Francesca Bazoli: Buonasera, siamo qui col grande artista Emilio Isgrò, che ha generosamente corrisposto alla nostra richiesta di aggiungere un’altra riflessione al ciclo “riflessioni per tempi incerti” che ha organizzato la Cooperativa Cattolico-democratica di Brescia insieme, in questo caso, a Fondazione Brescia Musei. Emilio non è solo un artista, ma anche un poeta, uno scrittore, un grande frequentatore della parola. La prima domanda, che mi sembra d’obbligo chiederti, è come hai vissuto tu, artista, un periodo di reclusione di due mesi nella tua casa?
Emilio Isgrò: Mi vergogno di dire che la catastrofe generale che ci tocca tutti da vicino, che sta facendo soffrire molte persone e, quindi, fa soffrire anche noi, io ho avuto la fortuna di viverla meno drammaticamente, perché questa solitudine è la solitudine nella quale vivono normalmente gli artisti. Gli artisti, per creare, hanno bisogno della solitudine. Ed è nel silenzio e nella solitudine che si crea e si pensa davvero. È chiaro che ci possono essere altre concezioni dell’arte, che concepiscono l’arte come visibilità assoluta, come estroversione assoluta, ma io penso che l’artista, in certi momenti, deve saper sparire per portare avanti la forza di una ricerca che gli altri possono condividere, se l’artista non è troppo ingombrante. Perché, se l’artista è ingombrante – o perché gestito male da sé stesso o da galleristi non all’altezza della situazione – allora il gioco non funziona. L’artista deve accettare di perdere. Solo se perde, qualche volta vince. Se no è condannato alla sconfitta sicura. Ci sono sconfitte che valgono più delle vittorie. Gli ultimi versi del dottor Zivago di Pasternak si concludono con delle parole che dicono più o meno così (Pasternak scriveva in una società totalitaria, noi, per fortuna, siamo in una società libera): “Io passo sotto la neve tra la folla moscovita che m’ignora. Da tutti questi io sono sconfitto ed è in questo la mia sola vittoria”. Quindi, solo chi sa perdere, alla fine, vince. Ma cosa significa vincere per un artista? Vincere, per un artista, significa convincere. E convincere significa attivare dei meccanismi intellettuali che riportano l’arte a quelle possibilità conoscitive che l’arte ha avuto, almeno in occidente, dal Rinascimento in avanti, che ha rinforzato negli anni del Romanticismo europeo via via fino alle avanguardie. È questa la prospettiva: l’artista deve acquistare quel lusso della parola – come veniva definito negli anni ‘70 – senza il quale non può pensare; deve riacquisire quel ruolo di intellettuale pensante, che dal Rinascimento è partito proprio dall’Italia. Naturalmente, ci sono altre visioni dell’arte e della realtà. Il mondo è fatto da mille fiori, da mille possibilità. Io, che mi sento un occidentale di taglio europeo, la penso così.
Francesca Bazoli: Ci sono alcuni sociologi che stanno dicendo che questa pandemia è come il segnale della fine della globalizzazione turbo-capitalistica selvaggia. Anche il mondo dell’arte ha subito pesantemente l’intromissione di forze con interessi economici e finanziari che fuori dall’arte trovano le loro ragioni d’essere. Dopo questa pandemia si potrà dire una parola diversa?
Emilio Isgrò: Non credo che sia mutata la possibilità di avere un mondo aperto. Noi lo vogliamo apertissimo, non chiuso. È certamente mutata la possibilità che un assetto rapace, di tipo politico-economico, non si preoccupi di capire che non puoi impoverire tutti i tuoi vicini. Perché si diventa ricchi anche per dare gioia agli altri. Io così vedo l’arte. Dobbiamo condividere la nostra gioia di vivere con le persone che amiamo. E un artista, in genere, non ama soltanto i propri vicini, ma ama sostanzialmente le persone che hanno bisogno dell’arte. Io credo che un ceto medio troppo impoverito si incattivisce e si incattivisce non perché non ha soldi (magari qualche risparmio l’avrà messo da parte e in questo periodo può procurarsi il cibo, non deve andare necessariamente al monte dei pegni per procurare da mangiare ai figli). Ma un ceto medio incattivito è quello più pericoloso per le democrazie, perché di solito fa scelte che io, personalmente, temo per gli assetti democratici del nostro Paese e dell’Europa in genere. La cultura, e l’arte in particolare, ha molte colpe. Bisogna avere spirito di accoglienza: un cristiano deve essere caritatevole – mi riferisco all’Inno alla carità – e accogliente. E, siccome in questo Paese siamo tutti cristiani (anche chi non va in chiesa) cerchiamo, in nome del vecchio Marx, per quel che sopravvive del suo spirito messianico, e nel segno di questo Papa che benedice gli artisti perché “ci insegnano a capire cosa è la bellezza” (che non è soltanto la simmetria greca o rinascimentale, ma è l’autenticità umana, è chiamare le cose con il loro nome), di far tornare l’arte non a decorare il mondo e neppure a sperare di cambiarlo da sola, ma a dare un contributo.
