Gli animali intesi come bestie possono inviare segni, ma non parlano, questo non è una mancanza o una carenza, ma piuttosto una manifestazione enigmatica della potenza silenziosa della natura, la natura che noi umani riteniamo di aver chiuso, recintato, addomesticato. Gli animali intesi come bestie ci affascinano ci inquietano, poiché rivelano i limiti e la pochezza dei nostri schermi antropomorfi. Ammettiamo però per uno scherzo filosofico che un’aquila parlasse, ebbene nel suo vocabolario la parola libertà non comparirebbe nemmeno, un’aquila è libera, vola libera, non ha il problema della libertà, non ha bisogno di parlarne. Noi esseri umani, specie in età moderna, ne siamo ossessionati, siamo continuamente a domandarci che cos’è la libertà, a chiederci se siamo davvero liberi; per la libertà siamo disposti a pagare qualsiasi prezzo, anche quando questo prezzo è per il mero sentirsi liberi, non essere liberi, ma sentirsi liberi. Questa nostra ossessione per la libertà è perché forse liberi non siamo e non siamo come le aquile.
Andrò disegnato tre modelli di libertà: il primo modello è quello in cui ci sentiamo liberi quando possiamo agire senza impedimenti esterni, che blocchino o ostacolino i nostri movimenti, grande modello messo a fuoco da Hobbes nel Leviatano e nel De cive; nel capitolo ventunesimo del Leviatano Hobbes si chiede in che senso l’acqua è libera, l’acqua è libera perché è necessitata dalla forza di gravità a scivolare dall’alto verso il basso, se i ciottoli o i sassi non ne impediscono il movimento. Noi umani siamo come l’acqua, se non ci sono ostacoli che rendano impossibile il nostro movimento siamo liberi da, anche se siamo necessitati dal determinismo naturale. Il secondo modello è quello a cui teniamo maggiormente, quello per cui siamo liberi quando noi stessi siamo causa volontaria delle nostre azioni, non siamo effetti delle circostanze, non siamo costretti da altri, questo secondo modello è quello che potremmo dire kantiano in cui la nostra volontà di agire, la volontà è causa, non causata, non effetto di qualche circostanza. Il terzo modello, dal punto di vista esistenziale il più prezioso e il più degno di essere coltivato, quello per cui siamo liberi quando facciamo uno con la realtà che siamo, la realtà è mobile, si trasforma, è portatrice di molte possibilità, se noi facciamo uno con questa realtà che non è lineare, non è statica, qui andiamo attingendo un’esperienza di libertà che è estremamente preziosa, concreta non meno delle prime due. Prevalentemente sono le prime due a svolgere il ruolo principale. La prima è quella più immediatamente persuasiva, ci basta poterci muovere senza che ostacoli esteri ci impediscano questo nostro muoverci. Voglio richiamare le due grandi origini della civiltà euro-americana: origine greca classica e l’origine legata alle religioni del Libro, quindi i fronti di Gerusalemme. Presso i greci non si trova affatto quell’ossessione per la libertà che è sorta solo in età moderna, quando le città dell’Ellade erano minacciate dal potentissimo impero persiano c’era una lotta, una guerra difensiva, per preservare la propria libertà, ma questa libertà non era intesa come potrebbe intenderla un moderno, la libertà non era altro che la condizione del non essere sottoposti ad un tiranno, non essere obbligati a lavorare. Era una libertà negativa, ossia una libertà caratterizzata dall’assenza di qualcosa, un popolo è libero quando non è oppresso da un popolo straniero, un cittadino è libero in quanto non è costretto a lavorare, questa accezione è parte del fatto che la libertà non aveva quel carattere decisivo che assume invece nell’età moderna. In un contesto come quello greco antico, ma anche romano è assente il senso dell’individualità, ossia dell’essere umano come singolo e quindi proprio per questo non c’è enfasi sulla questione della libertà, enfasi che sorge in ambito moderno perché uno dei tratti caratterizzanti di quest’epoca è un senso della singolarità e della individualità particolarmente marcato e significativo. La libertà degli antichi greci non era opposta alla necessità, alla necessità per esempio di quanto spinge gli esseri umani a