Il mondo è una delle tre idee di Kant (anima, mondo e Dio). Nella seconda parte della Critica della Ragion Pura, Kant, a proposito della conoscenza di anima, mondo e Dio, pone un divieto: queste idee fanno parte del mondo noumenico, che può essere pensato, ma non è conoscibile. Sembra mettere in discussione il modo in cui si è sviluppata la metafisica dell’Occidente. In realtà le cose stanno un po’ diversamente. Nel momento in cui la filosofia in occidente è nata si è sempre interrogata sull’idea di totalità. Già nei frammenti dei presocratici compare la riflessione su tutte le cose. In Eraclito viene esplicitamente detto, come pure in Empedocle, che il cosmo è il tutto. Dalla percezione sensibile delle cose siamo rimandati ad uno sguardo che le raccoglie nel loro insieme e riesce a comprendere l’essenza delle cose facendo riferimento ad un tutto in cui tutte le cose sono. Questa idea si sviluppa anche in pensatori che sembrano ben lontani da una prospettiva metafisica, come in Democrito, quando parlava dell’atomo, la cui indivisibilità è molto dissimile dall’attuale fisica quantistica, però riteneva l’atomo come uno schema, un modello, una forma per poter comprendere le cose. Dietro a questa affermazione c’è anche la proposta di Platone quando, a proposito della conoscenza delle cose, dice che noi attingiamo la realtà delle cose non quando ci fermiamo alla loro percezione sensibile, ma quando riusciamo a cogliere in ogni cosa l’idea che la struttura. L’idea è il vero essere, è eternità, perfezione, l’idea è l’archetipo, la forma di tutte le cose. È importante considerare questo aspetto con cui nasce l’Occidente. Quando la filosofia si riferisce alla realtà non si riferisce soltanto alla percezione sensibile, al modo in cui le cose appaiono, ma al fatto che la loro struttura interna è qualcosa di permanente, che si sottrae al divenire, quando si guardano le cose cogliamo in esse una permanenza, una struttura che è uguale per tutte le cose. Questa strategia che Platone imprime alla riflessione occidentale è estremamente importante perché condiziona anche il nostro modo attuale di comprendere la realtà. Quando Aristotele dice che la sostanza va intesa non come un’idea astratta, separata, ma come unione di materia e di forma, mette in risalto che la vera realtà è la forma. La comprensione filosofica del mondo è tale solo quando si rivolge alla totalità e quando cerca di comprendere la sua vera realtà, che non è quella sensibile, ma intelligibile (=ciò che può essere pensato). Quando Kant dice che le grandi idee della totalità non sono conoscibili, ma pensabili, ovvero intelligibili, non si distacca molto da questo modello.
Nel momento in cui Eraclito per primo dice che bisogna riflettere sulla totalità delle cose, che il cosmo è un tutto unico, come si è giunti alla prospettiva contemporanea?
Partirei quindi dal modo in cui il mondo è inteso nell’antica Grecia. Il mondo è cosmo, che significa ordine, le cose fuori dal mondo vivono nel caos. Platone spiega nel Gorgia che cosa sia il cosmo:
«I sapienti dicono che a tenere insieme cielo, terra, dèi e uomini sono la comunanza, l’amicizia, l’ordine, la temperanza e la giustizia; ed è proprio per questo, amico mio, che essi chiamano questo intero universo “cosmo”, ordine, e non, invece, disordine o dissolutezza» (507e-508a).
La filosofia nel suo atto di nascita prende in considerazione le cose a partire da un modello ordinato, le cose hanno una loro collocazione all’interno del tutto ed è lo stesso principio che governa nel Timeo:
«Il demiurgo voleva che il mondo assomigliasse in tutto, e quanto più è possibile, al più bello e al più perfetto tra gli esseri intelligibili, e per questo motivo ha prodotto un vivente unico, visibile, che comprende in sé tutti i viventi che gli sono per natura congeneri… Non fece più mondi, ma solo questo, e gli diede forma e movimento circolari così che fosse solo, solitario, capace per sua virtù di stare con se stesso senza avere bisogno di nient’altro, sufficientemente conoscitore e amante di se stesso. Operando in questo modo egli lo generò come un dio felice» (30d, 34b).
