Denuncia della situazione aporetica nella quale ci troviamo a proposito del bello. Quando abbiamo a che fare con la nozione di bellezza ci troviamo in difficoltà. Da un certo punto di vista, infatti, la bellezza sembra qualcosa che è da sempre dotato di massima evidenza; sul bello ci sembra ci sia poco da dire, poco da definire in termini astratti. Il bello a un certo punto, nella nostra esperienza, sembra manifestarsi in maniera autoevidente. D’altra parte, però, nel momento in cui ci fermiamo a riflettere su che cosa significhi davvero questa nozione, ecco che non sappiamo bene che cosa rispondere. Questa difficoltà riguarda anzitutto il linguaggio ordinario: nel momento in cui cerchiamo una spiegazione di che mai sia la bellezza, magari aprendo un dizionario o un’enciclopedia e pensando di trovarvi definizioni precise e articolate del concetto, finiamo spesso per rimanere delusi. Ma la difficoltà coinvolge infine anche i filosofi e gli studiosi. A questo proposito, mi limito a fare un esempio: il testo probabilmente più influente sul tema, nella storiografia dell’estetica occidentale del ventesimo secolo, è stato scritto da un autore polacco, il grande studioso di estetica filosofica Wladislaw Tatarkiewicz. Il titolo di questo lavoro – pubblicato prima in polacco nel 1976, e poi in inglese nel 1980 – è Storia di sei idee. In esso viene ricostruita la storia delle principali categorie estetiche, e dunque in primo luogo della bellezza; meglio, Tatarkiewicz presenta il divenire di questa nozione nella cultura occidentale, e cerca di ricostruire in dettaglio una fitta ed esauriente trama delle principali definizioni del concetto; egli intende verificare in tal modo se sia possibile ricondurre a unità le principali sfumature semantiche che sono state riconosciute al termine “bello” nel corso dei secoli. Ebbene: alla fine del suo percorso, Tatarkiewicz presenta addirittura una quarantina di definizioni storiche di bellezza; alcune sono piuttosto simili, altre molto diverse fra loro – ma comunque, questo ci interessa, mai pienamente riducibili a unità. “Bello” appare una nozione plurale, vale a dire: nel momento in cui si tenta di passare dalla presunta evidenza di esso alla ricerca di una sua determinazione precisa e univoca, cioè di un confine ben determinato della sua essenza (horon tes ousias, come diceva Aristotele nella Poetica), cominciano i guai. Ci troviamo a fare i conti con un compito quasi improbo.
Storicamente – ciò vale soprattutto per il mondo antico, ma non solo – sembra che la bellezza abbia a che fare con l’immediato rilucere di qualcosa: con un fenomeno luminoso, abbagliante. Per questo Sergio Givone, che è stato citato in apertura dal prof. Ghisleri, ha fra l’altro assimilato l’apparire del bello nella cultura antica alla teofania e alla ierofania, cioè alla manifestazione del divino e del sacro: cosa che in effetti può trovare conferma in molti testi di mitologia e poesia classica. Ma anche nella lingua tedesca moderna, per esempio, c’è stato chi ha voluto sostenere che la parola che significa “bello” (schön) abbia qualcosa a che fare, nella sua radice etimologica, con il verbo erscheinen: cioè appunto “apparire, manifestarsi”. Il bello insomma sarebbe ciò che si manifesta con massimo splendore ed evidenza; ciò che, mostrandosi, costituisce il fenomeno per eccellenza. Del resto, per ritornare nuovamente alla lingua greca antica, è stato osservato che la stessa parola phenomenon potrebbe avere qualche cosa in comune con la radice di phos, ovvero “luce”. Tuttavia si tratta sempre di suggestioni, e in qualche caso anche di etimologie un po’ dubbie: siamo certamente ancora ben lontani da una definizione soddisfacente della bellezza.
Che cosa possiamo fare, allora, per intendere meglio la nozione di bellezza? Io propongo di prendere in esame un suggerimento illustre, che ci proviene da Umberto Eco: il quale è stato, fra le altre cose, anche un grande studioso di estetica, l’interesse per il tema della bellezza attraversa tutto il corso della sua biografia intellettuale. Il breve testo che ora vi propongo è tratto da un libro curato da Eco nel 2004: Storia della bellezza. Nel tentativo di offrire una prima chiarificazione di ciò che sia il bello, Eco afferma dunque:
“Bello” – insieme a […] espressioni consimili – è un aggettivo che usiamo sovente per indicare qualcosa che ci piace. Sembra che, in questo senso, ciò che è bello sia uguale a ciò che e buono, e infatti in diverse epoche storiche si è posto uno stretto legame tra il Bello e il Buono. Se però giudichiamo in base alla nostra esperienza quotidiana, noi tendiamo a definire come buono ciò che non solo ci piace, ma che anche vorremmo avere per noi. […] È un bene ciò che stimola il nostro desiderio […].
