La lettera enciclica di Papa Francesco Laudato si’ Sulla cura della casa comune (24 maggio 2015) sin dal titolo, ispirato al Cantico delle Creature di San Francesco, richiama il messaggio del Santo di Assisi per riconoscere nella terra su cui posiamo i piedi «una sorella, con la quale condividiamo l’esistenza, e una madre bella che ci accoglie tra le sue braccia» (n. 1). Questa sorella, «protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla» (n. 2). Già da queste parole introduttive si avverte la forza della denuncia e dell’annuncio che pervade il testo: l’allarme è lanciato senza mezzi termini, mentre è offerta con altrettanta chiarezza la motivazione per cui nessuno può tirarsi indietro di fronte ad esso. Niente di questo mondo può esserci indifferente, perché si tratta della nostra “casa comune”! Per questo l’Enciclica è rivolta a tutti e non solo ai membri della Chiesa, accomunati – come tutti dovremmo essere – da una stessa preoccupazione e da una medesima responsabilità di fronte al mondo in cui viviamo. Nelle riflessioni seguenti vorrei richiamare lo scenario di fondo, rispetto a cui si pone la Laudato si’, e cioè la crisi ecologica, per poi accennare ad alcune delle cause di essa. Vorrei quindi esaminare le responsabilità della visione teologica del mondo in un tale scenario e indicare la strada verso un’etica e una spiritualità ecologiche, così come emergono dalla proposta di Papa Francesco, segnalando infine alcune possibili orientamenti per rinnovare la politica a partire dall’Enciclica.
Nell’esame della situazione attuale riguardo all’ambiente e alle sue condizioni Papa Francesco spazia dai problemi dell’inquinamento, ai cambiamenti climatici dagli effetti spesso devastanti, fino al pericoloso diffondersi della “cultura dello scarto”, che «colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura» (n. 22). Una delle conseguenze drammatiche di questi processi riguarda «l’aumento dei migranti che fuggono la miseria aggravata dal degrado ambientale, che non sono riconosciuti come rifugiati nelle convenzioni internazionali e portano il peso della propria vita abbandonata senza alcuna tutela normativa» (n. 25). La denuncia è al tempo stesso sociale e politica: «Molti di coloro che detengono più risorse e potere economico o politico sembrano concentrarsi soprattutto nel mascherare i problemi o nasconderne i sintomi, cercando solo di ridurre alcuni impatti negativi di cambiamenti climatici» (n. 26). Gli argomenti sviluppati dall’Enciclica sono concreti e stringenti: dalla questione dell’acqua, bene primario spesso trasformato «in merce soggetta alle leggi del mercato» (n. 30), alle ferite gravi inferte alla biodiversità, fino al deterioramento della qualità della vita umana e alla degradazione sociale, connessi ai danni ambientali.
Alla base delle osservazioni della Laudato si’ c’è la costatazione che ogni vivente in quanto tale ha bisogno di un suo ambiente vitale e che la reciproca interdipendenza di questi mondi produce un “ecosistema”, una comunità, cioè, di organismi interagenti fra loro e con l’“habitat” in cui sono posti. L’insieme degli “ecosistemi”, e dunque il complesso delle condizioni vitali di tutti gli esseri viventi, è quanto viene chiamato “biosfera”. Quando si parla di ecologia (letteralmente: “dottrina della casa”), la “casa” cui ci si riferisce è appunto la “biosfera”: non solo quindi l’ambiente vitale dell’essere umano, ma anche l’ecosistema in cui è posto, e, ancora più ampiamente, quella sfera della vita in cui i vari ecosistemi si collocano, cui viene spesso dato il nome di “natura”[2]. Questa vive di ritmi ed equilibri che si sono definiti, anche attraverso passaggi traumatici, in tempi molto lunghi a paragone di quelli dell’uomo. In base a questi rapporti consolidati di interdipendenza vitale tutto si tiene come un insieme e nessuna modifica “violenta” resta senza conseguenze. «Natura non facit saltus»: nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma. Ciò che superficialmente appare un “salto”, è in realtà un nuovo rapporto di elementi reciprocamente interagenti nella complessità della grande sfera della vita.
È in questo quadro di totalità dinamica che va letta la “crisi ecologica”, denunciata e descritta dall’Enciclica: essa consiste nel turbamento indotto nei ritmi e negli equilibri naturali dalla trasformazione accelerata cui essi sono sottoposti a causa del comportamento umano. Si potrebbe affermare che il nucleo della crisi stia nella differenza tra i “tempi storici” e i “tempi biologici”, nella sfasatura cioè fra i velocissimi tempi della tecnologia e i lentissimi tempi della biologia. «Trasformazioni che prima avvenivano in milioni di anni possono ora avvenire (per lo squilibrio indotto) in poche decine di anni e le conseguenti variazioni per gli equilibri umani e sociali corrisponderanno a un’accelerazione di milioni di anni di storia… I tempi biologici e i tempi storici seguono ritmi diversi»[3]. Le conseguenze di questa sfasatura di tempi ‑ di cui l’esempio forse più eclatante è il possibile impiego distruttivo dell’energia nucleare[4] ‑ non sono riscontrabili soltanto negli effetti devastanti che essa ha sul deterioramento ambientale e sul ricambio energetico, ma anche nelle prospettive che si disegnano per i soggetti storici: «I limiti delle risorse, i limiti di resistenza del nostro pianeta e della sua atmosfera indicano chiaramente che quanto più acceleriamo il flusso di energia e di materia attraverso il sistema‑Terra, tanto più accorciamo il tempo reale a disposizione della nostra specie. Un organismo che consuma più rapidamente di quanto l’ambiente produca per la sua sussistenza non ha possibilità di sopravvivenza»[5].