Francesca Bazoli: Tu sei famoso come il grande artista delle cancellature. Nelle cancellature, nel gesto negativo di cancellare la parola, si esprime, in realtà, il tuo grandissimo amore per la parola, perché, nel momento in cui cancelli, affermi. Utilizzi anche le parole, addirittura, per creare l’opera d’arte. Il tuo rapporto con la parola, da poeta e romanziere, è un rapporto assoluto. Ci sono parole curative, in questo periodo, che possono curare l’anima? Ci sono opere che possono curare l’anima?
Emilio Isgrò: Se fossi un laico, direi “liberté, égalité, fraternité”. Se fossi un cristiano, direi “ama il prossimo tuo come te stesso”. Non sto dicendo tutto questo per compiacere certe attese che, in questo momento, chiaramente, sono nell’aria. Perché le persone non ne possono più di morire, non ne possono più di non avere speranza. Del resto, un uomo come Benedetto Croce disse la famosa affermazione “perché non possiamo non dirci cristiani”. Lo sapeva benissimo lui, non era certamente un bigotto, però era italiano soprattutto. Per noi italiani le cose vanno così, non c’è niente da fare. D’altra parte, l’arte, nel momento in cui un Papa afferma la possibilità di un Dio unico, che unisce i credenti di tutte le religioni e anche i non credenti, pensa anche agli artisti. Perché lui sa perfettamente che l’arte è stata la religione laica che, almeno dal Romanticismo, o dal Rinascimento in poi, ha considerato non credenti e credenti, ebrei e islamici, cattolici e luterani, permettendo di trovarsi in una forma di religiosità laica che consentiva agli uomini di dialogare tra loro, indipendentemente dalla religione da essi praticata. Io questo penso dell’arte. Per questo sono contrariato da un’arte che appiattisce i propri valori unicamente sul listino di borsa. Non è questo il suo ruolo. L’arte può valere anche zero. L’arte non ha un prezzo. Come Dio è impagabile, anche l’arte è una delle espressioni della trascendenza umana, comunque la si intenda. Io la vedo così, perché naturalmente ho le mie convinzioni, ma un artista non deve necessariamente esternare queste convinzioni, perché l’artista non ha bisogno di credere in Dio, nasce con Dio. Io conosco molti preti – per esempio i frati di Assisi – che non mi domandano mai cosa penso. Non me lo chiedono, perché sanno che mi metterebbero in difficoltà, perché mi consentirebbero di perdere quella capacità di dubitare, che, paradossalmente, proprio questo Papa ha riportato nel mondo. Oggi dubita chi crede in Dio, non chi non crede.
Francesca Bazoli: Un’ultima domanda: cosa ne pensi della nostra città?
Emilio Isgrò: Finché a Brescia ci sono persone di un certo tipo, c’è da sperare che da Brescia riparta quell’impeto di autenticità umana e di libertà, che coincide in genere con quel senso dell’amore del prossimo che i bresciani hanno dimostrato sempre di avere, anche nelle epoche più buie della loro storia. Penso che il nostro Paese debba rientrare in Europa integralmente, con tutto il suo sud e tutto il suo nord, capace di dare il suo apporto migliore. Quindi, è il caso di lasciarsi alle spalle gli errori del passato, fatti da tutte le parti e guardare al mondo attraverso l’Europa con fiducia. Perché chi crede nell’arte è un uomo ottimista, perché almeno è un credente e i credenti sono ottimisti.
Testo non rivisto dall’Autore.