Maurizio Faroni: Buonasera a tutti, grazie per aver deciso di partecipare a questo nuovo appuntamento del ciclo di incontri che la Cooperativa dedica a questi tempi incerti, in cui cerchiamo di guardare oltre l’emergenza sanitaria. Questa sera abbiamo con noi Renato Mazzoncini, ingegnere laureato al Politecnico, presso cui oggi insegna. Ha iniziato la sua esperienza professionale in Ansaldo, ma poi ha avuto un percorso da amministratore delegato in numerose società private, pubbliche e miste; in particolare è stato amministratore delegato di Ferrovie dello Stato ed è attualmente designato per il ruolo di vertice di A2A. È stato Presidente dell’Associazione che riuniva le 200 più importanti aziende ferroviarie mondiali, ruolo che ci fornirà l’occasione di capire se, in questa stagione di rilancio del nostro sistema-paese, c’è un’opportunità per riportare le nostre infrastrutture sui livelli che lui ha visto in giro per il mondo. Intanto grazie di avere accettato di partecipare al nostro ciclo. Iniziamo subito con la prima domanda, che ci riporta alla situazione drammatica dal punto di vista sanitario, ma anche dal punto di vista economico. Siamo entrati in questa fase 2, che tutti ci auguriamo sia prodromica a rilanciare una stagione di crescita: il nostro prodotto interno lordo è sceso già del 5% e scenderà ulteriormente nel secondo trimestre. Il nostro debito pubblico sappiamo che, per effetto delle politiche che si sono intraprese, registrerà ulteriori crescite, sopra il 150% del rapporto col prodotto interno lordo. In tutta Europa e in Italia sono state, credo giustamente, attuate delle rapide politiche keynesiane, cioè di forte spesa pubblica; la domanda che tutti ci facciamo ed alla quale tu, meglio di chiunque altro, puoi darci una mano a rispondere, è: questo complesso di interventi che sono stati pensati, attuati, normati e che, con qualche fatica, stanno prendendo corpo sono in grado di aiutarci a riprendere una stagione di crescita per un Paese che già faticava prima della pandemia?
Renato Mazzoncini: Sicuramente, le misure che si stanno adottando, sia a livello di Unione Europea sia a livello italiano, in questo momento mi sembra che abbiano fondamentalmente due obiettivi: un obiettivo è quello di evitare che schizzino gli spread dell’enorme debito pubblico. Su questo direi che le politiche ben avviate da Draghi stanno continuando ed è la ragione per cui, pur in una situazione di evidente criticità, lo spread è tutto sommato sotto controllo. Questo è molto importante perché il secondo elemento, che è quello di fornire liquidità (si continua a parlare della necessità di immettere centinaia di miliardi nel sistema sociale economico, nelle aziende), creerà nuovo debito pubblico. Quindi le due cose sono correlate. C’è comunque una differenza fra avere liquidità e spenderla bene, in modo che per il futuro dei nostri figli non rimanga solo debito, ma rimangano anche infrastrutture e competitività per il Paese. Da questo punto di vista, prima del covid, si stava comunque discutendo su come fare a sbloccare ingenti investimenti proprio nell’ambito pubblico e, sicuramente, oggi tutti parlano di piani keynesiani, in tutta Europa e in tutto il mondo. E’ la classica situazione in cui l’investitore pubblico, lo Stato lancia grandi investimenti in infrastrutture (non necessariamente fisiche, possono essere anche digitali) proprio per dare una mano al rilancio dell’economia. Se ne discuteva già prima del covid, avendo una situazione dell’Italia particolarmente critica in termini di crescita, a prescindere da quello che è successo a livello mondiale. Faccio due esempi, relativi a società che conosco molto bene, perché le ho gestite all’interno del gruppo Ferrovie dello Stato: RFI e ANAS, solo nel triennio 2020-2023, hanno investimenti che possono essere aperti per un totale di 44 miliardi di euro (31 miliardi di RFI e 13 miliardi di ANAS). Molti di questi investimenti, tra l’altro, già finanziati con una copertura a livello di Ministero delle Finanze che supera spesso il 50%. Quindi, è più un problema di procedure, cioè di come gestire gli appalti, di come fare a sbloccare le conferenze dei servizi; non a caso si