Quale contributo può dare la psicanalisi in un momento tanto complicato?
Parto dal negativo, ossia da che cosa la psicanalisi non può fare o, forse, la psicanalisi non dovrebbe fare. Stiamo attraversando momenti di grande incertezza, di sbigottimento, di paura e, quindi, la gente ha bisogno di sicurezze, si aggrappa a qualsiasi cosa e, purtroppo, si assiste a un proliferare di interviste, sulla stampa e sui social, di professionisti che sono dediti a fare quello che noi non dovremmo fare: dare la conferma del già noto, del banale, rivestendolo semplicemente di panni un po’ pomposi. Ovviamente dipende da qual’ è l’obiettivo del professionista: se quello che noi cerchiamo è il successo, sicuramente scrivendo quello che il lettore medio desidera sentirsi dire, lo otteniamo, ma magari andando a colludere con le sue illusioni. Questo, però, è il contrario di quello che dovrebbe fare un vero psicanalista, il cui compito è proprio quello di contrastare le illusioni, inquietare, aiutare a mettere in discussione se stessi. Certo che noi come dispensatori di certezze, non siamo i professionisti più indicati. Credo, tra l’altro, che il compito di professionisti esperti dei meccanismi che stanno alla base dei nostri processi mentali, non sia né quello di allarmare né quello di rassicurare, ma sia quello di aiutarci ad affrontare i margini di grande incertezza che la realtà, in questo periodo particolarmente, ci presenta e che noi, a volte, tendiamo a negare. In altre parole il compito nostro credo sia quello di continuare a pensare, e stimolare il pensiero negli altri, anche quando le grandi ondate di panico collettivo ci fanno traballare tutti. Sia quando esercitiamo la nostra professione sia quando ci viene data la possibilità di essere presenti nei media, è utile che noi sosteniamo le ragionevoli speranze che pure esistono in questa difficile situazione, ma senza andare a colludere i dinieghi maniacali che, a volte, alcuni soggetti mettono in atto come riposta alle amarezze che il reale ci offre in questo momento.
Io credo che la psicoanalisi possa essere una preziosa risorsa per approfondire lo studio dei meccanismi di difesa inconsci, sia individuali sia comunitari, e permettere che il contatto traumatico con la nostra finitezza sia tollerato e affrontato nella maniera più utile a tutti, agevolando la presa di coscienza dei gravi problemi con cui oggi siamo costretti a confrontarci e delle sfide con cui ci dobbiamo misurare. E qual è il perché di tutto questo? Perché noi dovremmo avere le carte più in regola che il chirurgo vascolare o il dermatologo per dare una mano in questa situazione? Credo che, sicuramente, come analisti sappiamo qualcosa di più sulla paura rispetto ad altri professionisti, che sappiamo distinguere il dubbio esplorativo dal dubbio catastrofico, ossessivo. Sappiamo anche che alla base delle angosce collettive abitano angosce private e primitive che sono difficili da portare alla luce, radicate in dinamiche pre-mentali del tipo “mors tua vita mea”. È qui che entra e deve entrare in campo la psicanalisi: quando si tratta delle aree più arcaiche della nostra mente, dove domina anche l’aggressività, il bisogno di accaparrarci più che possiamo alle spese dell’altro anche quando i dati oggettivi ci dicono che non ce n’è alcun bisogno (basta pensare alle scene che abbiamo visto in questi ultimi giorni nei supermercati dove si è cominciato con file ordinate e siamo arrivati alle forze antisommossa davanti ad alcuni supermercati a Napoli e a Palermo).
L’inconscio cosa comunica e come lo fa in questo periodo di isolamento e anche in vista del futuro e delle paure che stiamo sentendo in questo momento?
Wilfred Bion, un autore molto importante nella psicoanalisi moderna, ha introdotto il concetto di “capacità negativa”: è quella capacità che l’analista deve avere, di tollerare il dubbio, l’incertezza e non voler assolutamente riempire un vuoto insopportabile con qualsiasi cosa, una capacità chè è però auspicabile anche in altri esperti. Lasciarsi albergare dall’incertezza prima di dare risposte affrettate. Non agisce qualcosa di inconscio nel momento in cui i nostri esperti hanno vacillato così tanto agli inizi di questo fenomeno? Tutti ci ricordiamo per quanti giorni ci è stato detto che la mascherina non serviva. Adesso gli esperti, i politici, gli amministratori, si stanno facendo la guerra su “perché non sono arrivate le mascherine? Dove, quando e chi doveva recuperarle? Perché alcune non vanno bene?”. C’è stato un assessore che si è tolto, in diretta televisiva, la mascherina dicendo che quella non andava bene. Ma in quel momento stava agendo da amministratore o, forse, non stava dando spazio a bisogni narcisistici suoi? E visto che mi è venuto in mente un brutto concetto come quello della guerra, vorrei farle notare qualcosa. Tutti sapevamo cos’è un bollettino di guerra, ma ne abbiamo imparato il significato, dal punto di vista emozionale, in questi giorni: ogni giorno alle 18 quando, col fiato sospeso, aspettiamo la comunicazione dei numeri degli ammalati, dei morti, dei ricoverati. Lì abbiamo capito finalmente che cos’è il bollettino di guerra. L’inconscio in questo momento si fa sentire in tanti modi, soprattutto mettendo in campo dei meccanismi che servono ad arginare la paura. La paura può essere un sentimento positivo quando rappresenta un segnale, perché ci spinge a prendere in considerazione i rischi in cui si potrebbe incorrere nel compiere una certa azione. Però se non è ben gestita comincia ad oltrepassare il livello della vulnerabilità psicologica individuale. E, allora, ognuno cerca di difendersi da questa massiccia ondata di angoscia e preoccupazione ricorrendo a vari meccanismi psicologici. La paura, se non diventa esagerata, è un meccanismo che può servire, può allarmare. Ma ci sono dei meccanismi molto primitivi per non sentire l’angoscia: uno di questi è il diniego, ovvero quella sensazione particolare per cui le persone fanno finta che la cosa non esista. Il diniego è un meccanismo molto primitivo che entra in campo quando la mente ha paura di essere invasa da un sentimento troppo forte. Ad esempio, quando un bambino rimane orfano, subisce una realtà talmente devastante per la sua mente che la tiene lontana, fa finta che non esista. Ma non è un fare finta cosciente, è un fare finta inconscio. Ebbene, quel bambino, se continuerà a reagire così, dopo tanti anni andrà incontro al rischio di sviluppare una depressione. I pazienti più fragili mettono in campo questo meccanismo difensivo, insieme ad altri come la rimozione o la scissione o altre forme di protezione, per arginare l’angoscia quando la sentono intollerabile.