Che cosa vuol dire considerare tutti i viventi all’interno di un cosmo ordinato? Vuol dire che il peso, l’attenzione, è dettata dalla struttura fisica, naturale, al modo in cui le cose stanno fuori di noi, nella natura; le religioni imprimano a questa comprensione del cosmo, dell’ordine una svolta decisiva. Basta guardare all’Antico Testamento per capire che quando si parla di mondo non si intende la natura, ma si intende un mondo in quanto storia, l’ordine non è quello naturale, ma è una legge, è il modo con cui Dio chiama il proprio popolo ed è questa dimensione della storicità, del viaggio del farsi popolo che diventa la prospettiva del cosmo. Nel Nuovo Testamento le cose cambiano ancora perché l’attenzione si sposta dalla dimensione della storia a quella della singolarità dell’uomo vivente che deve aderire al progetto divino. Il cosmo della natura presente nella concezione greca diventa prima un cosmo in quanto storia e infine un ordine valoriale, un insieme di valori a cui il credente ubbidisce e seguendo questo ordine l’uomo diventa sé stesso. «Dio ha inviato il suo unico Figlio nel mondo. Non dovete intendere come mondo esterno, in quanto egli mangiava e beveva con noi, ma dovete intenderlo in relazione al mondo interiore. Così come il Padre, nella sua semplice natura, genera il Figlio, altrettanto naturalmente lo genera nella parte più intima dello spirito, e quello è il mondo interiore. Qui il fondo di Dio è il mio fondo, e il mio fondo il fondo di Dio» (Eckhart, Sermo 38).
Nel corso del Medioevo dal momento che l’uomo sta all’interno del mondo, il riferimento al mondo non è più quello esterno ma è il mondo dell’interiorità, l’incarnazione di Cristo parla di un’unione tra uomo e Dio che avviene nell’interiorità e qui si vedono già gli spostamenti che assume la nozione di mondo, di cosmo. Dalla natura alla storia, ai valori, all’interiorità dell’anima. Questi passaggi fanno parte di uno sviluppo storico. Nella cultura medievale ciò che interessa è staccare l’uomo dalla materialità e aderire sempre di più alla dimensione spirituale. Questo avviene grazie al fatto che l’interiorità è il luogo dove può avvenire il cambiamento.
Con Cusano si fa riferimento ad una prospettiva che è radicalmente innovativa, qui inizia un cambiamento epocale:
«Dio creò tutte le cose per sé stesso, e le creò nel modo più grandioso e perfetto, appunto perché l’universo è finalizzato a lui. Tuttavia, questo stesso universo non poteva essere unito a lui, poiché non c’è nessuna analogia di proporzione tra il finito e l’infinito». (Sermo 22).
Affermazione che dà inizio alla modernità perché l’infinità è un attributo di Dio. Dio è l’infinito e il mondo è qualcosa di finito creato da Dio, però la relazione tra Dio e uomo non è più qualcosa di semplicemente naturale, storico, valoriale, ma diventa una questione di categorie filosofiche. La relazione diventa tra finitezza e infinità e piano piano ci sarà uno slittamento dell’attributo dell’infinità da Dio al cosmo. Dio privato della nozione di infinità diventa una nozione subordinata a quello di mondo. Da Giordano Bruno in avanti si inizia a pensare al cosmo non più in termini inerenti alla nostra visione del pianeta terra, ma in una prospettiva molto più ampia, un insieme di pianeti e di sistemi in cui l’infinità diventa la nozione che governa tutte le cose. Come si fa a conoscere l’infinità? La conoscenza del mondo richiede degli strumenti adeguati.
«La filosofia è scritta in questo grandissimo libro, che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intenderlo se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, nei quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, e altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto» (Galileo, Saggiatore 45).
Qui Galileo introduce una nozione nuova; in che lingua è scritto il mondo? Caratteri matematici e geometrici. La scienza diventa il modo in cui siamo in grado di conoscere la realtà, che è così conoscibile. Ciò che cambia è la nozione di verità. Non si parla più di verità del mondo, ma si parla di validità, di oggettività, di ciò che l’uomo può conoscere in termini oggettivi. Qui inizia la distanza tra soggetto e oggetto, l’uomo non è più colui che appartiene ad un tutto organico, ad un cosmo ordinato, ma è colui che si chiama fuori, colui che possiede degli strumenti di conoscenza adeguati a poter conoscere in termini oggettivi questa validità. Validità che tutti possono riconoscere, perché è il modo in cui le cose sono fatte. A questo punto il rapporto tra uomo e cosmo cambia radicalmente. La nozione fondamentale è che il cogito è ciò che attribuisce senso alle cose, ciò che fa sì che le cose abbiano un valore. In questa prospettiva Dio non ha funzioni creatrici.