parla sempre più spesso della necessità di avere dei commissari straordinari delle opere. In questi giorni, abbiamo visto l’inaugurazione di primi manufatti importantissimi come il ponte di Genova e a nessuno sfugge che la velocità con cui è stato realizzato, non comune in Italia, è dipesa in larga parte dal fatto che è stato nominato un commissario straordinario. Potrei citare anche l’alta velocità sulla Napoli-Bari, dove avere un commissario fondamentalmente serve a superare una buona parte della burocrazia che blocca gli investimenti del nostro Paese. Ritengo che sia assolutamente necessario sbloccare gli investimenti pubblici, perché in questo momento noi abbiamo due alternative: o riusciamo a creare lavoro velocemente per le persone, oppure dovremo comunque dar loro un reddito per sostenersi, perché non possiamo avere persone nel nostro Paese che non riescono ad arrivare a fine mese o ad avere i soldi per mangiare. Non abbiamo alternative: o creiamo una situazione in cui posti di lavoro si creano per i grandi investimenti che possono essere lanciati, o questi soldi li spendiamo in ogni caso per la sussistenza, per la sopravvivenza, che anche dal punto di vista della dignità delle persone è un approccio completamente diverso. Bisogna tener conto che ogni miliardo di euro di questi investimenti pubblici, genera un indotto che è più che proporzionale; quindi sbloccare 50 miliardi di investimenti pubblici vuol dire sbloccare più di 100 miliardi di attività di lavoro vero per le persone. Secondo me, dobbiamo muoverci molto in fretta, perché in questo momento le stime dicono che l’Italia rischia di avere nel 2020 un calo del PIL fino a 7-8%. Teniamo conto che è una situazione generalizzata: in Germania alcune previsioni parlano di un calo dell’11%, legato al fatto che il settore dell’automotive è molto importante ed è molto in crisi. Tutti i dati parlano di un rimbalzo nel 2021, quindi della possibilità già nel 2021, per esempio per l’Italia, di avere un rimbalzo positivo del 3%. La cosa fondamentale sarebbe riuscire a far sì che il 2020 davvero non chiuda con un calo del PIL dell’8%, ma che si riesca a contenere nell’ambito del 4-5%, il che consentirebbe, con il rimbalzo previsto nel 2021, di ritornare abbastanza velocemente alla situazione ante-covid (che in Italia non è ottimale, ma comunque è il massimo a cui possiamo ambire in questo momento). Per fare questo bisogna essere molto veloci, cioè bisogna far sì che tutto quello che era già cantierabile, si sblocchi non dal punto di vista delle risorse, che sono a mio avviso disponibili, ma dal punto di vista delle procedure burocratiche, quelle che veramente ammazzano il nostro paese e che stanno rallentando tutto. Io mi auguro che l’unica eredità che rimanga positiva di questo tragico covid, sarà magari la sburocratizzazione di varie procedure tra cui quelle necessarie a sbloccare gli appalti pubblici.
Maurizio Faroni: Sotto questo profilo, visto che questo eterno problema di avere processi decisionali burocratici e amministrativi più rapidi e più efficaci resta sempre sotto traccia e fatica a trovare un approdo strutturale, un’altra leva che a me pare si possa agire con decisione – e qui vengo alla tua esperienza diretta, anche nella prospettiva del tuo nuovo incarico – è quella delle società a controllo pubblico o società miste (con un controllo pubblico-privato) che forse possono, ancor più delle aziende private, superare la logica del breve termine; una logica che, secondo me, ha molto fatto male alla nostra economia ed in generale sul mercato internazionale. Possono farlo puntando effettivamente a progetti e investimenti di ampio respiro, a una trasformazione del modello di business che abbia un orizzonte non ossessionato dei risultati trimestrali. Sotto questo profilo, ti chiedo quindi: le aziende miste o le aziende a controllo pubblico possono essere, mai come in questa fase, il motore di questo cambiamento, insieme agli investimenti diretti del pubblico? E anche rilanciare il livello delle nostre infrastrutture, che qualche decennio fa ponevano l’Italia fra i migliori standard europei-internazionali e oggi, invece, faticano a colmare un gap che si amplia.
