaria importanza. Come è noto, Leibniz si adoperò costantemente per la causa dell’unità delle Chiese, tanto nella direzione della conciliazione tra evangelici e riformati[6] quanto nella direzione della conciliazione tra protestanti e cattolici romani[7].
Le lettere al fratello Johann Friedrich dimostrano che sin dalla giovinezza Leibniz si interessò al riavvicinamento tra evangelici e riformati. La sua attività in questo senso si intensifica dopo il 1697, anno in cui l’elettore Federico Augusto I di Sassonia si converte al cattolicesimo e, nella pace di Ryswick tra Luigi XIV di Francia e l’imperatore Leopoldo I, si stabilisce la conservazione del cattolicesimo come confessione religiosa ufficiale nei territori conquistati dalla Francia e restituiti all’Impero. Le Chiese protestanti si sentono minacciate e sono perciò più sensibili a discorsi di riavvicinamento tra loro. Nei suoi tentativi Leibniz trova un grande amico e collaboratore nell’abate luterano di Locum, discepolo di Georg Calixtus: Gerhard W. Molanus. La situazione dell’elettore di Brandeburgo, calvinista regnante su una popolazione luterana, induceva Leibniz a sperare di poter trovare in una comunità di intenti tra la corte di Hannover e quella di Berlino la base politica per rendere efficaci i suoi sforzi filosofici e teologici. Anche se queste speranze non ebbero esito positivo, Leibniz non abbandonò mai i suoi sforzi.
Sulle due questioni dogmatiche cruciali: l’eucarestia e la predestinazione, Leibniz si applicò a lungo, con un impegno filosofico caratterizzato da un profondo senso di tolleranza e di apprezzamento per le differenze, intese come elementi di ricchezza e non di divisione, da una mentalità tesa al superamento delle incompatibilità dottrinali mediante l’esercizio della retta ragione, mirante alla verità, non alle diatribe capziose. I suoi contributi al superamento di tali difficoltà diedero luogo ad approfondimenti filosofici di grande portata: si pensi, per esempio, per quanto riguarda le difficoltà sull’eucarestia, al principio anticartesiano sostenuto da Leibniz della non sostanzialità dell’estensione, che costituirà un presupposto fondamentale della sua monadologia; per quanto riguarda la predestinazione, si pensi alla ricchezza di sviluppi filosofici sui temi della necessità e della libertà prodotti da Leibniz nell’approccio a tale questione.
Anche l’unione della Chiesa evangelica con quella cattolica romana impegnò Leibniz per tutta la sua vita. La sua adesione convinta al luteranesimo ebbe sempre un carattere temperato, aperto al dialogo e vivificato da un’autentica aspirazione alla cattolicità. Leibniz aderì alla confessione di Augusta e, come abbiamo visto nel passo citato più sopra, l’impronta di Melantone lo segnò sin dalla giovinezza, anche attraverso la lettura e l’apprezzamento degli scritti di Calixtus. L’amicizia con Boineburg, ministro dell’elettore di Magonza convertito al cattolicesimo, lo coinvolse molto presto nell’impegno ecumenico. In quella corte egli partecipa al dialogo interconfessionale tra Conring e i fratelli Walenburg. Più tardi, a Parigi, egli intrattiene rapporti intensi sia con i gesuiti sia con i giansenisti e conosce personalmente Arnauld. Dal 1676 Leibniz entra alla corte del duca di Hannover, Johann Friedrich, cioè di un principe cattolico che regnava su una popolazione luterana. Presso questa corte Leibniz prende parte a un intenso dialogo religioso tra cattolici e luterani, insieme a persone della levatura di Molanus, Stenone, Spinola e dello stesso duca Johann Friedrich. L’impegno ecumenico indurrà poi Leibniz a scambi epistolari con Pellisson, con Mme de Brinon e, soprattutto, con il campione del cattolicesimo francese: Bossuet.