C’è una tradizione di pensiero che Kant eredita: il razionalismo, ovvero dogmatismo, dispotismo e l’empirismo, che per lui equivale allo scetticismo. Da questa eredità così conflittuale Kant ne esce in modo geniale, affermando che occorre considerare il modo in cui si conosce la realtà negli stessi termini in cui la scienza è riuscita a diventare scienza. Siccome c’è una matematica, una geometria, anche la filosofia deve giungere a questa dimensione di verità, nel senso di oggettività e di giustificazione. Progetta una metafisica totalmente rinnovata. Tutta la prima parte della Critica della Ragion Pura è una metafisica, Kant è riuscito a progettare un’ontologia nei termini di una scienza. Con un’esibizione di modestia e di umiltà Kant è anche colui che dice che la realtà non è fatta solamente di queste cose sensibili. La materia è data, noi siamo esseri passivi, tuttavia la conoscenza non può essere solo data. Come si passa dalla mera passività all’arche delle cose? Ci sono degli “oggetti” che non sono come quelli di cui noi abbiamo esperienza, ci sono degli “oggetti” particolari: l’anima, il mondo e Dio, che non sono fenomeni, non sono dati con una materia, ma se non hanno materia non possono essere conosciuti a posteriori e nemmeno a priori perché il passaggio dall’essenza dell’oggetto alla definizione non è comprensibile attraverso la scomposizione del concetto. Questi “oggetti” particolari devono essere raggiunti in un altro modo, per un’esigenza insopprimibile dalla ragione, la ragione o è metafisica o non è ragione. L’unica strada è quella della morale. La ragione è una facoltà del desiderio e desiderare è possibile solo a partire da precisi postulati. Ragione che è illuministica e quindi si basa sul principio del sapere aude, abbi il coraggio di usare la tua ragione, ovvero di desiderare. Desiderare le grandi idee della totalità. La Critica della Ragion Pratica inizia parlando di libertà, che prima di essere reale è trascendentale: la libertà è reale, cioè possiamo esercitarla, unicamente se essa è resa possibile, siamo liberi unicamente se siamo liberati da una legge morale che è scritta in ogni uomo. L’uomo è essenzialmente un essere morale.
«Tutte le molteplici creature, per quanto grande sia l’arte della loro organizzazione e molteplice la connessione che le riferisce finalisticamente l’una all’altra, e anche l’insieme stesso di così tanti sistemi, che noi chiamiamo erroneamente mondi, esisterebbero per niente, se non ci fossero in essi gli uomini (esseri razionali in generale); in altre parole, senza l’uomo, l’intera creazione sarebbe un semplice deserto, inutile e privo di un fine ultimo… Poiché noi ora riconosciamo l’uomo come fine della creazione soltanto in quanto è un essere morale, abbiamo innanzitutto un motivo, o almeno la condizione principale, per considerare il mondo come un tutto strutturato secondo fini e come un sistema di cause finali; ma soprattutto abbiamo, per la relazione – che ci è necessaria data la costituzione della nostra ragione – dei fini della natura con una causa intelligente del mondo, un principio che permette di pensare la natura e le proprietà di questa causa prima come fondamento supremo nel regno dei fini e di determinarne così il concetto – cosa che non era in grado di fare la teleologia fisica» (Kant, Critica del Giudizio, § 86).
Ciò che non si poteva dimostrare è dato a partire dal fatto che l’uomo è un essere morale. L’ordine del mondo non è qualcosa di dato all’interno del quale l’uomo si trova, ma poiché l’uomo è un essere morale allora il mondo è un tutto ordinato. Questa è la rivoluzione copernicana, ribaltamento totale della prospettiva in cui è considerato il mondo. È la moralità il luogo in cui finalmente trova espressione il tratto più specifico dell’essere uomini, è qui che si apre la ragione in quanto desiderio al mondo sovrasensibile. Anima, mondo e Dio è qualcosa che è dato dalla nostra struttura morale.