Renato Mazzoncini: Mi riferisco alla mia esperienza personale: io sono stato amministratore delegato di aziende e ho amministrato aziende 100% private, 100% pubbliche, o miste pubblico-privato. Non sono completamente d’accordo con la tua affermazione nel dire che le aziende private rischiano di lavorare sul breve termine, mentre le aziende pubbliche o miste no. Secondo me, questo dipende solo dalla qualità del management, perché anche gli imprenditori privati – e spesso in Italia abbiamo famiglie di imprenditori che si tramandano l’attività imprenditoriale di generazione in generazione – spesso hanno visioni di lunghissimo periodo. Quindi, l’importante è avere un management che sia in grado di mettere in piedi piani industriali di lungo periodo e di attuarli con una visione che, purtroppo, non tutti hanno. Può essere diverso il ragionamento quando si hanno fondi di investimento come azionisti, perché i fondi di investimento hanno spesso una logica veramente di ritorno più a breve e, quindi, possono indurre comportamenti un po’ “particolari”. Però, tra i fondi d’investimento e le grandi famiglie imprenditoriali italiane ed europee, c’è una significativa differenza. Forse farei una distinzione piuttosto che tra pubblico e privato, tra grandi aziende e piccole medie aziende, perché nei momenti critici come questi è indubbio che siano le grandi aziende quelle che devono assumersi maggiori responsabilità, quelle che avendo un livello di capitalizzazione maggiore impattano di più sul PIL, quelle che possono e devono assumersi più responsabilità. Parlando per esempio del ponte di Genova: il ponte di Genova lo sta ricostruendo un’azienda come la Salini Impregilo, un’azienda privata, che è l’unica grande azienda di costruzioni rimasta a livello nazionale e, certamente, non possiamo annoverarla fra le aziende che ragionano sul breve periodo. Quindi, grandi aziende, come sono certamente il gruppo Ferrovie dello Stato, Enel, Eni e un’azienda importantissima come A2A, possono contribuire in maniera significativa, perché sono aziende che hanno grandi piani di investimento. Se si va a guardare per esempio il mondo delle multiutility (le quattro grandi multiutility italiane che sono A2A, Hera, Iren e Acea) sono aziende che nel loro piano industriale hanno investimenti nei prossimi 4-5 anni dell’ordine dei 400 miliardi. E sono aziende che a loro volta hanno poi un indotto che genera altri importanti investimenti. Direi che è il momento in cui queste aziende, che peraltro hanno meno problemi di liquidità di quanto ne abbiano le piccole (anche perché per loro è più facile finanziarsi) giocano la partita fondamentale: sia perché sono in grado di mettere in campo investimenti importantissimi e sia perché hanno le competenze tecniche all’interno, tecnico-amministrative, necessarie per gestire questi investimenti. Una grande stazione appaltante che sia in grado di fare investimenti, deve avere una struttura tecnico-amministrativa notevole. Sono entrato in Ferrovie dello Stato nel 2000; nel 2014 aveva rendicontato 2,8 miliardi di investimenti e, nell’ultimo anno che ho gestito, sono stati rendicontati 6,5/7miliardi di investimenti. Per riuscire a gestire una tale mole di investimenti, occorre avere degli ottimi tecnici che siano in grado di fare la parte di progettazione, organizzare gare e quant’altro, e, visto che la burocrazia esiste, anche una parte tecnico-amministrativa rilevante. Per quanto riguarda il secondo aspetto che citavi, cioè il gap tra l’Italia e gli altri Paesi del mondo in tema di infrastrutture, mi permetto in parte di dissentire nel senso che, sulla parte ferroviaria, noi abbiamo una delle migliori ferrovie del mondo. Si contano su due mani i Paesi al mondo che hanno una rete ad alta velocità e, in Europa, le tre principali Alta velocità sono l’Italia, la Spagna, la Francia. Abbiamo una rete ferroviaria che è nettamente migliore di quella tedesca, sia in termini di performance e sia in termini di qualità della rete. È una rete che è stata revampizzata negli ultimi 20 anni integralmente, tutti i 24.000 km. Vedo più critica, invece, la parte dell’infrastruttura stradale (pensiamo a tutto il tema dell’infrastruttura ligure) e questo dipende dal fatto che Anas, che ha gestito per anni come concessionario anche molte autostrade, ma che oggi gestisce 25.000 km di rete nazionale, è un’azienda che è rimasta nel perimetro della Pubblica Amministrazione per molti anni e, solo con l’operazione fatta due anni fa, passando al gruppo Ferrovie dello Stato, ha cominciato a intraprendere un percorso che la rende un po’ più azienda con i principi privatistici. E poi, sulla questione delle gestioni autostradali, è chiaro che c’è un dibattito che va risolto.