Certo l’eucarestia e la predestinazione sono due punti dogmatici importanti anche nel dialogo con i cattolici e Leibniz se ne occupa perciò approfonditamente: si pensi, per esempio, alla discussione sull’eucarestia con il gesuita Des Bosses. Ma, nelle discussioni con i rappresentanti della Chiesa cattolica romana, Leibniz insiste anche su altre questioni, per lui forse ancora più rilevanti. Innanzitutto egli è convinto che nell’unione tra le Chiese è in gioco il valore principale del cristianesimo, la sua stessa essenza, la carità: “Perché lo scisma è un male così grande? Non è perché ferisce così gravemente la carità?”[8]. Il primato della carità è la costante fondamentale della spiritualità giovannea di Leibniz. “La fede è morta senza la carità, che supplisce al difetto della conoscenza”, egli scrive a Mme de Brinon[9]. Per questo motivo, secondo Leibniz, lo scisma non può essere determinato da una mera presa di posizione teorica, ma solo dall’ostinazione del voler fare di quest’ultima un discrimine che condanna ed espelle chi crede altrimenti: “non si scomunicano le persone a causa dei loro errori, ma a causa della loro ostinazione o cattiva disposizione di cuore”[10]. Perciò la responsabilità dello scisma può ricadere anche su coloro che ne accusano gli altri; su questo punto Leibniz si esprime con coraggio, nonostante le evidenti resistenze che può trovare da parte cattolica. In una lettera a Mme de Brinon egli scrive: “Avete ragione, Signora, di giudicarmi cattolico nel cuore; io lo sono anche apertamente: perché solo l’ostinazione fa l’eretico, e di questo, grazie a Dio, la mia coscienza non mi accusa affatto. L’essenza della cattolicità non è la comunione esteriore con Roma; altrimenti coloro che sono scomunicati ingiustamente cesserebbero di essere cattolici loro malgrado e senza loro colpa. La comunione vera e essenziale, che fa sì che noi siamo del corpo di Gesù Cristo, è la carità. Tutti coloro che perpetuano lo scisma per loro colpa, ponendo ostacoli alla riconciliazione, contrari alla carità, sono veramente scismatici: mentre coloro che sono pronti a fare tutto ciò che è possibile per conservare ancora la comunione sono effettivamente cattolici”[11].
In secondo luogo, e non senza connessioni con il primato della tolleranza, Leibniz insiste sul pluralismo e sulla lealtà. Egli propone ai suoi interlocutori una unità della Chiesa, in cui, fatti salvi i dogmi principali, siano permesse delle differenze di culto o di disciplina, come la comunione sotto le due specie, il matrimonio del clero o la liturgia in lingua volgare[12], e in cui le controversie siano approfondite e composte, in un clima di carità e di collaborazione, in un nuovo Concilio effettivamente ecumenico, in cui tutte le parti siano equamente rappresentate e nessuna di esse sia costretta al ruolo dell’accusato. D’altra parte, nota Leibniz, la Chiesa romana tollera già al proprio interno divergenze d’opinione anche su questioni dottrinali rilevanti, come quelle tra gesuiti e giansenisti, come il quietismo e il gallicanesimo[13]: perché non potrebbe tollerare nella propria unità le peculiarità dei luterani, una volta che si appurasse la fede comune sulle verità principali della fede? Egli da parte sua, come abbiamo visto nel passo della lettera a Mme de Brinon, pur luterano, non ha alcuna difficoltà a riconoscersi appartenente alla Chiesa cattolica e a sottomettersi ad essa, purché questo non significhi una rinuncia al proprio spirito critico e alla lealtà alle proprie tradizioni. Come scrive Willy Hellpach, “secondo la sua indole spiritualmente duttile, egli sarebbe certo diventato positivamente cattolico, ma non avrebbe potuto fare ciò che per questo sarebbe stato necessario: abiurare il suo protestantesimo augustano”[14]. Questa osservazione di Hellpach trova una conferma nelle parole stesse di Leibniz, il quale, in una lettera a Mme de Brinon, scrive: “Avete ragione di dire che, nel modo in cui l’affrontiamo, sembra che i cattolici diventeranno tutti protestanti e che i protestanti diventeranno cattolici. E’ proprio ciò che vorremmo. Ne risulterà un misto, se Dio vorrà, che avrà in sé tutto ciò che voi riconoscete di buono in noi e tutto ciò che noi riconosciamo di buono in voi (…). Da tanto tempo ho detto che quando si saranno trasformati tutti i protestanti in cattolici, si scoprirà che i cattolici sono diventati protestanti”[15].