Se riflettiamo sull’atteggiamento di distacco che ci permette di definire come bello un bene che non suscita il nostro desiderio, comprendiamo che noi parliamo di Bellezza quando godiamo qualcosa per quello che è, indipendentemente dal fatto che lo possediamo. […] È bello qualcosa che, se fosse nostro, ci rallegrerebbe, ma che rimane tale anche se appartiene a qualcun altro.
Il bello è quindi un attributo: ovvero, in prima battuta, si tratta di un aggettivo che fa da predicato a qualcosa che suscita il nostro apprezzamento. Posta in questi termini, tuttavia, la definizione sarebbe ancora del tutto insufficiente: il bello non è infatti certamente l’unica qualità capace di suscitare il nostro apprezzamento. Se le cose stanno così, che differenza c’è allora per esempio tra il bello e il buono? Anche il buono, infatti, è senz’altro una qualità degna al massimo grado del nostro apprezzamento. Ma allora, come distinguere tra buono e bello? Nel rispondere, la citazione di Umberto Eco si rifà (senza scriverlo esplicitamente) alla concezione della bellezza elaborata e proposta da Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae. Qui Tommaso precisa proprio la distinzione tra la bellezza e la bontà. Il bello, apprendiamo così da Tommaso, è ciò che è degno di un apprezzamento disinteressato. Verso il bene proviamo sempre un certo tipo di interesse: vorremmo per esempio possedere ciò che è buono, farlo nostro, perché riteniamo che questo possa in qualche modo arricchire o migliorare la nostra condizione. Nei confronti del bello abbiamo invece un atteggiamento costitutivamente più distaccato: potremmo addirittura spingerci a dire, suggerisce Tommaso (e con lui Eco), che non si dà affatto bellezza se non viene meno qualunque forma di coinvolgimento interessato, il quale invece caratterizza altri tipi di apprezzamento (per il buono, per l’utile ecc.).
Voglio farvi osservare, con ciò, che con la sua proposta Eco sembra dunque autorevolmente condividere ancora una concezione che si diffuse nella cultura occidentale a partire soprattutto dall’estetica medievale, e che trovò in seguito forte conferma in piena età moderna, con la Critica del giudizio di Immanuel Kant (1790). Si tratta dunque d’un modo di intendere il bello che ha una lunga tradizione storica alle spalle. Anch’esso, tuttavia, potrebbe non rivelarsi del tutto soddisfacente. In qualche modo, tale concezione infatti non sembra rendere piena giustizia a tutte le numerose sfumature di significato che la cultura occidentale, già prima del medioevo e di Tommaso (per esempio nella cultura greca classica), aveva attribuito alla nozione di bellezza. A questo proposito mi limito ad avanzare un esempio. Vi propongo un frammento molto celebre, dovuto alla straordinaria sensibilità poetica dell’unica donna annoverata nel canone lirico della poesia antica: Saffo. Di questi versi ci colpisce la forza con cui la poetessa sembra affermare la sostanziale interdipendenza, quasi l’omogeneità fra ciò che potremmo chiamare in senso lato l’elemento estetico – che concerne propriamente il bello – e l’aspetto erotico – ovvero tutto quel che riguarda l’amore: e tutti sappiamo che l’amore non prevede affatto, per lo più, un atteggiamento disinteressato. Al contrario; eros di solito è ciò che suscita il nostro massimo interesse. Ecco i versi di Saffo:
Uno dice che un esercito di fanti, / altri di cavalieri, altri di navi, / è la cosa più bella sulla terra nera, / io ciò che si ama.//
E questo ognuno è in grado di comprendere: / Elena, che in bellezza superava / tutti i mortali, abbandonò il marito / nobilissimo eroe / e navigò verso Troia e della figlia / e dei suoi genitori non ebbe pensiero, / ma fu Cipride a travolgere / lei nell’amore.
In Saffo emerge così un elemento diverso, rispetto a quanto abbiamo evocato sinora: non è per niente scontato definire il bello come qualcosa verso il quale ci rivolgiamo con puro disinteresse.