conoscere ciò che è vero, ciò che è giusto. Faccio degli esempi tratti da Platone, potrebbe sembrare che proprio nel mito della caverna, incontriamo il primo elogio della libertà, il primo racconto di liberazione; il mito sembra raccontare un processo di liberazione dei prigionieri dalla loro ignoranza, dalla mera apparenza, dalla prima apparenza di ciò che è sotto i loro occhi, si muovono verso la conoscenza della verità. Sembra che qui abbiamo il primo racconto di liberazione dall’ignoranza, dalla prigionia esercitata da essa, la verità rende libero chi filosofa. Vi propongo una lettura diversa basata sui testi, sul testo greco, un fraintendimento, Platone non pensa in termini di libertà, non pensa in termini di liberazione da, il testo greco non pensa in termini di libertà, ma in termini di necessità. Siamo nel VII libro della Repubblica 515c cito “Ammettiamo che per natura avvenisse loro (ai prigionieri) questo, ossia che uno fosse sciolto e fosse necessitato ad alzarsi in piedi, a girare la testa, a camminare e a guardare verso la luce” questo è il fulcro del mito della caverna, c’è uno che si ritrova sciolto, che cosa notiamo? Se guardiamo il testo greco non compare il termine greco per libertà, si tace la causa per cui quel qualcuno si ritrova senza catena, la parola chiave è per natura uno, pochi, chi è una natura filosofica si ritrova sciolto. Il filosofo, l’essere umano dalla natura filosofica, è costretto, è necessitato a muoversi verso la luce etc. Chi è una natura filosofica non ha scelto di essere com’è, è una natura che gli o le viene assegnata, chi è una natura filosofica non ha scelto di esserlo, non si libera volontariamente dai ceppi, non si toglie le catene da se, ne qualcun’altra gliele toglie, non va incontro ad un viaggio liberatorio, piuttosto per natura si ritrova necessitato a salire per gradi, Platone parla di un anabasi, verso una conoscenza approfondita della verità e della giustizia, ma è un approfondimento, non abbiamo né la libertà, né la liberazione, ma è un necessario approfondire la nostra conoscenza di ciò che è. Questo motivo greco antico dell’essere necessitati lo ritroviamo in tutti i passaggi chiave, non solo in Platone, lo ritroviamo anche in Aristotele. Citiamo un altro passo celebre di Platone, nel Sofista 237ab e 241d; il grande Parmenide ha testimoniato (testimonia la verità poiché essa non si produce) che è impossibile pensare ciò che non è, ma questo sembra comportare che allora è impossibile dire il falso, visto che il falso corrisponde a quanto non è, Platone prosegue, attraverso la voce dello straniero, affermando che è necessario esaminare e mettere alla prova il discorso del padre Parmenide, è una necessità. La critica alla democrazia è una feroce critica alla libertà, se prendete il libro VIII della Repubblica 562bc 563e la libertà per Platone non è che licenza e la licenza conduce alla disgregazione dello stato, per Platone la giustizia è l’interezza armonica, stabile dello stato, la libertà viene criticata ferocemente perché è quella licenza che sottrarre le parti alla coesione dell’intero e disgrega l’intero. Platone aggiunge che la democrazia è foriere della tirannide, la democrazia disgrega la coesione dell’intero, la coesione dello stato, si crea un disordine tremendo e poi si invoca il tiranno che riportai l’ordine. Si pensa in termini di necessità. Aristotele sottolinea il senso della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, ma presuppone quell’idea di libertà dove i cittadini sono liberi dall’obbligo di lavorare, a lavorare sono gli schiavi, è la libertà dell’essere parte del corpo collettivo, non è libertà individuale. Benjamin Constant in un saggio “La libertà degli antichi e la libertà dei moderni” del 1819 è particolarmente brillante nel segnalare questa differenza capitale fra gli antichi e i moderni, la libertà degli antichi non è libertà individuale, ma è un essere parte del corpo collettivo, è abissalmente lontana da ogni libertà cara a noi moderni, non esclude che il corpo collettivo nella sua totalità prevarichi o governi in maniera autoritaria e gerarchica le parti di esso. Constant coglie questi aspetti in modo brillante.
