Il discorso sul bene non è facile da sintetizzare senza banalizzarlo. Questo vale, in maniera particolare, per una riflessione sul bene, perché le idee filosofiche fondamentali sono semplicissime e proprio per questo difficili da esplicitare. Quando Agostino, nell’undicesimo libro delle Confessioni, inizia un’indagine, che è diventata paradigmatica, intorno al tempo, si fa strada attraverso questa espressione, io so che cos’è il tempo finché nessuno me lo domanda, ma se volessi spiegarlo ad uno che me lo domanda non lo so più, questa espressione di Agostino a maggior ragione la potremmo anche usare in ordine al tema del bene. Perché è così difficile esplicitare ciò che è semplice? La cifra del bene disegna un orizzonte originario, che oltrepassa e precede tutte le rappresentazioni concettuali, con le quali noi cerchiamo di raffigurarlo e in qualche caso ci illudiamo di oggettivarlo. Certo il buono appartiene a un ordine di apprezzamento che segna in profondità la nostra vita morale, perché l’etica prima di tutto è dentro la vita. Quella che i filosofi elaborano è una buona etica, nella misura in cui è elaborata a partire dalla vita e dunque l’incontro con il bene è un incontro che avviene primariamente nell’ordine del vivere e che tuttavia, attraverso la riflessione filosofica, noi cerchiamo di esplicitare e di rappresentare. Questo da un certo punto di vista spiega perché la vita buona non è di per sé sempre attribuibile alle persone più colte, più istruite, la vita buona è la realizzazione di un fine al quale la persona umana si dedica con tutte le sue energie, anche se ciò non toglie che una riflessione di secondo livello possa essere e debba accompagnare questo cammino. Il maratoneta che vince una medaglia d’ora alle olimpiadi, può vincere quella medaglia senza conoscere il nome dei muscoli che mette in movimento durante la corsa, non è necessario essere un medico sportivo per vincere la maratona, però la medicina sportiva aiuta a leggere dentro la dinamica della corsa, aiuta a ottimizzare alcuni movimenti e quindi ci deve essere un circolo virtuoso, un circolo buono, tra il piano del vivere e il piano della riflessione. Dunque, avvicinarsi al bene a partire da questa premessa spiega perché non riusciremo mai a produrre la formula chimica del bene, l’algoritmo del bene appartiene alla mente distorta di qualche ingegnere un po’ folle, ma non è possibile scrivere l’algoritmo del bene, in una prospettiva radicale potremmo dire che l’algoritmo del bene coincide con Dio. Alcuni filosofi ci hanno lasciato una visione paradigmatica, che noi chiamiamo classica, e una di queste definizioni ormai classiche cioè perenni (classico non vuol dire vecchio vuol dire attuale), è quella di Aristotele, la quale indica che il bene è giustamente definito come ciò a cui tutto tende, il bene è il termine finale, è l’oggetto del desiderio, non del bisogno, che raffigura una immediatezza epidermica, immediata. Il bene è l’oggetto del desiderio al suo massimo livello, rispetto al quale la persona umana non può considerarsi come uno spettatore disinteressato. L’essere umano non può guardare il bene come uno spettatore al cinema si vede un film western, questo perché c’è un rapporto auto implicativo, in cui il soggetto si sente messo in discussione, non riesce a disimparare il bene, neutralizzandolo come un oggetto da ammucchiare insieme ad altri oggetti dentro una vita disordinata. Il rapporto con il bene è un rapporto di elevazione, ma è anche un rapporto che è costantemente accompagnato da una controfigura negativa alla quale diamo il nome di male, gioire e soffrire, sono i riscontri esistenziali che ci lasciano intendere come la differenza tra bene e male non è una differenza che può lasciarci indifferenti. Nel corso della storia abbiamo concettualizzato la differenza tra bene e male con parole diverse, a volte abbiamo collocato l’asticella delle nostre azioni morali, dentro una cultura, a livello un po’ più alto, una stessa azione, in un’altra epoca, può essere collocata ad un livello un po’ più basso, così come l’anatomia ha imparato a conoscere i muscoli dell’atleta, che corre la maratona, in modo sempre più preciso, a volte sbagliando, a volte azzeccandoci in maniera più precisa, il maratoneta se vuole può continuare a tagliare il traguardo a prescindere da queste oscillazioni scientifiche. La differenza morale si presenta a noi con una relativa oscillazione interna, ma, nello steso tempo, con una differenza molto netta fra gli estremi, a volte