Anche se un approccio “squilibrato” alla natura da parte dell’uomo è sempre esistito, la “crisi ecologica” ha un carattere tipicamente “moderno”: quello che è nuovo è la dimensione planetaria che un tale approccio ha assunto in conseguenza dello sviluppo tecnologico e dell’accelerazione dei tempi di trasformazione ad esso collegati. Mai come negli ultimi due secoli l’uomo ha acquisito tante possibilità d’intervento nel cambiamento di tutto ciò che esiste: se la prima “rivoluzione industriale” gli ha offerto lo strumento tecnico per agire sulla trasformazione della natura, accelerando i tempi di produzione e di consumo dei beni, la seconda rivoluzione ‑ di carattere tecnologico ‑ ha consentito un’ulteriore accelerazione degli stessi tempi di progettazione e di realizzazione, mentre si profila su tutta la linea la così detta “rivoluzione post‑industriale”, indotta dall’uso generalizzato di processori ed elaboratori, capaci di “riprodurre” il reale per calcolarne le possibili “resistenze” e individuare le vie di superamento delle stesse, con interventi in tempo “reale”. Al di là delle innegabili differenze esistenti fra di loro, questi livelli della rivoluzione scientifica sono collegati dalla caratteristica comune della crescente accelerazione che essi inducono nei processi di trasformazione, e quindi dall’accrescimento della distanza che si determina fra il tempo storico e il tempo biologico.
La crescita di complessità dell’“homo sapiens” sembra così essere inversamente proporzionale alla possibilità di durata dell’ecosistema: la minaccia ecologica si profila come la rivincita del tempo biologico sul tempo storico. Nella crisi ambientale il duro ceppo della realtà naturale viene a opporsi alla manipolazione di un pensiero presuntuosamente sicuro delle sue potenzialità e della bontà dei cambiamenti, che esso produce. Come osserva Papa Francesco nella Laudato si’, «benché il cambiamento faccia parte della dinamica dei sistemi complessi, la velocità che le azioni umane gli impongono oggi contrasta con la naturale lentezza dell’evoluzione biologica. A ciò si aggiunge il problema che gli obiettivi di questo cambiamento veloce e costante non necessariamente sono orientati al bene comune e a uno sviluppo umano, sostenibile e integrale. Il cambiamento è qualcosa di auspicabile, ma diventa preoccupante quando si muta in deterioramento del mondo e della qualità della vita di gran parte dell’umanità» (n. 18).
2. Cause della crisi ecologica
Il profilarsi nella storia dell’attuale “crisi ecologica” coincide con quella che Martin Heidegger ha chiamato «l’epoca dell’immagine del mondo»: è l’epoca nella quale il trionfo moderno della soggettività si traduce sempre di più in una “oggettivazione dell’ente”, compiuta mediante «un rappresentare, un porre‑innanzi (vor‑stellen), che mira a presentare ogni ente in modo tale che l’uomo calcolatore possa esser sicuro, cioè certo dell’ente… È nella metafisica di Cartesio che per la prima volta l’ente è determinato come oggettività del rappresentare e la verità come certezza del rappresentare stesso» [6]. Il conoscere diviene possesso e dominio del conosciuto, e la ricerca esercizio della “volontà di potenza” della ragione assoluta. Conseguenza di questa impostazione è che l’uomo, soggetto della conoscenza e voce della ragione, si relaziona al mondo esterno come al vasto campo del suo dominio: gli esseri umani, “maîtres et possesseurs de la nature” (René Descartes), sono arbitri assoluti del mondo! La ragione finalizza ogni cosa al proprio interesse: il “sapere aude” illuministico si congiunge al “sapere è potere”, che sta alla base del moderno sviluppo della scienza e della tecnica[7]. Si profila a pieno campo il trionfo della ragione strumentale!
La forma speculativa, in cui prende corpo e trionfa la concezione della conoscenza come dominio, è l’equazione idealistica fra ideale e reale: essa esprime in maniera compiuta la presunzione di totalità della ragione “adulta”, la sua intolleranza verso ogni limite estrinseco, la sua volontà di chiarezza ed evidenza, che annullino le ombre della notte, «in cui tutte le vacche sono nere»[8]. Si delinea il trionfo totale dell’idea: non è il pensiero che deve adeguarsi alla realtà, ma la realtà che deve adeguarsi al pensiero. La violenza che si esercita sul reale, per assimilarlo alla “rappresentazione” concettuale, è percepita come una forma di affermazione della verità, come uno stabilire l’“ordre de la raison” sull’irrazionale disordine del mondo. L’idea abbraccia col suo sguardo l’intero oggetto, e non può tollerare resistenze: «Il vero è l’intero»[9]. La ragione dell’ideologia moderna è totalizzante: proprio per questo essa si converte in razionalità strumentale, che finalizza ogni cosa all’affermazione di sé, al primato della “sua” rappresentazione del mondo, e perciò al proprio esclusivo interesse. Imperialismo della soggettività, volontà di potenza e rapporto strumentale con la natura si corrispondono.
Anche la concezione del tempo è plasmata dalla “svolta moderna”: la ragione, che vuole tutto dominare, imprime ai processi storici di adeguamento del reale all’ideale un’incalzante accelerazione. Questa “fretta della ragione” si esprime tanto nella crescente rapidità dello sviluppo tecnico e scientifico, quanto nell’urgenza e passione rivoluzionaria, connessa all’ideologia. Il “mito del progresso” non è che un’altra espressione della volontà di potenza della ragione: in esso la presunzione della finale conciliazione, che superi la dolorosa scissione fra reale e ideale, diviene chiave di lettura dei processi storici, anima ispiratrice dell’impegno di trasformazione del presente, anticipazione militante di un avvenire dato per certo. Le moderne “filosofie della storia” sistematizzano il “sogno diurno” della ragione in visioni totali, che non si limitano a interpretare il mondo, ma intendono trasformarlo a propria immagine e somiglianza. L’emancipazione ‑ motivo ispiratore dello spirito moderno ‑ porta con sé una carica di urgenza, un’indifferibile accelerazione sui tempi: il divario fra “tempo storico” e “tempo biologico” è spinto al massimo dalla sete di compimento totale, di “soluzioni finali”, tipica della religione emancipata del progresso.
