Giornale di Brescia, 22 aprile 2020
“Tempo sospeso… Sono partito per Praga il 21 febbraio, stavo lavorando a un libro su Kafka. Ero là quando è scoppiato il primo caso a Codogno. Il venerdì sera, quando sono decollato da Malpensa, ho lasciato un Paese che viveva un consueto fine settimana invernale. Quando sono tornato, il lunedì sera, ho ritrovato una nazione completamente ribaltata, capovolta. Da quel giorno stiamo vivendo in questa oscillazione tra il ricordare com’era il “tempo di prima”, le nostre azioni quotidiane, la nostra vita normale, e il pensare a come sarà il “tempo di dopo”, quando ci saremo liberati”.
Giuseppe Lupo così spiega com’è nato “I giorni dell’emergenza. Diario di un tempo sospeso”, il suo racconto della clausura per il Covid-19. In un volumetto agile raccoglie le riflessioni dei 28 giorni trascorsi dalla prima ordinanza di chiusura fino a Pasqua. Scrittore e docente universitario di letteratura, Lupo lo definisce “testo contaminato”, perché intreccia descrizioni di quotidiana vita domestica, nel paese alle porte di Milano dove l’autore vive, con le sollecitazioni che emergono dalle amate letture. Narrazione e saggio.
Intanto il tempo continua a restare sospeso, in oscillazione schizofrenica tra il placebo (“andrà tutto bene”) e l’apocalisse (“nulla sarà come prima”)…
“Tutti all’inizio ci dicevamo: torneremo ad abbracciarci, torneremo a uscire, torneremo ad andare in pizzeria. Cioè, torneremo a fare le cose che prima potevamo fare. La nostra speranza era che questo tempo sospeso, chiuso tra due parentesi, sarebbe durato poco. Invece poi passavano i giorni e questo tempo non finiva. Non finisce. Sono già due mesi e non sappiamo se davvero finirà prestissimo. Il tempo sospeso si dilata… Non so se dopo saremo come prima. Perché, ad esempio, in noi è insorto qualcosa di anonalo: la diffidenza dell’altro. Noi avevamo una naturalezza nei rapporti con le persone che trovavamo in tram, in treno, sul lavoro. Nel “tempo di dopo” saremo ancora così spontanei? Oppure guarderemo chi incontriamo con il sospetto che lui sia quello che ci può far ammalare? E questo è pericoloso perché la tentazione del non contaminarsi con nulla può farci diventare come i Catari, la setta che nel nome della purezza era destinata all’estinzione”.
Da docente universitario, le lezioni a distanza, persino la discussione delle tesi di laurea da remoto, che effetto fanno? Questa “incorporeità” è possibile che sia il nostro destino futuro?
“No. Non è possibile. Paradossalmente nel “tempo di prima”, noi avevamo la voglia di fuggire dal prossimo. Quando stavamo nei luoghi pubblici, l’atteggiamento più naturale era di isolarci un poco. La vicinanza ci dava fastidio. Ora che tutto questo è venuto a mancare, abbiamo iniziato a sentire la nostalgia della prossimità. Ci siamo accorti che l’uomo è fatto per stare insieme. Ancor di più nel campo dell’università. La lezione non è semplicemente io che parlo, che trasmetto nozioni. Un computer lo farebbe meglio di me, in modo più preciso, puntuale e ineccepibile. Il portato umano, che è la voce, la presenza, il modo di muoverti, è indispensabile. Far lezione è emozionare, è trasmettere una serie di cose che stanno intorno alle informazioni che offro, ma determinano negli studenti un clima, un umore, un sentimento. È il sapere del cuore e non il freddo sapere dell’intelligenza artificiale. Più in generale, non si può sostenere un’idea di mondo dove i rapporti abbiano questa distante freddezza”.
Il mondo della cultura – teatri, cinema, musei, editoria – sta vivendo con grande sofferenza questa crisi. Come ne usciremo?
“Sarebbe bello se si riscoprisse il valore della lettura. Che ha un duplice scopo. Da un lato l’evasione: sei circondato dalla morte e cerchi di sfuggire, esattamente come hanno fatto i ragazzi del Decamerone di Boccaccio. Fuggire la morte e la paura attraverso le storie. Le storie salvano. Il secondo scopo è che le storie costruiscono un mondo nuovo. Cesare De Michelis, il mio editore, diceva che la peste del Trecento non l’avevano sconfitta i dottori, ma il Decamerone e il Boccaccio. Da lì iniziavano Rinascimento e Umanesimo. Io penso che il virus abbia colpito il nostro modello di civiltà. Non è soltanto un problema sanitario. Questa epidemia ha colpito il modello in cui siamo vissuti, ci siamo cacciati, perché in due mesi ha messo in crisi l’Occidente, che si credeva intoccabile e indistruttibile. Ci ha svelati nella nostra nudità, nella nostra debolezza. Forse i libri, la parola, la cultura sono gli elementi che ci assicurano un’identità. Non l’economia, che è entrata in crisi, non la scienza, che ora sta brancolando nel buio. L’identità ce l’assicura il patrimonio a cui apparteniamo, che sono i libri, i quadri, le chiese… La bellezza dell’arte è l’unica cosa che non è entrata in crisi”.