Dov’è il fronte invece in cui la libertà acquista assieme al senso della storicità una valenza, una rilevanza ignota e impensata dai greci antichi, è il fronte di Gerusalemme, ossia delle religioni del Libro. Ho deciso di richiamare alcuni passi di un libro che nel 900 è stato particolarmente importante, “La stella della redenzione” di Franz Rosenzweig 1921, egli era un filosofo, teologo tedesco di origine ebraica, libro formidabile, già la Germania era attraversata da tensioni antisemite, ma ancora non c’era il nazionalsocialismo. Rosenzweig connette la teologia ebraica, biblica a quello che chiama l’evento della liberazione dalla prigione del nulla. L’aspetto interessante è che la libertà qui emerge come liberazione, la liberazione è l’autentico nucleo originario del fenomeno della libertà, e questo avviene punto sul fronte ebraico e poi cristiano, libertà come liberazione, liberazione dal nulla, dice Rosenzweig, creando qualcosa Dio sottrae quel qualcosa al nulla, sottrarre le creature, le libera dal nulla, nella Stella della redenzione sono interessanti le pagine in cui si sofferma sulla festa della liberazione ebraica: “La creazione di un popolo come popolo avviene nella sua liberazione, così la festa dell’inizio della storia della nazione ebraica è una festa della liberazione, a buon diritto e perciò già il sabato poteva presentarsi come un richiamo all’uscita dall’Egitto” ecco la liberazione originaria dalla schiavitù egizia, la prima liberazione, il primo motivo in cui emerge il fenomeno della liberazione, della libertà come liberazione. “La libertà del servo e della serva in seno al popolo che il sabato annuncia, era determinata dalla liberazione del popolo, come popolo dall’Egitto, casa di schiavitù” in questo passo Rosenzweig porta l’attenzione sul ruolo della liberazione, Dio creando qualcosa ha liberato dal nulla, poi abbiamo un’altra liberazione, la liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù d’Egitto e poi in queste righe menziona una terza formidabile liberazione, la liberazione del servo e della serva, nella festa della liberazione, perché in questa festa c’era un pasto in cui il padrone e i servi mangiavano insieme, questo motivo della condivisione del pasto è bellissimo e porta con sé una altra forma di libertà, la liberazione dalla distanza, dalla gerarchia che divide i servi dal padrone. Rosenzweig parla proprio di convivialità libera e autentica: “Solo a tavola nelle conversazioni che nascono dal trovarsi seduti a tavola insieme ci si conosce” motivo in cui seduti tutti assieme, si mangia tutti insieme, è una liberazione dalla gerarchia sociale ed economica che gli limita. Mi preme richiamare il fatto che sul fronte di Gerusalemme la libertà acquista una rilevanza ignota ai greci classici ed è però una libertà che emerge nel suo nucleo portante che è quello della liberazione da. Rosenzweig regala pagine formidabili in cui spiega, per esempio, che il popolo ebraico è eterno perché non vive nel tempo storico in cui è ospite, nemmeno la lingua che parla è la sua lingua, dipende da dove abita. Il popolo ebraico è eterno nel senso che vive in un immutabile presente e vive eternamente in un circolo, Dio, la torah, liberano il popolo ebraico da ogni temporalità e storicità della vita. Ogni ebreo si ritrova in diverse nazioni, ma il suo rapporto con Dio lo libera dal tempo e dalla storicità in cui è situato, il popolo ebraico non lega la propria vita ad un territorio, mantiene sempre l’indipendenza di un viaggiatore, motivo del viaggiare, dell’erranza che Rosenzweig sa rappresentare con particolare incisività, egli pensa che propriamente ebraico sia il viaggiare senza essere legato ad un territorio particolare, ma questo viaggiare è comunque un circolo, l’ebreo è liberato dalla storicità in cui è situato e vive in un presente immutabile, questa è la tesi di Rosenzweig. La questione libertà, declinata in termini di liberazione, ha strettamente a che fare con le concezioni della storia che nella modernità sono diventate punti di rifermento importanti. Rosenzweig aveva a lungo studiato Hegel, quindi, conosce anche il fronte cristiano, sa che il cristianesimo pensa la liberazione non in termini circolari ed eterni, ma comincia a pensare il viaggio storico in termini lineari, un viaggio storico che si dispiega secondo una linea, il cui punto di partenza è diverso dal punto di arrivo. Libertà come liberazione stanno assieme ad un senso della storicità che poi si è imposto al nostro immaginario a partire dalla cultura teologica e dalla religiosità cristiana. Quando l’illuminismo moderno o il socialismo parlano di progresso, di emancipazione, questa preziosa enfasi sull’emancipazione è un modo per richiamare quella liberazione che ha avuto la sua genesi nel contesto prima ebraico e poi cristiano. Il cristianesimo pensa in termini di linearità perché la nascita di Cristo è stato un evento che ha tagliato in due il circolo del tempo, c’è un prima e un dopo Cristo, ciò significa che non c’è ritorno all’uguale, non è una ripetizione del prima, c’è una cesura con la nascita di Cristo in cui si recide la circolarità e il tempo comincia a dislocarsi in termini lineari, c’è un libro importante da richiamare “The meaning of history” di Leavitt dove spiega come le concezioni moderne, totalmente prosaiche, come quella illuminata o socialista, sono una traduzione nel tempo profano di un motivo, di un paradigma della liberazione, che ha le sue radici nell’ebraismo e nel cristianesimo.