Papa Francesco richiama anche gli aspetti politici della crisi: «La sottomissione della politica alla tecnologia e alla finanza si dimostra nel fallimento dei Vertici mondiali sull’ambiente. Ci sono troppi interessi particolari e molto facilmente l’interesse economico arriva a prevalere sul bene comune e a manipolare l’informazione per non vedere colpiti i suoi progetti… L’alleanza tra economia e tecnologia finisce per lasciare fuori tutto ciò che non fa parte dei loro interessi immediati. Così ci si potrebbe aspettare solamente alcuni proclami superficiali, azioni filantropiche isolate, e anche sforzi per mostrare sensibilità verso l’ambiente, mentre in realtà qualunque tentativo delle organizzazioni sociali di modificare le cose sarà visto come un disturbo provocato da sognatori romantici o come un ostacolo da eludere» (n. 54). Il Papa aggiunge: «Si richiede dalla politica una maggiore attenzione per prevenire e risolvere le cause che possono dare origine a nuovi conflitti. Ma il potere collegato con la finanza è quello che più resiste a tale sforzo, e i disegni politici spesso non hanno ampiezza di vedute. Perché si vuole mantenere oggi un potere che sarà ricordato per la sua incapacità di intervenire quando era urgente e necessario farlo?» (n. 57). La denuncia, in tutto il suo realismo, non avrebbe potuto essere più chiara ed esplicita!
Anche il pensiero critico della fede ha avuto le sue responsabilità nei riguardi della crisi descritta. Le radici teologiche della mentalità, che presiede al rapporto squilibrato fra uomo e natura nell’“epoca dell’immagine del mondo”, sono state in vario modo presentate: c’è chi punta il dito contro la grave responsabilità che la tradizione ebraico‑cristiana ha nella crisi ecologica, fino a denunciare le «disgraziate conseguenze del cristianesimo» (Carl Amery) e, addirittura, c’è chi vede nella «distruzione della terra e dell’uomo» l’“eredità” di esso (Eugen Drewermann)[10]. Alla radice della sopraffazione esercitata dall’uomo sulla natura viene indicato il comando divino riportato dal libro della Genesi: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra» (1,28). Quest’affermazione biblica ‑ rivestita dell’autorità della rivelazione ‑ avrebbe determinato lo sviluppo di un’etica del dominio, fortemente antropocentrica, tale da giustificare la finalizzazione e la strumentalizzazione del mondo agli interessi del soggetto umano. L’asservimento della natura avrebbe in tal modo ricevuto un’assoluta giustificazione morale. All’uomo, immagine di Dio e signore del creato, tutto sarebbe permesso nel suo rapporto con gli altri esseri: «Se è così, la cristianità porta un grave peso di colpa»[11].
La suggestione di questa tesi non deve oscurarne l’eccesso di semplificazione: il senso originario del testo biblico non può non essere integrato con l’affermazione dell’altro e più antico racconto della creazione ‑ «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15) ‑ , dove l’atteggiamento richiesto all’uomo è tutt’altro che di sopraffazione e si connota anzi con i tratti dell’attenzione, della sollecitudine, dell’affidamento e della cura. La stessa “storia degli effetti”, poi, mostra come la tradizione ebraico‑cristiana abbia espresso esempi altissimi di rapporto non strumentale ed anzi amorevole con la natura, che non si comprenderebbero se il significato di Genesi 1,28 fosse univocamente negativo: San Francesco e il suo Cantico delle creature ne sono una testimonianza luminosa. L’atteggiamento della “custodia” francescana e quello della “laboriosità benedettina” rivelano, in forma diversa, un analogo rapporto di amore e di dedizione alla realtà mondana, affidata dal Creatore all’uomo.
Un secondo rimprovero mosso alla tradizione ebraico‑cristiana è quello di aver operato un originario “disincanto del mondo” (Max Weber), che avrebbe consentito l’abbandono di ogni atteggiamento sacrale verso la natura: enfatizzando la divinità di Dio e la Sua sovrana trascendenza, il pensiero biblico avrebbe operato la più radicale delle secolarizzazioni, perché, spopolando l’universo dei suoi “numi”, lo avrebbe ridotto a semplice terra di conquista, abbandonata alla cupidigia dell’uomo. Il monoteismo ebraico‑cristiano sarebbe stato funzionale agli interessi umani nei confronti della natura, servendo da garante teologico dell’esasperato antropocentrismo della concezione biblica. Anche questa tesi va precisata: mentre è del tutto discutibile l’ipotesi che una natura lasciata in balia di presunte e capricciose divinità sarebbe stata più rispettata, c’è anche da domandarsi se non sia vero piuttosto che proprio la relazione dell’uomo e della natura all’unico loro Creatore fondi una responsabilità ecologica di alto livello nella coscienza del soggetto storico. Inoltre, se il “disincanto del mondo” avesse prodotto effetti così devastanti, ne sarebbero responsabili gli stessi valori di libertà e maturità dell’uomo, che a quel disincanto conseguono, e che appaiono irrinunciabili anche nel tempo della crisi ecologica.