Se dunque la carità guiderà i Cristiani all’unità, le differenze dottrinali potranno essere facilmente superate o tollerate reciprocamente affidandosi alla ragione. Questa fiducia nella ragione, capace di chiarire la verità, è una terza componente qualificante del contributo di Leibniz al dialogo ecumenico. Proprio per questa fiducia nella “retta” ragione Leibniz rifugge sempre dal suo uso polemico e capzioso, che corrompe la ragione stessa ed è responsabile di gran parte delle divisioni e delle incomprensioni. Nel Systema theologicum, per esempio, a proposito della questione della giustificazione, egli scrive: “Sulla conversione dell’uomo, sulla giustificazione del peccatore e sui meriti delle opere buone, sono sorte, nel secolo passato, liti inopportune, a cui hanno dato occasione affermazioni pregiudizievoli di alcuni ed eccessi di altri contro la fazione opposta. Tuttavia ritengo che si possa porre facilmente termine a ciò, se si volesse abbandonare le sofisticherie ed esaminare la questione vera e propria”[16].
La retta ragione, invece, non è mai fonte di confusione e di settarismo, poiché è diretta alla conoscenza della verità e perciò chiarisce e supera le difficoltà e conduce all’accordo. Scrive Leibniz a Mme de Brinon: “E per ciò che riguarda lo spirito filosofico, di cui il Vostro amico vi ha detto che bisogna disfarsi, è come se qualcuno dicesse che bisogna disfarsi dell’amore della verità: perché la filosofia non vuol dire altro che questo. Egli ha forse inteso riferirsi a una filosofia settaria, ma io sono molto lontano da questo modo di filosofare, perché si è propriamente in una setta quando si concede troppo all’autorità degli uomini e alla cabbala di un certo partito”[17].
La retta ragione, secondo Leibniz, è un’autorità suprema, che non contraddice l’autorità della Scrittura e della tradizione, ma nemmeno può essere da essa contraddetta. La ragione finita dell’uomo non può conoscere tutta la verità, ma la verità non può mai essere contraria alla ragione e nessuna autorità può imporre di credere ciò che la ragione smentisce, poiché credere è un atto razionale e non un arbitrio emotivo. In una lettera al Landgraf Ernst, del 1/11 gennaio 1684, Leibniz porta proprio questa impossibilità a sottomettersi ciecamente e contro ragione all’autorità come motivo del proprio rifiuto a convertirsi al cattolicesimo: “Dopo tutte queste dichiarazioni, V.A.S. mi dirà: perché dunque non vi arrendete [scil. non vi convertite]? Ecco la risposta. Può succedere che nella Chiesa, per quanto essa sia infallibile sugli articoli di fede, che sono necessari alla salvezza, si insinuino negli spiriti alcuni altri errori o abusi e che, esigendo il consenso di coloro che desidererebbero essere suoi membri e che credono di possedere una dimostrazione del contrario, li si ponga nell’impossibilità di essere nella comunione esteriore, se vogliono essere sinceri (…). Per esempio, se i santi Padri, che credevano del tutto assurda e anche contraria all’analogia della fede la rotondità della Terra, avessero preteso la sconfessione di questa dottrina dagli astronomi della loro epoca, o se la Chiesa di oggi avesse preteso dai nostri astronomi la condanna del sistema di Copernico: perché è sicuro che ci sarebbero stati alcuni eccellenti astronomi per i quali sarebbe stato impossibile accettare senza dissimulazione, dal momento che l’opinione non è una cosa che dipende dal comando della volontà e che si possa mutare a piacere.
Per tornare dunque a me, vi sono alcune opinioni filosofiche, di cui credo di possedere la dimostrazione e che nella mia attuale posizione spirituale mi sarebbe impossibile cambiare, dal momento che non vedrei il modo di dare soddisfazione alle mie ragioni. Ora, queste opinioni, per quanto, per quel che so, non siano opposte alla Sacra Scrittura né alla tradizione né alla definizione di alcun Concilio, sono tuttavia disapprovate e talvolta anche censurate dai teologi della Scuola, che ritengono che il contrario sia questione di fede. Mi si dirà che potrei dissimulare per evitare la censura. Ma questo non è possibile, perché tali questioni sono di grande importanza in filosofia”[18].