alle cinque del mattino non siamo in grado di dire se è giorno o notte, ma non possiamo avere la stessa esitazione quando ci chiediamo se mezzogiorno è giorno o mezzanotte è notte, la graduazione intermedia non deve impedirci di confondere gli estremi, così come non siamo disposti a confondere l’inferno di Auschwitz con il paradiso di una vita appagata, circondata da amici, secondo una scala positiva che va dalla buona salute alla piena libertà. Da un altro punto di vista, però, dobbiamo provare a scrivere un identikit del bene e io lo farei segnalando almeno tre aspetti positivi: 1. il bene si presenta a noi come il fondamento che porta a compimento, cioè come un principio primo, incondizionato, che oltrepassa l’orizzonte del volere, del conoscere, per questo è oggetto del desiderio, è fine di ogni aspirazione umana, è tensione promozionale verso il compimento. Per questo noi diciamo che non è buona una vita malata, né a livello personale né a livello planetario, non è buona una vita menomata, impedita, abbruttita, mentre è buona una vita nella pienezza della sua fioritura. Il bene come compimento. 2. Il bene è ciò che accomuna, il bonum diffusivo di cui parlavano i latini, indica un orizzonte che unifica e include e su questa strada nasce la nozione di bene comune, ovvero del bene che accomuna, che non è un altro bene, ma il bene considerato soprattutto nella sua dimensione sociale. Il bene comune non è una somma di egoismi individuali, un club di ciechi non produce un soggetto che ha la vista, una somma di egoismi individuali genera un egoismo estremo, il bene comune è la qualità della relazione dei soggetti che si riconoscono accomunati da un medesimo fine, per questo noi diciamo che non è buona una vita solitaria, una vita fondata sulla prevaricazione, sull’ingiustizia, una vita privata della relazione. Questo termine che oggi gode di buona stampa, l’etica privata, la vita privata, nasce nel pensiero antico in senso negativo, la vita privata è una vita che è privata della partecipazione alla vita pubblica, una vita alla quale manca la dimensione della comunità, per questo non è buona una vita che si isola. Il corona virus ce lo sta insegnando, nemmeno a livello biologico possiamo pensare di scamparla dal covid, lasciando che il virus circoli indisturbato in India o in Brasile, perché quella circolazione produce mutazione e, anche a livello biologico, ci arriva questo segnale; dove c’è divisione c’è la controfigura del bene, dove c’è inclusione c’è la cifra del bene. Il bene che accumuna. 3. Il bene è il vero amico della libertà, purché il bene non venga inteso come estrinseco, cioè come un peso che qualcuno mette arbitrariamente sulle spalle di un altro, quello non è il bene, ma un’imposizione mascherata, la brutta copia del bene. Del bene si gioisce, perché il bene è il valore aggiunto della libertà, la libertà che sceglie sé stessa è vuota perché si dimentica che noi possiamo anche essere schiavi di noi stessi, il tossicodipendente o l’alcolista cronico che continua a dire smetto quando voglio, sappiamo bene che esprime il massimo della sua impotenza; dunque, il bene non è piombo nelle ali della libertà, il piombo deriva da un oggetto insufficiente che noi scegliamo al posto del bene. Lonergan in una grande opera intitolata Insight ha scritto: essere solo un uomo è ciò che l’uomo non può essere, se volesse essere soltanto uomo costui deve essere di meno. Quindi un identikit molto provvisorio ci dice del bene, che porta a compimento la vita, che ci mette in una relazione di vita comune con gli altri, che ci insegna la mappa verso la libertà. Potremmo rovesciare il discorso e cercare una controprova in negativo, il male non è ciò che porta a compimento, il male è mortificazione, nel senso di ciò che porta alla morte, se noi pensiamo alla patologia che è alla base del coronavirus troviamo esemplificata in forma biologicamente tragica questa dialettica, quando il coronavirus ha la meglio su un organismo, nel senso che destabilizza tutte le sue funzionalità, a cominciare da quelle respiratorie, quando il coronavirus crede di aver vinto la sua battaglia su quell’organismo, esso muore e muore di conseguenza anche il virus. È la dinamica patologica che si può esemplificare anche con il cancro, la vittoria del cancro sull’organismo è la morte del cancro; quindi, il male non è mai dalla parte della vita, ma è sempre dalla parte della morte, non va mai in goal, è sempre un autogol. In secondo luogo, se il bene è vita comune, il