Infine, viene attribuita alla tradizione teologica ebraico‑cristiana la responsabilità del profilarsi di quella concezione lineare del tempo, che è alla base del moderno “mito del progresso”, causa di tanta violenza nei confronti della realtà naturale, forzatamente piegata alla sua rappresentazione ideale. La visione biblica dell’esodo e del Regno, la religione della promessa e l’etica della speranza sarebbero colpevoli di aver proiettato gli uomini verso il futuro, imprimendo un’esasperata accelerazione alla coscienza e alla realizzazione del tempo storico. Lo squilibrio determinatosi fra tempi biologici e tempi dell’uomo, attraverso le varie tappe della “rivoluzione industriale”, sarebbe il frutto dell’ideologia violenta, conseguente alle “filosofie della storia”, nate nel solco della cristiana “teologia della storia”. La critica va esaminata nelle due parti che la compongono: se è indiscutibile la forzatura operata dalle ideologie sul reale e va denunciata senza mezzi termini la volontà di potenza che ispira ogni sistema ideologico, dialettico è il rapporto del “mito del progresso” alla religione dell’esodo e del Regno. La derivazione teologica della moderna “filosofia della storia” dalla teologia ebraico‑cristiana è indubitabile: tuttavia, è proprio dal rifiuto della radice teologica che nascono i vicoli ciechi dell’ideologia moderna[12]. Dove è perduto il senso della Trascendenza, ogni alterità è svuotata di consistenza e l’imperialismo del soggetto storico ha libero corso, anche nei rapporti con la natura. Non è dunque la radice teologica, ma la sua perdita che trasforma il mito moderno del progresso in una permanente minaccia all’equilibrio dei rapporti fra l’uomo e il suo ambiente.
L’analisi delle responsabilità teologiche della crisi ecologica mostra, dunque, l’intreccio dialettico di elementi che vi si affaccia: se non è possibile accettare le semplificazioni di chi vede nella concezione biblica la causa remota del disordine esistente nelle relazioni fra soggetti storici e ritmi biologici, non è possibile neanche escludere ogni influenza che alcune espressioni della tradizione ebraico‑cristiana hanno potuto avere sugli squilibri manifestatisi. Ciò che sembra più corretto ammettere è che il pensiero biblico contiene motivi molteplici, suscettibili di essere isolati e fraintesi, esposti ad un uso strumentale, condizionato dagli interessi dei tempi e delle situazioni. Ad esempio, non sempre il rifiuto della “cultura dello scarto”, sulle cui responsabilità tanto il Papa insiste (cf. il n. 22 della Laudato si’), è stato chiaro e vigoroso da parte della teologia e della predicazione ecclesiale. L’interrogativo che nasce diventa allora quello intorno al tipo di concezione teologica e morale che è necessario sviluppare per aiutare la consapevolezza e la prassi di un rapporto ecologicamente responsabile fra gli uomini e la natura in cui vivono. Afferma Francesco: «Anche se questa Enciclica si apre a un dialogo con tutti per cercare insieme cammini di liberazione, voglio mostrare fin dall’inizio come le convinzioni di fede offrano ai cristiani, e in parte anche ad altri credenti, motivazioni alte per prendersi cura della natura e dei fratelli e sorelle più fragili. Se il solo fatto di essere umani muove le persone a prendersi cura dell’ambiente del quale sono parte, i cristiani, in particolare, avvertono che i loro compiti all’interno del creato, i loro doveri nei confronti della natura e del Creatore sono parte della loro fede. Pertanto, è un bene per l’umanità e per il mondo che noi credenti riconosciamo meglio gli impegni ecologici che scaturiscono dalle nostre convinzioni» (n. 64).
Occorre, allora, partire dal fatto che la tradizione biblica ha colto l’atto creatore di Dio all’interno della prospettiva dell’alleanza: l’esperienza delle meraviglie operate dal Signore nella storia della salvezza ha portato Israele ad approfondire la sua fede in Colui che è forza e sostegno del Suo popolo, proprio perché è il Dio dell’universo, a cui tutte le creature obbediscono. In questa luce, l’uomo e il cosmo rientrano in un unico disegno di alleanza: pur ricevendo una particolare dignità e responsabilità, l’uomo sta davanti a Dio nella solidarietà con tutto il creato, chiamato a realizzare lo spirito dell’alleanza nel suo rapporto col Creatore e in quello con gli altri uomini e l’universo intero. La natura non ha nulla di divino: essa è creatura, come lo è l’uomo. Tuttavia, proprio in quanto oggetto dell’amore creatore del Dio dell’alleanza, la natura ha una sua dignità altissima, costantemente richiamata dall’espressione del compiacimento divino dinanzi all’opera dei sei giorni: «Dio vide che era cosa buona» (Gen 1). Il “disincanto del mondo” compiuto dalla rivelazione biblica si traduce, allora, non nel rapporto esclusivo uomo ‑ natura, interpretato nella forma dello sfruttamento e del dominio, ma nella relazione articolata fra l’universo intero, la più alta delle creature, l’uomo, e il Creatore e Signore del cielo e della terra. Sul piano etico questa relazione impegna l’uomo a render conto al Dio vivente della maniera in cui si rapporterà alla natura, che l’Eterno ha affidato alle sue cure.
A partire dalla morte e resurrezione di Gesù, rivelazione suprema del mistero trinitario di Dio, è possibile, inoltre, vedere il mondo non più soltanto davanti a Dio, ma in Dio e Dio stesso all’opera nel mondo, pur senza risolversi in esso. Il mondo è visto in Dio, nell’ambito delle relazioni eterne della Trinità divina, perché il suo inizio è posto nell’atto libero e gratuito col quale il Padre per il Figlio e in vista di lui lo ha chiamato ad esistere. La creazione è in tal senso un evento del dialogo eterno fra l’Amante e l’Amato, e lo “spazio” della sua esistenza, inteso come l’eterna condizione della sua possibilità, è la processione eterna del Generato dal Generante. Il mondo è poi in Dio perché, creando, il Creatore ha impresso l’impronta di sé in ogni cosa, in modo che l’essere nel più profondo degli esseri è segnato dal dinamismo trinitario e vive in qualche modo di questo dinamismo, che pure immensamente lo supera e lo contiene. Una lettura in chiave trinitaria dell’antropocentrismo biblico non ne nega la rilevanza, ma lo caratterizza come antropocentrismo relazionale: non come despota, ma come custode e amico l’uomo è posto nel creato, sì che la sua relazione col mondo sia all’insegna non del dominio, ma della comunione. In analogia con la vita relazionale della Trinità, l’uomo è fatto per amare, e realizza sé stesso solo se stabilisce con gli altri esseri umani e con tutte le creature una relazione d’amore, proporzionata a ciascuno.