Maurizio Faroni: Voglio cogliere alcuni dei tuoi stimoli proprio sul tema pubblico-privato. Condivido pienamente che il valore di un’azienda si misura su quanto è capace di rappresentare, nel suo settore di appartenenza e di competizione, un benchmark positivo, su quanto restituisce del valore che trae dal territorio (sia agli shareholder che agli stakeholder), su quale sia la sua capacità di sviluppo, di creazione di occupazione, di rispetto delle tutele ambientali, che oggi è diventato uno dei fattori critici per disegnare un modello di sviluppo ripensato. Sono pienamente d’accordo anche sul punto che il discrimine non è tanto “pubblico-privato”, ma “ben gestito-mal gestito”. È però evidente che di grandi aziende private italiane, con le dimensioni per gli investimenti che tu accennavi, purtroppo non ne abbiamo moltissime. Le grandi famiglie imprenditoriali italiane hanno normalmente un orizzonte di lungo periodo, ma sono per lo più concentrate in operatori di dimensioni medie e non di dimensioni grandi. Abbiamo quindi bisogno di uscire con un modello ripensato da queste criticità, ripetute, dall’emergenza economico-finanziaria (pensiamo anche come dal 2008 ad oggi sono stati frequenti i fenomeni di tensione dei mercati, delle economie); questa pandemia è stato un esempio ulteriore, da un lato, della globalizzazione dei problemi e, dall’altro, della difficoltà di affrontarli sul piano nazionale. Vorrei, concludendo, che approfondissi anche questo tema, che si ripete giornalisticamente, del ritorno di un ruolo pubblico in economia più esteso, dell’equilibrio pubblico/privato e, più in generale, di un modello di sviluppo che sia ecocompatibile e che dia una prospettiva al nostro Paese di riprendere una posizione di rilievo all’interno dei grandi Paesi manifatturieri internazionali – come pure l’Italia è certamente tutt’ora – senza soffrire, dopo questa vicenda della pandemia del covid-19, di un ritardo nella capacità di rientrare sul mercato e, quindi, di riprendere un percorso in cui tutte le nostre filiere tornino a creare quell’ecosistema positivo che, alla fine, è la radice di molti dei nostri distretti industriali e anche del grosso dell’occupazione produttiva italiana; visto che è bene intervenire con strumenti di emergenza per sostenere il reddito, nei momenti di difficoltà, ma dobbiamo soprattutto creare una prospettiva di dignità del lavoro per tutte le nostre famiglie.
Renato Mazzoncini: Io penso che quando sei nei guai, e adesso siamo nei guai, anche molto grossi, la prima cosa che bisogna fare è aprire la cassetta degli attrezzi e vedere che cosa c’è di buono. Dopodiché, quello che manca bisogna ovviamente procurarselo. Quello che c’è di buono in Italia, secondo me, sono due aspetti: una cultura tecnica, anche ingegneristica, molto sviluppata (abbiamo in Italia, in tutti i settori, degli ottimi tecnici e questa non è una cosa che hanno tutti); e poi abbiamo un sistema regolatorio che io considero molto buono. Cioè un sistema regolatorio, per esempio costituito dalle Authority: abbiamo avuto la prima autorità dei trasporti Europea, abbiamo un’ottima autorità dell’energia; siamo l’unico paese al mondo con la competizione sull’alta velocità. Nessun altro Paese al mondo, che abbia l’alta velocità, è riuscito a farlo come l’Italia, con il risultato che abbiamo dimezzato i prezzi e raddoppiato la frequenza. Quindi, un buon sistema regolatorio è quello che fa funzionare il mercato a prescindere dal fatto che le aziende siano pubbliche o private. Se c’è un buon regolatore, il regolatore è quello che porta lo Stato a controllare e vigilare che il nostro sistema economico-sociale vada nella direzione che si è scelta. Un altro esempio che può essere capito da chiunque: nel momento in cui si sale su un treno, su un autobus regionale, e si paga il biglietto, quel biglietto è stato deciso dal regolatore che ha deciso quanto paga il cittadino e quanti soldi ci mette la regione, il comune o la provincia. Indipendentemente dal fatto che