Come ho detto all’inizio, le caratteristiche sin qui evidenziate del contributo di Leibniz all’unità delle Chiese sono espressioni di strutture essenziali del suo pensiero e ciò testimonia della profondità del suo impegno in questa direzione. La modestia e la tolleranza per le idee altrui stanno alla base della mirabile capacità di sintesi della filosofia di Leibniz. Troppo geniale per essere eclettico, egli seppe però accogliere la lezione di un gran numero di pensatori antichi e contemporanei e rielaborarla in modo nuovo e originalissimo nelle proprie teorie scientifiche e filosofiche. Più volte Leibniz enuncia un proprio atteggiamento fondamentale, che, prima ancora che un principio di tolleranza, è un principio di intelligenza: “Ho questa massima generale: disprezzare pochissime cose e approfittare di ciò che c’è di buono ovunque”[19]. Questo, come abbiamo visto, è anche l’atteggiamento adottato da Leibniz nei confronti di Lutero.
In secondo luogo rileviamo che il primato della carità continuamente riaffermato da Leibniz nel suo dialogo ecumenico è un’espressione della più generale importanza della dimensione etica del suo pensiero, talvolta messa in ombra dalla sin troppo insistita evidenziazione del suo intellettualismo da parte degli interpreti. Certo Leibniz, uno dei più eminenti e coerenti razionalisti moderni, ha sempre rifiutato ogni volontarismo o arbitrarismo, divino o umano, e ha sempre testimoniato la propria fiducia nell’indagine razionale e intellettuale della verità, che non può mai cedere il passo alla credenza cieca. Ma la ragione è per Leibniz anche e soprattutto pratica. La “vera pietà”, scrive Leibniz all’inizio della Teodicea, “ha il suo fondamento in una mente illuminata e nella virtù”[20]. La “virtù” è dunque una componente non meno importante che la conoscenza e l’influenza tra l’una e l’altra è reciproca. In riferimento a ciò è molto lucida una considerazione di Cassirer a proposito di Leibniz: “La possibilità e il diritto dell’autonomia intellettuale vanno ammessi in ogni individuo, e ogni individuo ne va ritenuto capace. In questo pensiero sta il vero nocciolo fecondo dell’intellettualismo etico di Leibniz. Sarebbe invece un radicale fraintendimento di questa dottrina attribuirle l’intenzione di trasferire nell’ambito dell’intelletto il metro del valore della personalità. Al contrario, considerata dal punto di vista etico, la conoscenza ottiene il suo valore solo a partire dall’elemento ultimo che abbiamo incontrato nella definizione del pensiero: cioè dalla forza e dalla purezza in cui nella conoscenza già si prefigura la ‘volontà razionale’. Il sapere come dato possesso quiesciente è certo infecondo eticamente: ma questo non è il suo concetto sufficiente e adeguato, neppure dal punto di vista psicologico. Esso va inteso come un motivo che abbraccia e colma la coscienza in tutta la sua ampiezza, e che quindi afferra e determina secondo se stesso anche la disposizione interiore e i fini complessivi della personalità agente. La forza con cui tale motivo e tale tendenza agiscono sul futuro, è relativamente indipendente dallo stadio di conoscenza che si sia attualmente raggiunto (…). L’opinione per cui in tutta l’etica prekantiana l’elemento pratico resterebbe subordinato tout court all’elemento teoretico, richiede pertanto limitazioni essenziali quanto ai fondatori della filosofia moderna”[21].