«Noi indichiamo spesso oggetti belli della natura o dell’arte con termini che sembrano avere per fondamento una valutazione morale. Diciamo che edifici o alberi sono maestosi e splendidi o che i campi sono ridenti e lieti; gli stessi colori sono detti innocenti, modesti, delicati perché suscitano sensazioni che contengono qualcosa di analogo alla coscienza di uno stato d’animo prodotto dai giudizi morali» (Kant, Critica del Giudizio, § 59).
Moralità e bellezza sono un tutt’uno. Ordine dell’intelligibilità, della pensabilità, della moralità, questa è la bellezza.
Da tutto questo sistema di pensiero ci sono tante altre vie. Io ricordo il passaggio della La gaia scienza di Nietzsche:
«Guardiamoci dal pensare che il mondo sia un essere vivente… guardiamoci bene dal credere che l’universo sia una macchina… L’ordine astrale in cui viviamo è un’eccezione; questo ordine e la considerevole durata, di cui è la condizione, hanno reso a loro volta possibile l’eccezione delle eccezioni: la formazione dell’organico. Il carattere complessivo del mondo è invece caos per tutta l’eternità, non nel senso di un difetto di necessità, ma di un difetto di ordine, articolazione, forma, bellezza, sapienza e di tutto quanto sia espressione delle nostre estetiche nature umane. A giudicare dal punto di vista della nostra ragione, i colpi mancati sono di gran lunga la regola, le eccezioni non sono i fini segreti, e l’intero congegno sonoro ripete eternamente il suo motivo che non potrà mai dirsi una melodia…» (§ 109).
L’affermazione del paragrafo 59 di Kant è qui confutata da Nietzsche, che contesta la posizione di un cosmo ordinato. In realtà Nietzsche un ordine lo dà perché la sua proposta della volontà di potenza in realtà è un mettere in gioco un oltre uomo che conferisce ordine e non adeguandosi a come stanno le cose.
Concludo tutto questo con un richiamo alla questione che propone Heidegger con l’idea di totalità: «Mondo significa la manifestatività dell’ente in quanto tale nella sua totalità» (I concetti fondamentali della metafisica, p. 384). Definizione che fa leva sulla nozione di totalità, l’ente è qualcosa che si manifesta, coinvolta la nozione aristotelica. Questa manifestazione è una totalità ed è ciò che viene chiamato mondo.
«C’è una unità originaria entro la quale i quattro – terra e cielo, divini e mortali – sono una cosa sola… l’inspiegabilità del mondo risiede nel fatto che cose come cause e ragioni fondanti restano inadeguate al farsi mondo del mondo… la volontà di spiegazione che l’uomo ha non arriva in generale al semplice della semplicità del farsi mondo. I quattro, di per sé uniti, sono già irrigiditi nella loro essenza quando li si rappresenta come realtà separate che devono essere fondate e spiegate l’una in base all’altra» (Heidegger, Saggi e discorsi, p. 99, 120).
È interessante questo passaggio in cui Heidegger afferma che terra e cielo sono lo stesso. La terra non è semplicemente ciò su cui si pongono i piedi, la terra è ciò che regge tutti i viventi e il cielo è ciò verso cui i viventi alzano lo sguardo. È interessante ricordare questo passaggio perché è alla base della filosofia del 900.
Ricordo ora tre autori che propongono tre spunti diversi con cui pensare il mondo.
Merleau-Ponty: «La coscienza ha per unico oggetto l’esperienza quotidiana: questo mondo, gli altri, la storia umana, la verità, la cultura. Ma anziché prenderli come belle fatti e come se fossero ovvi, riscopre la loro estraneità fondamentale: il miracolo della loro comparsa, la contingenza di tutto quel che esiste e di tutto quel che vale…» (Senso e non senso, p. 117, 119). Cos’è dunque la libertà? «Nascere è nascere dal mondo e al tempo stesso nascere al mondo. Il mondo è già costituito, ma non è mai completamente costituito. Sotto il primo rapporto noi siamo sollecitati, sotto il secondo siamo aperti a una infinità di possibili… noi scegliamo il nostro mondo e il mondo ci sceglie… siamo mescolati al mondo e agli altri in una confusione inestricabile» (Fenomenologia della percezione, p. 578-579).