In questa prospettiva la sfida ecologica acquista nuova luce: sul fondamento della fede trinitaria diviene possibile tracciare le linee di una spiritualità ecologica e di un’etica dell’ambiente ispirate al progetto puro del cristianesimo, la gloria della Trinità. La forma in cui si concretizzano quest’etica e questa spiritualità è segnata dalla partecipazione dell’agire creato al mistero dell’agire eterno: come il divino evento dell’amore si compie nella relazione dell’Amante, dell’Amato e dell’Amore personale, che li unisce e li apre al dono di sé, iniziativa, accoglienza e incontro dell’eterno Amore, analogamente ‑ per l’atto della gratuita partecipazione alla vita del Dio vivente, reso possibile dalla missione del Figlio e dello Spirito ‑ la persona umana celebra la gloria della Trinità attraverso un’iniziativa, un’accoglienza e un incontro, che segnano il suo rapporto con l’universo creato e con la profondità divina del suo mistero.
La spiritualità e l’etica ecologiche vivono, dunque, anzitutto di una “iniziativa”, che riflette quella dell’amore fontale del Padre: il rapporto dell’uomo col creato ne risulta caratterizzato da una partecipazione alla stessa azione creatrice di Dio, in cui viene a consistere ciò che chiamiamo lavoro. Il lavoro rapporta l’uomo alla natura in un modo, che deve riflettere in sé la gratuità dell’azione creatrice del Padre: esso stabilisce con la creazione una relazione di trasformazione e di finalizzazione, che non deve mai essere di semplice strumentalizzazione e sfruttamento, ma di responsabilità e di partecipazione al disegno del Creatore. Il lavoro richiede, pertanto, il rispetto delle cose create nella loro autonomia propria e nella loro finalizzazione al progetto di Dio: questa relazione, che coordina l’iniziativa operosa e trasformante della creatura umana con la dignità e il destino proprio di ciascuna realtà creata, è stata espressa nella tradizione cristiana ad esempio dalla spiritualità benedettina, dove il lavoro scandisce la giornata del monaco come una componente necessaria della sua vocazione alla glorificazione di Dio ed entra armonicamente nel ritmo del tempo qualificato dalla lode dell’Altissimo, inserendovi la natura con i suoi cicli e le sue stagioni. Vivificato dalla preghiera di lode e di intercessione, finalizzato al solo necessario, il lavoro rende l’uomo con‑creatore con Dio, nell’adempimento del precetto “ora et labora”.
La spiritualità e l’etica ecologicamente responsabili vivono quindi di una “accoglienza”, che sia riflesso nel tempo dell’eterno ricevere del Figlio, l’Amato: il rapporto fra la persona umana e il creato ne risulta caratterizzato da una relazione di rispetto profondo verso tutto ciò che esiste, di accoglienza umile e grata della dignità di ogni creatura. Questo rapporto, fatto di sobrietà, di attenzione e di ascolto discreto, riconosce in ogni realtà creata l’evento della donazione originaria da parte del Creatore. L’atteggiamento che ne risulta è la reverentia, termine presente sin dal Principio e fondamento degli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio di Loyola[13]. Essa può essere illustrata con le riflessioni della Contemplazione per ottenere l’amore, che si trova nella quarta settimana degli Esercizi, memoria grata delle meraviglie di Dio, riconoscibili nell’uomo e in tutte le creature: «Dio è presente nelle creature: negli elementi dando l’esistenza, nelle piante dando la vita, negli animali dando la sensibilità, negli uomini dando l’intelligenza; e così è presente in me, dandomi l’esistenza, la vita, la sensibilità, l’intelligenza; inoltre fa di me un suo tempio, poiché sono creato a immagine e somiglianza della sua divina Maestà…»[14]. Lo stupore e la meraviglia dinanzi all’evento sempre nuovo del dono divino divengono spirito di azione di grazie e offerta incondizionata di sé all’Altissimo: «Quindi rifletto su me stesso, considerando che è cosa ragionevole e giusta che io, da parte mia, offra e doni alla sua divina Maestà, tutte le mie cose e me stesso con esse»[15].
La spiritualità e l’etica ecologicamente responsabili vivono, infine, di un “incontro”, continuo e sempre nuovo, fra iniziativa e accoglienza, fra lavoro e recettività riverente, che riflette nel rapporto fra l’uomo e il creato l’opera che lo Spirito Santo compie nell’eterno mistero di Dio. La persona umana vive quest’incontro quando anticipa nel tempo il futuro della promessa di Dio: ciò avviene nella celebrazione della festa. In realtà, solo l’uomo è in grado di pregustare e di far pregustare a tutte le creature del suo ambiente vitale la domenica della vita, il giorno della nuova creazione, in cui è anticipata e promessa all’intero creato la bellezza senza fine del Dio tutto in tutti. L’ottavo giorno, il giorno della resurrezione del Crocefisso nella potenza dello Spirito Santo (cf. Rm 1,4), è pegno della domenica senza tramonto della definitiva creazione rinnovata. Un esempio della capacità di realizzare la relazione della persona umana col mondo della creazione nello spirito della festa è la spiritualità francescana della custodia del creato: essa è ispirata a un rapporto di profonda armonia con l’universo intero, dagli esseri inanimati agli animali e alle creature spirituali, ma è anche carica della tensione anticipatrice della creazione rinnovata. Francesco nel suo Cantico delle creature loda l’Altissimo “cum tucte le creature”, e “per” loro, cioè con esse, a ragione di loro e attraverso di loro, in un legame di comunione e di solidarietà col creato, che, mentre rende grazie per il dono che in esso si è già compiuto, si apre alla Trascendenza inesauribile dell’Eterno e alla nuova creazione promessa.