Il primato dell’etica, dunque, non è contraddittorio, anzi è coerente con il razionalismo di Leibniz. La sua fiducia nella capacità della ragione di superare le difficoltà teologiche e dottrinali e le divergenze tra le diverse confessioni cristiane è espressione della sua più generale fiducia nella ragione come “concatenamento delle verità”[22]. Questa non è certo la ragione nel suo uso sofistico e capzioso, che Leibniz disapprovava in tante diatribe filosofiche o teologiche, ma la “retta e vera ragione”[23], la ragione critica, capace di comprendere e di sostenere la verità. Questa ragione non esclude i misteri della fede, né pretende di annullarli spiegandoli. Leibniz riconosce che vi sono verità superiori alla ragione finita dell’uomo: ciò che non può accettare è che vi siano verità contrarie alla ragione. Per questo la ragione è criterio ultimo e irrinunciabile per accettare le dottrine della fede, ma anche per sostenerle e per superare gli apparenti contrasti di interpretazione che la verità non può tollerare.
Chiunque accosti il pensiero di Leibniz resta stupito dalla versatilità del suo ingegno, che ha origine nella sistematicità autentica della sua razionalità. Egli è il sommo rappresentante di una razionalità moderna, correttamente intesa, che, lungi dall’essere riduttiva e strumentale, è invece la capacità di indagare in modo allo stesso tempo unitario e articolato ogni aspetto del conoscere. Le molteplici direzioni della sua ricerca: logica, metafisica, teologia, matematica, fisica, scienze naturali e storiche, diritto, politica, ecc., procedono in modo coordinato e unitario. L’elemento unificante è appunto la ragione, come metodo, cioè come via giusta e come guida sicura nel progredire verso la verità, in qualunque ambito essa venga ricercata.
In questa concezione della ragione è da ritrovare, infine, anche la capacità di Leibniz di comprendere e di apprezzare l’autentico pluralismo. Quando egli si augura che le diverse confessioni cristiane sappiano ritrovare l’unità nel rispetto delle differenze, esprime ancora una volta una peculiarità profonda del proprio pensiero, tanto più preziosa quanto più è rara nella tradizione cristiana, da sempre ossessionata dall’ortodossia e quindi, per converso, dal problema, apparentemente insolubile, del pluralismo. Per Leibniz l’unità è armonia: questo concetto fondamentale della sua filosofia è parte integrante della sua concezione della ragione ed è il senso profondo di quell’idea di “forma” che egli lascia in eredità alla filosofia e alla cultura classica tedesca. In questo concetto dell’armonia, come “unità nella varietà”[24], Leibniz dichiara di riconoscere il nucleo e lo spirito di tutta la propria filosofia, come leggiamo in un bellissimo passo della sua lettera alla regina Sofia Carlotta, del 8 maggio 1704: “Ecco in poche parole tutta la mia filosofia, molto popolare, senza dubbio, poiché non accetta nulla che non corrisponda a ciò che sperimentiamo ed è fondata su due detti molto popolari: quello del teatro italiano, che altrove è tutto come qui; e l’altro, del Tasso, che per variar natura è bella. Sembra che essi si contraddicano, ma bisogna conciliarli, intendendo l’uno per il fondo delle cose, l’altro per i modi e le apparenze”[25].
In queste righe noi possiamo ritrovare anche lo spirito e il programma dell’impegno di Leibniz per l’unità delle Chiese e il compito che egli consegna ancora oggi a noi.
NOTE
Il testo del prof. Poma non è quello della conferenza del 5 aprile 2019, approfondisce altri temi relativi al pensiero di Leibniz.
[1] Sui rapporti di Leibniz con Lutero e con il luteranesimo, cfr. E.W. Zeeden, Martin Luther und ide Reformation im Urteil des deutschen Luthertums. Studien zum Selbstverständnis des lutherischen Protestantismus von Luthers Tode bis zum Beginn der Goethezeit, 2 Bde, Herder, Freiburg 1950, 1952, Bd. 1, pp.129-150; Bd. 2, pp.169-185.
[2] G.W. Leibniz, Vita Leibnitii a se ipso breviter delineata, in G.E. Guhrauer, Gottfried Wilhelm Freiherr von Leibniz. Eine Biographie, 2 Bände, Breslau 1846; rist. Georg Olms, Hildesheim 1966, Bd. II, Beilage p.57s. Cfr. la lettera di Leibniz a Basnage, del 19 febbraio 1706, in Die philosophischen Schriften von Gottfried Wilhelm Leibniz, hg. von C.I. Gerhardt, 7 Bände, Weidemann, Berlin 1875ss.; rist. Georg Olms, Hildesheim 1960s., Bd.III, p.143.