La paura e la morte sono state le grandi assenti dal dibattito per molto tempo, mentre oggi ritornano in modo preponderante nel dibattito e nei social
Abbiamo rimosso la fragilità umana soprattutto di fronte alla morte e alla malattia. Se tre mesi fa avessimo chiesto a qualcuno che abita nella nostra area geografica, nel cuore della civiltà occidentale, da quali pericoli dovesse guardarsi, forse ci avrebbe dato come risposta di sentirsi un po’ egoista di fronte al fatto che in tante parti della terra esistono la fame, le inondazioni, i terremoti. Noi ci sentivamo in un posto sicuro. Forse anche con qualche senso di colpa per questa sicurezza. Ma nel ricco e grasso Occidente pensavamo di avere solo problemi derivanti dall’abbondanza. Non pensavamo che l’irruzione di un minuscolo “essere” avrebbe annullato le barriere, i muri. Quei muri che da millenni danno una falsa sicurezza alle popolazioni (la grande muraglia cinese, il confine tra USA e Messico, ecc.), a cosa sono serviti contro il coronavirus? Nessuno! È un essere dirompente che ha spazzato via in pochi giorni le false certezze. Trump diceva che gli americani non avrebbero avuto problemi, che avrebbero fatto tamponi a tutti, senza rendersi conto di non averli. Boris Johnson sosteneva che non avrebbero chiuso i locali e ora è positivo al coronavirus… L’arrivo di questa situazione ha fatto crollare tutte le certezze su cui basavamo la nostra sicurezza. Siamo diventati di nuovo quell’esserino fragile e indifeso che siamo stati nella prima parte della nostra vita. In tante situazioni traumatiche si sta risvegliando un trauma primitivo, quello che l’uomo prova non riuscendo a sopravvivere a lungo senza la presenza dei genitori. Questa è l’essenza della finitezza umana: non siamo autosufficienti come pensiamo, abbiamo la necessità di dipendere. E questa condizione ci rimane dentro per tutta la vita e forse viene riattivata da tante situazioni come può essere il coronavirus. Il coronavirus ha fatto sì che l’uomo si interroghi su se stesso. Ecco che torna la morte, la fragilità, l’impotenza di questo piccolo esserino fragile.
Sono cambiamenti consistenti quelli che ci aspettano. Per chiudere, le chiedo se, visti questi cambiamenti che hanno rivoluzionato le nostre vite, questa mancanza di certezza nei confronti del prossimo futuro ha qualche consiglio da suggerire.
I nostri esperti danno un sacco di consigli pratici che, a volte, possono anche risultare utili ma diciamocelo francamente: bisogna avere letto Freud per capire che è meglio se non ingrassiamo di dieci chili mentre siamo costretti a stare chiusi in casa e non possiamo neanche fare una passeggiatina post-prandiale? Io non ho consigli pratici, ma sicuramente ci sono delle considerazioni che possiamo fare: ovviamente, c’è la speranza che questo momento possa portare alla riscoperta dell’intimità, di valori primari, di un dialogo costruttivo tra le forze politiche ma anche all’interno della famiglia, dei sentimenti di solidarietà, ma è solo una speranza. I dati, per esempio, ci dicono che in questo momento sono aumentate le violenze domestiche e, in contemporanea, sono diminuite le denunce. Ci troviamo sempre su un crinale in cui le cose possono andare in un verso o in quello opposto. In questo momento, forse, potrebbe esserci utile la rilettura di un saggio del 1929 di Sigmund Freud, in cui parla del Disagio della civiltà e propugna come necessaria la limitazione della libertà individuale nella costruzione della civiltà stessa: per edificare la civiltà dobbiamo rinunciare a una certa libertà pulsionale in cambio di un po’ di sicurezza. Ci possono essere utili queste riflessioni nel momento in cui i governi e le autorità scientifiche ci chiedono di rinunciare a una parte della nostra libertà (di movimento, di contatto) in nome di un bene comune. Alcuni grandi scritti della psicanalisi possono, quindi, tornarci utili nella fase particolare in cui stiamo vivendo.
[1] Graziano De Giorgio è psichiatra e psicanalista è stato intervistato da Valentina Gheda, consigliera della Ccdc. Testo non rivisto dall’Autore.