San Benedetto, Sant’Ignazio e San Francesco offrono così tre modelli eloquenti delle attitudini fondamentali che costituiscono l’etica e la spiritualità ecologiche, radicate nella fede trinitaria: lavoro responsabile e accoglienza rispettosa, riposo nella pace del compimento e festa nella gioia del nuovo inizio accomunano l’uomo e il creato in un rapporto fecondo di amore, che partecipa della donazione originaria e sempre nuova dell’amore creativo dei Tre, e celebra, nella responsabilità verso la grande “casa” del mondo, la gloria della Trinità, “dimora” trascendente e santa di tutto ciò che esiste. Dalla fede trinitaria scaturiscono così l’ispirazione e l’alimento di un’etica ecologicamente responsabile e di una spiritualità capace di relazionarsi alla natura in maniera al tempo stesso rispettosa e creativa, accogliente e incisiva, per rendere il presente del mondo sempre più simile al futuro promesso del tempo in cui Dio sarà tutto in tutti e l’intero universo sarà la patria di Dio. Afferma Papa Francesco: «Il Padre è la fonte ultima di tutto, fondamento amoroso e comunicativo di quanto esiste. Il Figlio, che lo riflette e per mezzo del quale tutto è stato creato, si unì a questa terra quando prese forma nel seno di Maria. Lo Spirito, vincolo infinito d’amore, è intimamente presente nel cuore dell’universo, animando e suscitando nuovi cammini. Il mondo è stato creato dalle tre Persone come unico principio divino, ma ognuna di loro realizza quest’opera comune secondo la propria identità personale. Per questo, quando contempliamo con ammirazione l’universo nella sua grandezza e bellezza, dobbiamo lodare tutta la Trinità» (Laudato si’, n. 238).
La riflessione proposta dalla Laudato si’, infine, si sofferma anche sulle conseguenze politiche, che da quanto vi è detto si possono trarre: anche su questo aspetto, tutto muove dal fondamento biblico. Nella Sacra Scrittura la storia intera si sviluppa nel dialogo fra il Signore dell’universo e gli abitatori del tempo nello scenario della creazione voluta da Dio, in cui l’iniziativa resta sempre del Signore: «La Bibbia non è la teologia dell’uomo, ma l’antropologia di Dio che si occupa dell’uomo e di ciò che egli chiede»[16]. All’uomo la dignità e l’onere della risposta. Proprio così, è alla fede biblica che si deve l’“invenzione” della storia: dove altri videro “l’eterno ritorno” dell’identico, i Profeti riconobbero l’appello a camminare verso una patria intravista, anche se non posseduta, offrendo segni inequivocabili d’attesa. La storia non è l’infinita ripetizione del ciclo dei giorni, ma la risposta a una chiamata, l’andare verso una meta. In questo viaggio l’uomo non è solo: Dio interviene nella storia, sì che il tempo storico diventa anche tempo di Dio, luogo della Sua presenza e delle Sue sorprese. Non l’eternizzazione del presente, ma lo storicizzarsi dell’Eterno è per la tradizione biblica la via dell’incontro degli uomini con il Signore vivente.
Nello scenario descritto, trova il suo spazio proprio anche l’agire politico: certo, la mediazione, arte dei politici, non è arte dei profeti. Essi scelgono piuttosto la denuncia, la critica che scaturisce dalla “riserva escatologica” legata alla loro fede. L’“invenzione” della politica, intesa come esercizio della mediazione fra le parti, appartiene ad Atene, non a Gerusalemme: lo stesso termine “politica” rimanda a quella città unica dove, per la prima volta, apparve la “democrazia”, il governo popolare della “polis”. Se in essa l’“agorá” è il luogo dei commerci e delle manifestazioni della volontà popolare, il “teatro” è lo spazio dove viene data voce al controcanto dell’anima, a tutto ciò che suona come coscienza critica dell’esercizio del potere. La “politica” nasce dalla combinazione della pubblica piazza e del teatro: il suffisso “ikòs” aggiunto a “politéia” – “polítes”, alle figure, cioè, del “cittadino” e della “cittadinanza”, sta a dire che non si fa politica senza il riferimento alla “città” e all’interesse di quanti la costituiscono. Dalle necessità della “pólis” è generata e misurata la mediazione politica; al servizio di essa deve porsi in una continua ricerca volta a realizzare il “bene comune”.
Tutto questo, però, non potrà attuarsi se l’agire politico non farà i conti con le altrui ragioni, e soprattutto con il riferimento al valore ultimo del bene comune e alle esigenze morali che lo garantiscono: la politica ha bisogno dell’etica. Ciò vale anzitutto sul piano di un’etica delle relazioni internazionali: «C’è infatti – scrive Papa Francesco – un vero “debito ecologico”, soprattutto tra il Nord e il Sud del mondo, connesso a squilibri commerciali con conseguenze in ambito ecologico, come pure all’uso sproporzionato delle risorse naturali compiuto storicamente da alcuni Paesi. Le esportazioni di alcune materie prime per soddisfare i mercati nel Nord industrializzato hanno prodotto gravi danni locali» (n. 51). Ecco perché «la cultura ecologica non si può ridurre a una serie di risposte urgenti e parziali ai problemi che si presentano riguardo al degrado ambientale, all’esaurimento delle riserve naturali e all’inquinamento. Dovrebbe essere uno sguardo diverso, un pensiero, una politica, un programma educativo, uno stile di vita e una spiritualità che diano forma ad una resistenza di fronte all’avanzare del paradigma tecnocratico. Diversamente, anche le migliori iniziative ecologiste possono finire rinchiuse nella stessa logica globalizzata. Cercare solamente un rimedio tecnico per ogni problema ambientale che si presenta, significa isolare cose che nella realtà sono connesse, e nascondere i veri e più profondi problemi del sistema mondiale» (n. 111).