male è fondato sull’esclusione, sulla divisione, la privazione, il male non è il potenziamento della libertà, è la prigione della libertà, mentre ti promette quello che vuoi il male ti ruba quello che sei. Se noi portiamo male e bene a livello estremo, un tratto di questa estremizzazione è la gratuità; attenzione, la gratuità non è solo il segno del bene, c’è anche il male gratuito, il male fatto senza alcuna giustificazione, per il gusto diabolico di nuocere, la gratuità dice, come bene e male nella loro realtà più radicale non possono essere sottomesse, sottoposte al capestro delle convenienze occasionali e nemmeno alle fluttuazioni del sentimento, alle fluttuazioni intermittenti del mi va, non mi va. Qui cogliamo una cesura piuttosto forte che si determina tra il pensiero antico e medievale e quello moderno, per il pensiero antico e medievale il rapporto con il bene era un rapporto che si sviluppava dentro una visione teleologica, una visione secondo la quale la vita è un cammino verso un fine, verso un tèlos, dentro questa visione il bene è un centro di gravità permanente, cioè una forza attrattiva. Nell’epoca moderna, quanto più si indebolisce, si diversifica la fiducia nella intelligenza umana, nella capacità dell’intelligenza umana di sintonizzarsi con l’ordine del bene, tanto più tendono a prevalere etiche di tipo deontologico, fondate sul principio del dovere. Per il mondo classico il bene era una forza che chiama la vita alla sua realizzazione, per il mondo moderno, sto ovviamente estremizzando, le eccezioni non sono tanto numerose quanto le regole, quanto più viene meno la fiducia di cogliere il bene come fine, tanto più ci si accontenta di un’etica costruita sulla forza imperativa del dovere, che si applica alle singole azioni morali. Di questa svolta un autore vivente scozzese, MacIntyre, in un’opera che ha segnato la nascita di un nuovo orientamento filosofico, intitolata Dopo la virtù, l’autore ci aiuta a capire questa svolta nel modo di concepire il bene in epoca moderna. Per il pensiero classico il bene e il male indicano gli estremi di una scala morale dentro la quale noi siamo, la nostra libertà consiste nel collocarci dentro questa scala ad un livello un po’ più alto, con azioni più buone, ad un livello un po’ più basso, con azioni meno buone. L’uomo moderno è convinto di poter usare la sua libertà, non solo per muoversi dentro questa scala, ma per scegliere la scala, cioè io posso decidere di agire, di costruire la mia vita morale collocandomi dentro la scala del bene e del male, oppure posso decidere di agire in termini di altre scale, per esempio la scala della convenienza, che è quella dell’utile, oppure la scala estetica, che è quella del sentire. MacIntyre fa un esempio simpatico: Bernard Russell ha raccontato come un giorno, nel 1902, mentre andava in bicicletta si accorse all’improvviso di non essere più innamorato della sua prima moglie e a questo episodio seguì subito la rottura del matrimonio, Kierkegaard avrebbe detto, a ragione, che qualsiasi sentimento la cui assenza può essere scoperta con una illuminazione improvvisa, andando in bicicletta, è solo una reazione estetica e che un’esperienza del genere non può influire sull’impegno che il matrimonio comporta, sull’autorità di certi precetti morali, ma il problema è che l’uomo moderno, dice MacIntyre, può decidere di scegliere l’etico, oppure l’estetico, oppure l’economico, come oggetti di scelta e può decidere di costruire la sua vita dentro questa scelta. Qui cambia l’orizzonte della libertà, dentro questo contesto il bene non è più l’orizzonte alla luce del quale io mi colloco e valuto il mio agire, il bene diventa un oggetto nelle mie mani e questo spiega almeno due diversi modi di intendere il bene nel pensiero contemporaneo: da un lato una interpretazione riduzionistica del bene, che lo identifica con un oggetto naturale, l’ambiente, lo zono, l’acqua, il benessere, la salute, che non sono certamente male, sono beni naturali, ma nel rapporto di questi beni naturali io posso comportarmi moralmente male, da un lato il bene viene ridotto ad un oggetto, dall’altro il male viene ridotto alla libertà. È stato Kant che aveva incominciato con molta prudenza a dire che si può fare un’etica prescindendo dalla definizione del bene, scavando dentro la libertà, ma è stato soprattutto Nietzsche, ben lontano da Kant su questo punto, a dire che la libertà è radicale se si esercita davanti al nulla, cioè se crea il mondo che sceglie e non lo trova già pronto.