Gli esseri umani desiderano essere liberi o essere liberati? Riprendendo Dostoevskij, i quali personaggi sono quasi tutti autoreferenziali, chiusi in se stessi, i dialoghi sono quasi tutti monologhi in forma di dialogo, uno di questi è quello di Ivan Karamazov che dialoga con il fratello; egli racconta che ha scritto la leggenda del grande inquisitore e gliela riporta, il grande inquisitore è un cardinale che dirige l’inquisizione nel 500 spagnolo, in questo contesto di roghi e di vittime compare la figura di Gesù e si scaturisce un dialogo monologo, dove il cardinale monologa con Gesù, il quale è avvolto in un silenzio intensissimo, il cardinale dice “Tu hai voluto rendere liberi gli esseri umani, addirittura gli hai resi liberi perché ti amassero e ti scegliessero liberamente, ma non hai capito davvero le tue creature, gli esseri umani hanno bisogno di pane, non hanno bisogno di libertà e per di più hanno paura della libertà, che oltre a non sfamarli procura loro insicurezza, angosciante inquietante” l’inquisitore è risoluto nel dire che questo dono della libertà è pesantissimo, è un dono che gli esseri umani non volevano, i quali hanno bisogno di essere sfamati e rassicurati mentre questo dono comporta tutt’altro. Il cardinale continua dicendo che il potere della chiesa è basato su questo, noi abbiamo capito di che cosa hanno bisogno gli esseri umani e ci sono obbedienti e fedeli perché noi lo abbiamo compreso, e gli abbiamo liberati dalla libertà. Formidabile locuzione attraverso la quale ricompare il fenomeno della liberazione, in cui quello che il clero riesce a intendere e su cui sa far leva è il liberare dalla libertà gli esseri umani, perché la libertà è angosciante, è inquietante, la libertà non è rassicurante, oltre che a non sfamare. Questa è la premessa per cui il clero possa esercitare il suo potere. In questo testo è rimarchevole perché si comprende una possibile lettura, che la liberazione si mangia anche la libertà, la liberazione che nasce come nocciolo della libertà, si fagocita anche la libertà. Il paradigma hobbesiano, che non ha niente di religioso, totalmente prosaico, lo stato è stabile proprio perché libera i cittadini dalla paura di morire, dalla paura di essere sopraffatti, dalla paura del disordine sociale, questa liberazione dalla paura è la grande leva della stabilità dello stato hobbesiano, questo motivo è di nuovo la liberazione, non la libertà. La cosa un po’ inquietante è che questo aspetto sembra avere delle strane sintonie con un’altra accezione di liberazione, ovvero la liberazione dalla disperazione, dall’infelicità. Il grande avversario di Hobbes è Kant, estremamente realista, il nostro ragionare immette in noi una scintilla morale, un’esigenza di giustizia che non si riesce a spiegare, questa esigenza la chiama factum della legge morale, questa è la traccia che fa conoscere che siamo liberi. La forza di Kant è coltivare la necessaria possibilità che il nostro essere liberi non sia semplicemente una liberazione da, Kant vuole dare respiro alla libertà, sforzo kantiano meno persuasivo dell’altro, ma non meno prezioso, perché insiste su una causalità libera, la ragione che è in noi, non solo è il terreno nel quale è radicato un esigenza di giustizia, che manifesta che non siamo solo bestie egoiste, ma la ragione mostra che questa esigenza di giustizia presuppone il nostro pensarci liberi, ovvero pensare che la volontà che muove le nostre azioni sia auto-causata, non dettata dalle circostanze. Kant ha un fortissimo senso di come i rapporti con gli altri possono anche essere forieri di movimenti