L’azione politica di cui c’è bisogno non può limitarsi, poi, ad astratte enunciazioni: «La semplice proclamazione della libertà economica, quando le condizioni reali impediscono che molti possano accedervi realmente, e quando si riduce l’accesso al lavoro, diventa un discorso contraddittorio che disonora la politica. L’attività imprenditoriale, che è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti, può essere un modo molto fecondo per promuovere il territorio in cui colloca le sue attività» (n. 129). Ai politici è necessario ricordare che «la struttura politica e istituzionale non esiste solo per evitare le cattive pratiche, bensì per incoraggiare le buone pratiche, per stimolare la creatività che cerca nuove strade, per facilitare iniziative personali e collettive» (n. 177). Ugualmente, non può essere buona politica quella di rincorrere solo risultati immediati e parziali: «Il dramma di una politica focalizzata sui risultati immediati, sostenuta anche da popolazioni consumiste, rende necessario produrre crescita a breve termine. Rispondendo a interessi elettorali, i governi non si azzardano facilmente a irritare la popolazione con misure che possano intaccare il livello di consumo o mettere a rischio investimenti esteri. La miope costruzione del potere frena l’inserimento dell’agenda ambientale lungimirante all’interno dell’agenda pubblica dei governi… La grandezza politica si mostra quando, in momenti difficili, si opera sulla base di grandi principi e pensando al bene comune a lungo termine» (n. 178).
Bisogna, insomma, contare su politici dallo sguardo lungimirante, tesi ad anteporre a tutto il bene comune, anche sacrificando il proprio: se da una parte «è indispensabile la continuità, giacché non si possono modificare le politiche relative ai cambiamenti climatici e alla protezione dell’ambiente ogni volta che cambia un governo», dal momento che «i risultati richiedono molto tempo», dall’altra la qualità etica dell’impegno politico andrà costantemente richiamata, stimolata e sostenuta. «Che un politico assuma queste responsabilità con i costi che implicano non risponde alla logica efficientista e “immediatista” dell’economia e della politica attuali, ma se avrà il coraggio di farlo, potrà nuovamente riconoscere la dignità che Dio gli ha dato come persona e lascerà, dopo il suo passaggio in questa storia, una testimonianza di generosa responsabilità. Occorre dare maggior spazio a una sana politica, capace di riformare le istituzioni, coordinarle e dotarle di buone pratiche, che permettano di superare pressioni e inerzie viziose…. I migliori dispositivi finiscono per soccombere quando mancano le grandi mete, i valori, una comprensione umanistica e ricca di significato, capaci di conferire ad ogni società un orientamento nobile e generoso» (n. 181).
Ispiratori di una tale azione politica dovranno essere inseparabilmente «il principio di responsabilità e il valore decisivo della solidarietà, perché il sapersi responsabili educa al rispetto del diverso e alla tutela dei suoi diritti. Tenere insieme questi aspetti è il difficile equilibrio cui deve tendere la mediazione politica. Spesso questo equilibrio è violato e occorre attivare processi per ristabilirlo e proteggerlo… La grandezza politica si mostra quando, in momenti difficili, si opera sulla base di grandi principi e pensando al bene comune a lungo termine» (n. 178). Far proprio un tale stile di azione è impegno urgente e necessario per chi s’impegni in politica: una sfida verso cui tenersi sempre pronti, una forma di carità alta, in cui si prepara nel modo più corretto l’avvenire di tutti. In questa prospettiva, Papa Francesco avanza la proposta di una necessaria “conversione ecologica” e di nuovi stili di vita da adottare da parte di tutti e col contributo di tutti, a partire da quello di chi ha responsabilità politiche. Si tratta di sviluppare una vera e propria “ecologia integrale”, che abbracci tutte le dimensioni del rapporto della persona con sé stessa e con l’ambiente in cui vive.
La posta in gioco è il futuro di tutti, anche se lo sguardo di Francesco è rivolto in modo prioritario a coloro che più di altri pagano il prezzo della crisi ecologica: i poveri. È anche in loro nome, oltre che a loro favore, che intende parlare. Anche qui la denuncia è fortemente politica: «Molti di coloro che detengono più risorse e potere economico o politico sembrano concentrarsi soprattutto nel mascherare i problemi o nasconderne i sintomi» (n. 26). Sono peraltro i testi biblici che «ci invitano a coltivare e custodire il giardino del mondo» (n. 67), escludendo ogni «antropocentrismo dispotico che non s’interessi delle altre creature» (n. 68). Ciò che di fatto avviene è, al contrario, il diffondersi di «un sogno prometeico di dominio sul mondo che ha provocato l’impressione che la cura della natura sia cosa da deboli. Invece l’interpretazione corretta del concetto dell’essere umano come signore dell’universo è quella di intenderlo come amministratore responsabile» (n. 116). È necessario cercare insieme soluzioni integrali, inseparabilmente etiche, spirituali e politiche: «Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura» (ib.).