D’altronde, nemmeno per uno dei due maggiori filosofi dell’antichità, mi riferisco a Platone, la nozione di bellezza era qualcosa di scontato ed evidente. Essa, anzi, andava conquistata con fatica, liberandosi dalle sue manifestazioni sensibili immediate, e ascendendo verso la sua realtà ideale e pura. Prendiamo un passo tratto da uno tra i più celebri dialoghi platonici: il Simposio, dove Platone va a sua volta alla ricerca della definizione di ciò che è “bello in sé” (ovvero, potremmo dire, dell’idea di bellezza). È stato sostenuto (mi riferisco anzitutto agli studi del filologo Bruno Snell) che uno dei grandi elementi che hanno determinato la capacità della lingua greca di costituire una humus adeguata alla nascita della filosofia è stata la funzione, appunto in quella lingua, dell’articolo determinativo. Posto di fronte all’aggettivo, o al verbo al modo infinito, l’articolo determinativo li trasforma in sostantivi, permettendo così la creazione di concetti universali, come appunto il bello. Ragion per cui, dirà Platone, domandare che cosa sia il bello significa non accontentarsi dell’esempio di una determinata cosa bella (un ente bello fra gli altri). Bisogna risalire a un’essenza che sia in grado di spiegare questa qualità. Tale nozione universale, il bello in sé, viene presentata nel Simposio con queste parole:
sempre è e non nasce né muore, non cresce né diminuisce, e […] poi, non è in parte bello e a volte no, né bello rispetto a una cosa e brutto rispetto a un’altra, né qui bello e là brutto, come se potesse essere bello per alcuni e brutto per altri […] esso stesso, in se stesso, con se stesso, in un’unica forma, eterno, mentre tutte le altre cose belle partecipano (metéchonta) di esso in un modo tale che, pur nascendo, queste altre, e morendo, quello invece non diventa né maggiore né minore e non subisce nulla.
Il bello in sé, dunque, in primo luogo è ciò che permane tale al di là di tutte le sue diverse manifestazioni. L’idea di bellezza, nella sua immutabilità, è quella realtà che permette di attribuire sensatamente alle singole cose particolari una determinata qualità. Le cose particolari possono godere di questa qualità, quindi, non sono esclusivamente e totalmente belle di per sé, nella loro piena autonomia, ma sono belle in rapporto (per esempio) a certi modi di considerarle e non a certi altri. L’idea di bellezza, invece, è bella in quanto tale. Ora, sapete bene che la questione del mondo delle idee in Platone è estremamente complessa, e non abbiamo modo di soffermarci ora a discuterla; ma proprio intorno al tema del bello possiamo capire perché le idee diventino assolutamente essenziali nella prospettiva platonica, quando essa si interroga sulla effettiva possibilità di offrire una definizione convincente delle essenze che giustificano le qualità delle cose.
Per ragioni diverse, tanto il frammento di Saffo quanto l’indicazione del Simposio ci inducono allora a domandare nuovamente se e in che misura il bello possa davvero essere ricondotto in tutto e per tutto a una definizione “purificata” dal desiderio, come quella che proposta da Umberto Eco e che abbiamo citato in apertura. Tanto più che, in una complicata riflessione sull’etimologia delle parole, in un altro dialogo (il Cratilo) lo stesso Platone insinua perfino che la parola to kalòn (“il bello”, appunto) ha addirittura la medesima radice del verbo kaleo, “chiamare”: to kalòn è ciò che ci chiama, ciò che pronuncia un appello e ci attrae così verso di sé. Dunque, gli antichi greci sapevano benissimo che la bellezza ha a che fare con l’appeal. Fin dalle origini del pensiero occidentale il tema della bellezza riguarda l’apparire di qualche cosa che ci attrae: si tratterà allora di stabilire come mai questa attrazione della bellezza per loro avesse ancora esplicitamente a che fare anche con il desiderio, mentre per buona parte della cultura più tarda (fino a oggi: Tommaso, Kant, Eco) le cose non sembrano più stare pienamente in questo modo.