non liberi e non giusti, proprio perché siamo mossi dalle circostanze, dalle coazioni sociali, dalle abitudini sociali, da ciò che tutti dicono e da ciò che tutti fanno. Kant fa uno sforzo immane per mostrare come il nostro pensarci liberi, ossia pensare che la nostra volontà sia causa non dettata da ciò che le circostanze determinano, ma che la nostra volontà sia mossa da una causalità libera. Questa è una libertà in positivo, una libertà di, grande paradigma che nella modernità noi cerchiamo di coltivare, si tratta di pilotare la nostra esistenza, non andare al traino di ciò che è abituale, di ciò che è usuale, di ciò che ci viene suggerito da altri, da ciò che ci hanno semplicemente insegnato, l’autodeterminazione kantiana si presta a molte obiezioni però ha qualcosa di prezioso e lo si nota ogni volta che si assiste a coazioni sociali o a abitudini che diventano omologanti, qui si devono apprezzare le mosse kantiane.
La prima è una libertà da, la seconda è una libertà di (Kant), la terza è una libertà per. Nel 1809 Schelling scrive un saggio importantissimo “Ricerca sull’essenza della libertà” dove introduce alcuni motivi preziosi. Vuole provare a mostrare come l’autentica libertà sia sganciata e sganciabile dalla causazione; quindi, un’accezione di libertà sganciata dalla causazione, essere liberi non vuol dire auto causarsi o auto causare, formulazione ripresa da Heidegger. Cosa vuoi dire essere liberi per Heidegger? Fondamentale la dimensione esistenziale, accezione di libertà che non possiamo applicare ai rapporti di geopolitica o etc., nella dimensione esistenziale siamo liberi quando facciamo uno con l’essere che siamo, quando non siamo ostaggio alla contrapposizione degli impedimenti esterni, siamo liberi quando non ci troviamo in contrapposizione alla legge, ai doveri, ai vincoli dello stato, il liberalismo pensa la libertà come dissidio, come conflitto tra le libertà individuali e i vincoli posti dallo stato. Conflitto tra libertà e altro da sé. La libertà per, pensata da Heidegger, è una libertà in cui se noi ci lasciamo prendere risolutamente da ciò che siamo, in relazione agli altri, nei contesti in cui siamo, se ci lasciamo prendere risolutamente da ciò che siamo in rapporto con gli altri, in rapporto all’esperienza e ci lasciamo prendere fino in fondo, il tratto mobile e possibilitante dell’essere ci restituisce libertà, non siamo appesantiti da schemi morali a priori, da pregiudizi cristallizzati, non siamo appesantiti dall’esigenza che il mondo corrisponde ai nostri desideri, alle nostre aspettative, a ciò che abbiamo pensato prima o sopra l’essere del mondo. E’ una libertà che sotto il profilo esistenziale è preziosissima, la conoscono gli artisti, nell’artista è l’azione artistica che prevale sull’agente, un musicista se pensa a come deve suonare suona malissimo, è l’azione, è la prassi che è libera se noi ci lasciamo prendere risolutamente da essa, senza pensare sopra di essa, fuori di essa, con le tare delle nostre richieste, lo conoscono gli sportivi, quando un grande atleta pensa, il suo movimento risulta meccanico, goffo e sbaglia, se invece si lascia prendere risolutamente fino in fondo dall’azione stessa, ecco che la sua azione è fluida. Questo Heidegger ha cercato di pensarlo all’interno del nostro modo d’essere, una libertà che è lasciarsi prendere fino in fondo dalla mobilità viva, aperta, dell’essere che siamo e non semplicemente in cui siamo.
Nota: Trascrizione, non rivista dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 28.2.2022 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.