Di fronte a queste sfide soltanto il dialogo franco e solidale fra tutti gli agenti coinvolti potrà offrire risposte affidabili: troppo spesso, invece, si preferisce l’interesse di parte, a tutto svantaggio dei popoli e delle categorie più deboli. Avviene così che «i negoziati internazionali non possono avanzare in maniera significativa a causa delle posizioni dei Paesi che privilegiano i propri interessi nazionali rispetto al bene comune globale» (n. 169). Se la prospettiva è politica, l’appello che le viene connesso è morale e spirituale: la responsabilità verso l’ambiente e le generazioni presenti e future richiede coraggio e lungimiranza da parte di tutti, unitamente alla disponibilità necessaria a fare talvolta anche dei passi indietro per raggiungere la misura della sobrietà, valore inseparabile dalla solidarietà. Il coinvolgimento nell’azione da intraprendere è dunque richiesto a tutti, nessuno escluso, perché la casa comune riguarda ogni persona umana e non c’è chi possa chiamarsi fuori dalla responsabilità verso di essa. D’altronde, la lucidità dell’analisi delle situazioni da cui l’Enciclica muove, la denunzia severa e documentata che propone sul piano morale e spirituale, come su quello economico e politico, la puntualità delle indicazioni avanzate, ne fanno una sfida a cui nessuno potrà moralmente sottrarsi.
Come il Santo di cui porta il nome, Papa Francesco ha dato voce in questa Enciclica all’intera famiglia umana, invitando tutti a unirsi con le proprie scelte a quelle espresse dal Cantico del Poverello d’Assisi, autentico fratello universale. Pure per questo, la Laudato si’ costituisce un testo più che mai da conoscere e da diffondere, anche nella sua dimensione politica, in quanto parola di vita e di speranza, d’impegno e di passione, che il Vescovo di Roma ha lanciato al mondo intero, in maniera tutt’altro che generica e astratta, concretissima anzi e tale da coinvolgere ogni essere umano, che si voglia libero e protagonista di un domani di vita piena per sé e per tutti. Perciò, è giusto e bello unirsi a Papa Francesco nella preghiera per la “nostra terra”, con cui l’Enciclica si conclude: «Dio Onnipotente, che sei presente in tutto l’universo e nella più piccola delle tue creature, Tu che circondi con la tua tenerezza tutto quanto esiste, riversa in noi la forza del tuo amore affinché ci prendiamo cura della vita e della bellezza. Inondaci di pace, perché viviamo come fratelli e sorelle senza nuocere a nessuno. O Dio dei poveri, aiutaci a riscattare gli abbandonati e i dimenticati di questa terra che tanto valgono ai tuoi occhi. Risana la nostra vita, affinché proteggiamo il mondo e non lo deprediamo, affinché seminiamo bellezza e non inquinamento e distruzione. Tocca i cuori di quanti cercano solo vantaggi a spese dei poveri e della terra. Insegnaci a scoprire il valore di ogni cosa, a contemplare con stupore, a riconoscere che siamo profondamente uniti con tutte le creature nel nostro cammino verso la tua luce infinita. Grazie perché sei con noi tutti i giorni. Sostienici, per favore, nella nostra lotta per la giustizia, l’amore e la pace» (n. 246).
[1] Testo inviato da mons. Bruno Forte, i cui contenuti sono stati ripresi nel dialogo con Massimo Tedeschi in occasione dell’incontro tenutosi in Palazzo Loggia a Brescia il 13.9.2022 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura, Fondazione Brescia Musei e Futura.
[2] Dalla radice latina “gna”, che significa generazione, per indicare il processo generativo e il risultato di esso, e perciò l’ambiente, le forme e i soggetti della vita nella sua genesi e nel suo sviluppo.
[3] Cf. le interessanti tesi di E. Tiezzi, Tempi storici, tempi biologici, Milano 1984, 62.
[4] Si pensi solo alla possibilità dell’“inverno nucleare”: con una minima parte degli attuali arsenali nucleari si potrebbe in pochi secondi sollevare nell’atmosfera una tale quantità di fumo, cenere, polvere e scorie, da oscurare per mesi e mesi il sole su interi continenti, arrestando ogni fotosintesi e facendo calare la temperatura a livelli insostenibili per la sopravvivenza di piante, animali e uomini. Si consideri inoltre il problema della durata delle radiazioni: il tempo di dimezzamento della radioattività di un reattore nucleare è calcolato in 24 mila anni.
[5] E. Tiezzi, Tempi storici, tempi biologici, o.c., 56.
[6] Cf. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Id., Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1984, 83s.
[7] Cf. F. Bacone, La grande instaurazione. Aforismi sull’interpretazione della natura e sul regno dell’uomo, I, 3, in Id., Scritti filosofici, a cura di P. Rossi, UTET, Torino 1975, 552: «La scienza e la potenza umana coincidono, perché l’ignoranza della causa fa mancare l’effetto. La natura infatti non si vince se non obbedendo ad essa, e ciò che nella teoria ha valore di causa, nell’operazione ha valore di regola».
[8] G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, 1, La Nuova Italia, Firenze 1979, 13.
[9] Ib., 15.
[10] Cf. Lynn White Jr., The Historical Roots of Our Ecological Crisis, in Science 155(1967) 1203‑1207 (trad. it. in Il Mulino, marzo‑aprile 1973). La tesi della responsabilità storica del cristianesimo nella crisi ecologica è ripresa e sviluppata ad esempio da C. Amery, Das Ende der Vorsehung. Die gnadenlosen Folgen des Christentums, Hamburg 1972; E. Drewermann, Der tödliche Fortschritt. Von der Zerstörung der Erde und des Menschen im Erbe des Christentums, Regensburg 1980. 19833; U. Krolzik, Umweltkrise. Folge des Christentums, Stuttgart ‑ Berlin 1979; ecc.
[11] “If so, Christianity bears a huge burden of guilt”: Lynn White Jr., The Historical Roots…, o.c., 1206.
[12] Cf. le tesi di K. Löwith, Significato e fine della storia, Il Saggiatore, Milano 1989.
[13] «L’uomo è creato per lodare, riverire (hacer reverencia) e servire Dio nostro Signore e per salvare, mediante ciò, la propria anima»: Sant’Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, n. 23.
[14] Ib., nn. 235.
[15] Ib., nn. 234.
[16] A. J. Heschel, L’uomo non è solo. Una filosofia della religione, Rusconi, Milano 19875, 129.