Ma facciamo ancora un passo indietro. Se prendiamo sul serio Tatarkiewicz e la sua Storia di sei idee, notiamo inoltre che ai primordi della filosofia, nell’ambito delle scuole cosiddette presocratiche, il pensiero che si è espresso in maniera più esaustiva e influente sul tema della bellezza sembra essere quello dei pitagorici. Tatarkiewicz ha sostenuto che la concezione pitagorica della bellezza costituisce l’ossatura di quella che egli chiama la “grande teoria” del bello: una concezione che accompagna, in varie configurazioni, tutto il corso della cultura occidentale. In che cosa consiste questa “grande teoria” del bello? In breve, si tratta della convinzione che il sentimento del bello possa essere ricondotto alla regolarità di proporzioni e armonie: i rapporti fra le parti della figura bella possono cioè venir formulati ed espressi in termini numerici (per Pitagora, ricordiamolo, l’arché, cioè il principio primo del cosmo, era da individuarsi nella nozione di numero). Il successo di questa concezione, che attraversa poi tutta la cultura occidentale, sembra essere ulteriormente confermato dal fatto che una concezione simile di bellezza come misura e armonia è stata fatta propria anche dalla cultura estetica moderna. Pensiamoci bene: qualunque buon designer, oggi, sarebbe disposto a sostenere che dentro la realizzazione di un suo progetto esteticamente riuscito c’è anche l’applicazione di una proporzione matematica: cosa che ci riporta proprio alla “grande teoria” dei pitagorici. Esistono del resto forme di proporzione e di rapporti misurabili che sono da sempre capaci di suscitare, nella nostra fruizione estetica, una reazione più incline a cogliere e provare quel sentimento di apprezzamento che appunto siamo soliti chiamare bellezza.
La prospettiva espressa dalla “grande teoria” è anche per questo senz’altro molto interessante. A ben pensarci però, qualora la si intenda a sua volta come criterio unico per la definizione e valutazione di ciò che è bello, essa finisce per apparire anche un po’ scivolosa. Se infatti fossimo davvero convinti che, tutto sommato, il problema della bellezza sia stato risolto una volta per sempre dalla prospettiva della “grande teoria” inaugurata dai pitagorici, ci sembrerebbe anche che il genuino problema filosofico posto dal bello appartenga ormai definitivamente al passato: si tratterebbe cioè d’un problema filosofico risolto. Che cosa sarebbe mai il bello, in questa prospettiva? Bello si direbbe ciò che risponde a un certo tipo di armonia o di proporzione che si può rendere, ottenere o riprodurre attraverso – poniamo – una serie di leggi, di calcoli, di operazioni numeriche, che sono a loro volta riproducibili in modo indefinito; e che quindi, in quanto tali, potranno essere adoperati altrettanto indefinitamente per suscitare e destare in noi certe reazioni, certe emozioni, che sono appunto quelle che corrispondono al sentimento della bellezza. Conseguenza ultima di questo stato di cose sarà però allora proprio quanto ricordato dalla citazione proposta all’inizio del nostro incontro: ricorderete, vi si parlava del fatto che la nostra società, la nostra cultura, sembra in qualche modo stare oggi sotto il segno e insieme anche sotto la tirannia della bellezza – di una certa idea omologata di ciò che dev’essere bello.
Ebbene, mi approprio ora della tesi di Sergio Givone e la ripropongo in maniera se possibile ancor più provocatoria: a me sembra che, per molti versi, la nostra cultura abbia fatto dell’imperativo della bellezza e della capacità di normare, attraverso pattern e modelli predefiniti, un must al quale non ci possiamo sottrarre se non con grande fatica, e che comunque non possiamo permetterci di ignorare. Questo stato di cose, tuttavia, lungi dal costituire una risposta definitiva alle questioni filosofiche poste dalla bellezza, mi pare determini anzi l’aggiunta di ulteriori problemi, e di portata enorme, alla nostra domanda iniziale. Infatti, che cosa significa vivere in una società nella quale l’imperativo estetico è diventato qualcosa di obbligato? Significa trasformare l’esperienza della bellezza in una sorta di canone necessario, rispetto al quale chi non vi si conforma è considerato inadeguato, out. Inutile che vi ricordi che tutto ciò finisce spesso per avere conseguenze assai gravi (basti pensare, in questo senso, alle patologie che questo conformismo estetico comporta sul piano dei disturbi dell’alimentazione). In base a imperativi estetici di questo tipo, veniamo cioè spinti più o meno forzatamente a conformarci a modelli che sembrano essere stabiliti come giusti e che spietatamente non ammettono eccezioni di sorta: questo è il problema. Quando si pensa di poter semplicemente matematizzare la questione della bellezza, adeguandone la definizione a canoni e criteri che sono stabiliti una volta per sempre, e che dettano legge come se fossero quelli giusti, il canone estetico diventa un imperativo rispetto al quale o sei dentro o sei fuori; rispetto al quale, cioè, non puoi fare altro che adeguare il tuo modello di vita, la tua figura, il tuo stile e il tuo corpo, se non vuoi essere giudicato fin dall’aspetto come un perdente. Si tratta evidentemente di modelli che, nella loro dimensione pubblica e (in senso lato) politica, intervengono a plasmarci non solo in superficie, ma intaccano in profondità il nostro essere.