l’azienda che sta fornendo il servizio sia un’azienda pubblica o sia un’azienda privata. Quindi, è indipendente il regolatore che ha deciso che il prezzo del biglietto è quello. E se il regolatore decide che, in tempo di covid-19, si viaggia tutti gratis, indipendentemente dal fatto che sia pubblica o privata l’azienda, il regolatore compensa rispetto al costo standard del servizio e compra per i cittadini un servizio di quel tipo. In Danimarca (che è sempre stato un esempio come welfare per tutti i Paesi del nord) molte aziende sono aziende private e lo stato e gli enti locali comprano, alle migliori condizioni possibili, servizi da queste. Quindi, è vero quello che dicevi tu: in Italia l’imprenditoria privata è molto concentrata sull’azienda media e le grandi aziende nazionali – cioè quelle che dal 2013 ci hanno fatto uscire dalla crisi, a partire dalle grandi aziende, dalle grandi multiutility che ho citato prima – sono tutte aziende che hanno una partecipazione pubblica. Ad oggi ci troviamo in una situazione in cui il nostro Paese è un Paese che nell’economia gestita da aziende pubbliche ha sicuramente un traino formidabile. L’importante è che, visto che c’è un azionista pubblico, questo azionista continui a ragionare anche con una mente proiettata verso il futuro. Noi abbiamo queste due cose molto buone: una grande capacità tecnica e un buon sistema regolatorio, ma quello che veramente ci manca per sbloccare le cose è la burocrazia. La burocrazia oggi, purtroppo, è ciò che ci sta “uccidendo”, che sta rallentando in maniera drastica, ed è ciò che oggi non ci possiamo più permettere. Quindi, credo che tutti i cittadini italiani si stiano augurando che l’unico effetto positivo che possa rimanere da questo covid sia il fatto di demolire – in maniera positiva e mantenendo tutti i controlli necessari – la burocrazia, che è quella che sta effettivamente rallentando il nostro sviluppo economico. Io penso che abbiamo la possibilità già i prossimi mesi di ripartire, vedo in Lombardia grande preoccupazione, grande serietà. C’è consapevolezza che abbiamo di fronte ancora un nemico potentissimo, ma una grande voglia di ripartire dal punto di vista industriale. Credo che se riparte la Lombardia, se ripartono le regioni principali, potremo augurarci di arrivare a un calo del PIL del 2020 un po’ meno critico di quello che oggi realisticamente stanno vedendo gli analisti. E visto che nel 2021 tutti prevedono un rimbalzo, credo che potremo uscire da questo abbastanza velocemente. Non comparo questa situazione al dopoguerra perché, oggettivamente, durante la guerra sono state fisicamente bombardate, demolite le strutture di produzione industriale, mentre qui sono state “messe nel surgelatore”, quindi bisogna riuscire a “decongelarle” il più velocemente possibile, ma le abbiamo.
Maurizio Faroni: Penso che possiamo chiudere con questa nota di ottimismo. La tua visione è che abbiamo le capacità produttive, le infrastrutture di servizio – alcune sulla frontiera di efficienza, altre invece da risanare – e come in tutte le crisi c’è anche un’opportunità; e forse siamo un Paese che, nei momenti più difficili della propria storia, ha mostrato la capacità di reagire facendo leva sul fatto che la nostra economia, le nostre persone hanno ancora un sistema di valori che crede nella capacità di uscire da questo momento così terribile. Penso che le tue parole siano, da questo punto di vista, di conforto.
Renato Mazzoncini: Da ultimo, devo dire che lo strumento con cui stiamo facendo quest’intervista si sta dimostrando potentissimo. L’altro giorno ho partecipato come relatore a un convegno sull’impatto del covid-19 sulla mobilità e si sono collegate 1015 persone. Quindi, abbiamo scoperto che la nostra dorsale internet funziona meglio di quanto ci immaginavamo, abbiamo mandato centinaia di migliaia di studenti in streaming molto velocemente, abbiamo milioni di lavoratori che stanno lavorando in streaming. Tutto ciò è sicuramente un elemento positivo che ci rimarrà.