Vorrei dedicare gli ultimi minuti ad un’altra riflessione. Si deve distinguere, quando si parla del bene, se noi stiamo utilizzando la semantica del bene a livello ontologico o a livello morale. A livello ontologico possiamo dire che, vivere è un bene, la natura è un bene, la salute è un bene, perché a questo livello il bene indica l’orizzonte dell’essere o è un predicato dell’essere o è una perfezione dell’essere, a questo livello certamente tutto ciò che è, è bene, la persona è un bene in sé, anche se il suo comportamento è moralmente cattivo, Agostino, nel De civitate Dei, aveva detto: attenzione, anche la natura del diavolo è ontologicamente buona, è una creatura di Dio, è il suo comportamento morale che ha qualcosa che non va. Quando noi parliamo del bene a livello ontologico non esiste la differenza tra bene e male, perché il male sarebbe il nulla, se il bene è l’essere, ma il nulla non è, e dunque non c’è alcuna alternativa al bene. L’unica distinzione che noi possiamo utilizzare è tra bene infinito e bene finito, tra bene assoluto e bene relativo, ma parlare di bene relativo non significa dire che al bene relativo manca qualcosa e quindi è in sé stesso ontologicamente male, la finitezza per quanto fragile è preziosa. Nell’ordine dell’essere l’unica differenza che c’è è l’esistenza di enti finiti che sono limitati, fragili, che non per questo sono nulla, anzi come ci ha insegnato Hans Jonas, il grande maestro dell’etica della responsabilità, il massimo della responsabilità noi lo dobbiamo assumere nei confronti della massima fragilità, Jonas arriva a dire, il massimo della responsabilità noi lo dobbiamo assumere nei confronti del futuro della vita sulla terra, nei confronti delle future generazioni, che ancora non ci sono. Com’è possibile essere responsabili nei confronti di qualcuno che non c’è? Questa è la tesi di Jonas, massima responsabilità, massima fragilità. Dal punto di vista ontologico tutto ciò che è, è buono, qui non incontriamo il male, incontriamo la finitezza. Parlare del bene a livello morale è un altro discorso, qui incontriamo la differenza tra bene e male da cui io sono partito. Dentro la scala morale noi possiamo definire il bene, ma non possiamo definire il male, chi studia anatomia sa che la patologia è una disfunzione, ha senso parlare di patologia nella misura in cui c’è una fisiologia, e c’è una fisiologia nella misura in cui c’è un’anatomia, potremmo dire che l’anatomia corrisponde, nell’esempio proposto, al bene ontologico. Per questo il rispetto del corpo è il rispetto di un bene, e un corpo malato non è che diventa meno bene, le minacce alla biosfera, l’aggressione alla foresta amazzonica, il fatto che essa è ferita non diminuisce il suo valore naturale, il suo valore naturale aumenta perché è più fragile, aumenta il nostro dovere di tutela.
Concludo con due flash: 1. Differenza che oggi sperimentiamo sulla nostra pelle tra il pluralismo e il relativismo. Nell’epoca del multiculturalismo vediamo che ci sono culture diverse che co-abitano e che ci manifestano elaborazioni del bene che sono diverse, che sono plurali, ma rispetto alle quali non possiamo assumere un atteggiamento relativista, il relativismo è la patologia del pluralismo, il pluralismo è la fisiologia del relativismo. Un bambino africano che vive in Italia e ha una polmonite bilaterale dev’essere curato con antibiotici e non chiamando lo stregone, anche se facendo così noi mortifichiamo la cultura indigena alla quale lui appartiene, allo stesso modo non possiamo difendere l’infibulazione femminile o la poligamia, come parte integrante di una cultura altra. La grande sfida del multiculturalismo consiste nel non trasformare il pluralismo in relativismo, il pluralismo nasce dalla capacità di articolare le differenze, cercando di oltrepassarle, cogliendo un’universalità del bene, questa è stata la grande dinamica illuminista dinanzi alla tragedia delle guerre di religioni, come possiamo andare oltre? Parlando dei diritti umani che prescindono dalla cultura, dalla religione, dal colore della pelle, da differenze di carattere culturale. Se noi non siamo in grado di oltrepassare le differenze di carattere culturale non possiamo fondare i diritti umani, non possiamo andare in strada a manifestare contro l’apartheid, ed è singolare oggi questa deriva che tende a regredire dal pluralismo al relativismo, significa tornare in un’epoca preilluministica. 2. Il nostro rapporto con il bene, la persona umana non può guardare al bene come uno spettatore al cinema si vede un film, perché si riconosce chiamato, interpellato, la chiamata suppone una distanza e la distanza suppone la necessità di un allenamento, chi fa uno sport questo discorso lo capisce subito, la distanza presuppone un percorso. Le mediazioni normative che l’etica elabora sono l’equivalente, a livello morale, degli allenamenti, a livello sportivo. Per questo l’etica antica ha elaborato il tema delle virtù, le virtù stanno al bene come gli allenamenti stanno al fare una bella schiacciata, all’andare a canestro. Il tema della virtù è il tema, secondo la quale, il soggetto che si riconosce nel bene incomincia a lavorare su sé stesso, incomincia a camminare, sapendo che, come c’è un mister a livello sportivo, ci possono essere delle autorità, i maestri, i grandi classici, le comunità autentiche, che ci aiutano a vivere all’altezza di quello che vorremmo essere e che prima o poi dobbiamo cercare di diventare.
Nota: Trascrizione, rivista dall’Autore, della conferenza tenuta in data 26.4.2021.