Un pensatore come Plotino (il primo e più importante dei filosofi della tradizione neoplatonica), quando parlava di bellezza, usava un’espressione molto suggestiva: scolpisci la tua statua! Anche per Plotino, dunque, il nostro compito è quello di “scolpire” la nostra statua: di costruire noi stessi nel segno della bellezza. Ma Plotino sosteneva che bisognava farlo alla luce di una bellezza si altro tipo, concepita appunto sulla scorta di Platone. Se invece interpretiamo l’esortazione alla bellezza (scolpisci, cioè costruisci l’immagine, il tuo look) quasi fosse il Diktat di un ideale normativo, come sembrano fare molto spesso le sollecitazioni della comunicazione in cui simo quotidianamente immersi, ecco che “scolpisci la tua statua” diventa un comando quasi insostenibile e si trasforma nella pretesa di plasmare in modo uniforme le nostre anime e i nostri corpi, omologandoci a modelli esteriori. La ricerca di standard e criteri in grado di stabilire scientificamente ciò che può/deve piacere e ciò che non può/deve piacere ha, come potete vedere, una potente ricaduta tecnica ed economica.
Il discorso diventerebbe, a queto punto, estremamente complicato: non abbiamo il tempo per approfondirlo. Mi limito a ribadire che, se accettiamo questa riduzione del bello, andiamo incontro a una conseguenza pericolosa: rischiamo di doverci acriticamente conformare a modelli secondo cui, quando sperimentiamo la bellezza, lungi dal fare un’esperienza di arricchimento e di libertà, facciamo piuttosto esperienza di depotenziamento, frustrazione, alienazione. In questo modo va smarrito tuttavia proprio quello che, nella tradizione filosofica occidentale, mi pare costituisca il cuore più interessante della riflessione sulla bellezza, ossia ciò che grandi filosofi (appunto i pitagorici, Platone, Plotino, Tommaso, Kant, Hegel…) hanno sostenuto dalle prospettive più diverse, eppure quasi unanimemente: cioè che il bello non può essere compreso fino in fondo, se la sua esperienza non viene affiancata all’esperienza irriducibile della libertà. (Ecco perché è tanto difficile definirla, l’esperienza della bellezza!). Tale aspetto è espresso in maniera esemplare ancora da Kant nella Critica del giudizio: quando scrive questo testo, in piena età moderna (1790), Kant si preoccupa certamente di elaborare una trattazione rigorosa del bello, capace tuttavia – a mio modo di vedere – di rende in maniera eccellente la ricchezza della sua riflessione rispetto al potenziale di libertà implicito nell’esperienza della bellezza.