[3] G.W. Leibniz, Textes inédits d’après les manuscrits de la Bibliothèque provinciale de Hanovre, publiés et annotés par Gaston Grua, Presses Universitaires de France, Paris 1948, T.I, p.369.
[4] G.W. Leibniz, Essais de Theodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l’homme et l’origine du mal, in Die philosophischen Schriften von Gottfried Wilhelm Leibniz, hg. von C.I. Gerhardt, cit., Bd.VI (d’ora in poi = T), p.43; tr.it. di V. Mathieu, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, p.121.
[5] T 57; tr.it. cit., p.139.139.
[6] Cfr. P. Schrecker, Introduction, in G.W. Leibniz, Lettres et fragments inédits sur les problèmes philosophiques, théologiques, politiques de la réconciliation des doctrines protestantes (1669-1704), publiés avec une introduction historique et des notes par Paul Schrecker, Alcan, Paris 1934, pp.5-54.
[7] Cfr. J. Baruzi, Leibniz et l’organisation religieuse de la terre d’après des documents inédits, Alcan, Paris 1907.
[8] Lettera a Mme de Brinon s.d., in Oeuvres de Leibniz publiées d’après les manuscrits originaux, avec notes et introductions par A. Foucher de Careil, Paris 1867ss., rist. anast.Georg Olms. Hildesheim – New York 1969 (d’ora in poi = FdC), t.I, p.179.
[9] Ibidem.
[10] Nota di commento di Leibniz a una lettera di Pellisson, in FdC, t.I, p.183, nota 3.
[11] Lettera a Mme de Brinon del 16 luglio 1691, in FdC, t.I, pp.235s.
[12] Lettera a Mme de Brinon del 29 settembre 1691, in FdC, t.I, p.252.
[13] Cfr. FdC, t.I, pp.253, 306, 345.
[14] W. Hellpach, Leibniz zwischen Luther und Lessing. Theodizee als Christosophie, in Aa.Vv., Beiträge zur Leibniz-Forschung, hg. Von G. Schischkoff, Griphus-Verlag, Reutlingen 1947, p.103.
[15] Lettera a Mme de Brinon del settembre 1693, in FdC, t.I, p.506.
[16] G.W. Leibniz, Theologisches System, Eine möglichst korrekte Ausgabe des leteinischen Textes und dessen Übertragung ins Deutsche; nach dem Manuskript der Staatsbibliothek in Hannover von Carl Haas, Verlag der H. Laupp’schen Buchhandlung, Tübingen 1860; rist Georg Olms, Hildesheim 1966, p.25.
[17] Lettera a Mme de Brinon del 18-28 febbraio 1695, in FdC, t.II, p.87.
[18] G.W. Leibniz, Sämtliche Schriften und Briefe, hg. von der Preussischen [ora Deutschen] Akademie der Wissenschaften zu Berlin, Reichl, Darmstadt 1923ss., Koehler Verlag, Lipsia 1938ss., Akademie-Verlag, Berlino 1950ss., Reihe I, Bd. 4, pp.320s.
[19] Die philosophischen Schriften von Gottfried Wilhelm Leibniz, cit., Bd. III, p.33: cfr. pp.133, 187, 391, 620; cfr. anche G.W. Leibniz, Textes inédits…, cit., t.I, p.103.
[20] Cfr. T 25; tr.it. cit., p.101.
[21] E. Cassirer, Cartesio e Leibniz, tr.it. di G.A. De Toni, Laterza, Roma-Bari 1986, p.318; cfr. anche mio libro 35ss.
[22] T 49; tr.it.cit., p.129 passim.
[23] Ibidem; cfr. T 84; tr.it.cit., pp.171s.
[24] G.W. Leibniz, Textes inédits, cit., t.I, p.12; tr.it.di F. Piro, in G.W. Leibniz, Confessio philosophi e altri scritti, Ed Cronopio, Napoli 1992, p.97.
[25] Die philosophischen Schriften von Gottfried Wilhelm Leibniz…, cit. Bd. III, p.348. La seconda espressione in corsivo è in italiano nel testo.