In che cosa consiste per Kant la fondamentale distinzione tra i giudizi determinanti e i giudizi riflettenti? Ricorderete forse che i primi, cioè i giudizi determinanti, sono quelli che ci dicono come stanno le cose del mondo, ossia com’è possibile attribuire certe qualità agli oggetti fenomenici. Quando dico per esempio: “questo bicchiere è azzurro”, l’affermazione è per Kant resa possibile dalla struttura della nostra mente, la quale attua un’operazione di sintesi che permette di unificare un predicato P a un certo soggetto S. Se pronuncio un giudizio come “S è P”, ciò – perché l’affermazione sia teoreticamente sensata – deve avvenire quindi secondo una modalità che non sia casuale, ma che corrisponda a leggi universali e necessarie, le quali possono essere verificate, o meglio falsificate, in maniera scientificamente attendibile. Un conto però, dice Kant, è stabilire il corretto ed effettivo colore di questo bicchiere; un altro conto è invece attribuire ad un oggetto un attributo assolutamente peculiare come il bello. Infatti, quando noi attribuiamo il predicato della bellezza ad un determinato oggetto non stiamo affatto pronunciando un giudizio determinante; non stiamo cioè attribuendo a quell’oggetto una definizione resa possibile dal fatto che la nostra mente possiede una legge universale della bellezza che si impone sulla nostra esperienza. Le cose sono molto più complicate, nel giudizio sul bello, perché il bello per Kant non è affatto una qualità oggettiva come le altre. Perché mai un certo oggetto suscita in noi un sentimento di bellezza, secondo Kant? Ciò dipende dal fatto che il “bello” non è una nozione data una volta per sempre al modo di una categoria o di un concetto universale e sempre valido allo stesso modo, ma nasce dalla relazione unica, di volta in volta particolare, che noi come soggetti concreti abbiamo con gli oggetti che ci si presentano e di cui facciamo esperienza estetica. La peculiarità che differenzia allora i due tipi di giudizi distinti da Kant è che quando abbiamo a che fare con un giudizio determinante non possiamo che applicare una legge data (e non farlo sarebbe semplicemente sbagliato); mentre quando abbiamo a che fare con un giudizio riflettente, ossia con un oggetto che scucita in noi un sentimento di bellezza, quel rapporto tra soggetto e oggetto è in realtà una relazione che di volta in volta nasce perché, secondo Kant, noi ci riconosciamo (ossia riusciamo in qualche modo a rispecchiarci) in quell’oggetto. Nel campo del bello non esistono un giusto e uno sbagliato stabiliti in base a criteri a priori. In tal senso, il giudizio estetico per Kant è piuttosto riflettente: appunto perché permette il riflettersi di qualcosa di noi in quella determinata rappresentazione d’una certa cosa.
Questa operazione riflessiva, che Kant argomenta appunto nella prima parte della Critica del giudizio, è però un’operazione che non possiamo comprendere appieno se non proprio all’insegna della libertà: ovvero, ripeto, del fatto che non stiamo applicando una legge che è sempre valida per tutti, e alla quale siamo per così dire vincolati, ma che stiamo piuttosto liberamente costruendo una relazione che di volta in volta può essere individuale e valida per ciascuno. Il sentimento che nasce in questo modo esige tuttavia anche di essere poi condiviso con i nostri simili; ecco perché è importante che noi non facciamo del bello qualcosa di puramente individuale e soggettivo. Quando riusciamo a comunicarlo ad altri, e proprio su questa condivisione di qualche cosa che ci appartiene come nostra esperienza particolare, nasce ciò che Kant chiamava una “comunità estetica”. Qui ciò che ci tiene insieme non è soltanto la legalità di una norma che vale dogmaticamente una volta per sempre e per tutti, ma è appunto un sentire condiviso con i nostri simili, e in questa spontanea e piacevole adesione ne va della nostra socialità e della nostra umanità.
Oggi, lo abbiamo ripetuto più volte ormai, ci troviamo spesso a fare i conti con una dimensione pubblica che riguardo alla bellezza sembra spesso incline a imporre norme e canoni, la cui trasgressione può determinare perfino forme di patologia o di esclusione dal sociale. Proprio per questo, ritengo che forse avremmo ancora qualche cosa da imparare da Kant, da Platone e da questa grande tradizione filosofica di riflessione sulla natura peculiare del bello: essa ci ricorda che, quando noi parliamo filosoficamente della bellezza, non abbiamo a che fare con la semplice applicazione di un qualcosa che è garantito (ma anche imposto) una volta per sempre, ma piuttosto con la creazione, la rigenerazione di un rapporto con le cose e con il mondo, che è affidato all’utilizzo responsabile e condiviso delle facoltà della nostra mente. Ecco perché, in conclusione, la riflessione sulla bellezza non si può nemmeno ridurre a quell’ambito disciplinare ristretto della filosofia che siamo soliti chiamare “estetica”: le sue implicazioni riguardano in generale anche il modo di stare al mondo dell’essere umano, ovvero l’etica. Una delle più grandi interpreti della Critica del giudizio di Kant, la filosofa Hannah Arendt, leggeva quell’opera addirittura come un libro di teoria politica: non perché in essa fosse contenuta una teoria dello stato o una definizione precisa di che cosa sia un’istituzione, ma perché vi è descritto un principio fondamentale della creazione della comunità umana: ovvero ciò che permette l’instaurarsi di quella dimensione in cui l’essere umano non sia considerato solamente alla stregua di un automa, nella sua alienazione, possa preservare l’esercizio della propria costitutiva – e condivisa – libertà.
Nota: Trascrizione, rivista dall’Autore, della conferenza tenuta in data 30.4.2021.