Il mondo è un luogo da cui si proviene, ma anche un luogo in cui il soggetto si apre. Il mondo non è fatto di cose, è fatto di altri, di storie umane, di verità e con queste cose l’uomo è sempre in relazione. Noi siamo mondo e occorre restare al mondo, l’uomo non è uomo se non in questa relazione ed è in questa relazione grazie alla sua corporeità. L’uomo non è una coscienza che si rapporta a questo mondo, ma un pensiero, una tradizione che vive all’interno del corpo, che in quanto corpo sta già dentro il mondo, ma il senso di questo va continuamente dato. Ognuno di noi è fonte di interpretazione di un mondo.
A queste parole si può legare la riflessione di Blumenberg: «Nessuna coscienza ci dà direttamente notizia della nascita e della morte… È per la via indiretta di un’esperienza esterna che dobbiamo apprendere che si nasce e si muore, che in ogni caso il mondo era e resta il mondo degli altri… Ogni esperienza storica si compie nella forbice di tempo della vita e tempo del mondo, una forbice che è già aperta e che si apre sempre di più. Il giunto delle lame, il punto della loro convergenza si trova al di là di ciò che può essere ancora accessibile come storia: nell’interiorità indeterminata di stati della coscienza che possiamo solo ricostruire…» (Tempo della vita e tempo del mondo, p. 94-95). Sta ad indicare che il mondo di cui noi abbiamo coscienza, è il mondo che da sempre c’era e da cui noi siamo venuti e al quale siamo in relazione, non è il soggetto umano staccato dal mondo che fa il mondo, ma è l’incontro dell’esterno con noi che fa sorgere una coscienza, la quale diventa luce, raggio che illumina una parte di mondo in quanto è chiamata dall’esterno, dal mondo stesso ad una attribuzione di senso.
Questa versione dei fatti è significativa perché nonostante siamo usciti dalla modernità e siamo in un’epoca detta della post-modernità questa idea che siamo noi che diamo senso al mondo deve cambiare e non cambia. L’idea dell’uomo come colui che può dirigere autocraticamente il mondo, senza rispetto di ciò che ci ha dato, è una modalità di pensare destinata a creare problemi. Di tutto ciò ci si rende conto quando si riflette sul tempo proprio della vita e sul tempo del mondo, il tempo della vita purtroppo non sarà mai adeguato al tempo del mondo, il nostro tempo è breve e il tempo del mondo è di un altro ordine.
Termino con la lettura di alcuni testi di Hannah Arendt:
«Il termine “pubblico” significa il mondo stesso, in quanto è comune a tutti e distinto dallo spazio che ognuno di noi vi occupa privatamente. Questo mondo, tuttavia, non si identifica con la terra o con la natura, come spazio delimitato che fa da sfondo al movimento degli uomini e alle condizioni generali della vita organica… Vivere insieme nel mondo significa essenzialmente che esiste un mondo di cose tra coloro che le hanno in comune, come un tavolo è posto tra quelli che vi siedono intorno; il mondo, come ogni in-fra, mette in relazione e separa gli uomini nello stesso tempo» (Vita activa, p. 39).
Il mondo è un luogo che fa sì che le persone possano relazionarsi, avere un mondo vuol dire riconoscere che c’è qualcosa che ci tiene insieme. Il nostro atteggiamento nei confronti del mondo non può essere quello di uno spettatore. «Non esiste in questo mondo nulla e nessuno il cui essere stesso non presupponga uno spettatore. In altre parole, nulla di ciò che è, nella misura in cui appare, esiste al singolare: tutto ciò che è, è fatto per essere percepito da qualcuno. Non l’uomo, ma uomini abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della terra… Gli esseri viventi, uomini e animali, non soltanto sono nel mondo, sono del mondo, e questo proprio perché sono nello stesso tempo soggetti e oggetti, che percepiscono e sono percepiti» (La vita della mente, p. 99-100). L’umanità non esiste, esistono le persone, è questa la realtà. L’uomo è sempre una persona concreta, singolare, individuale e irripetibile.
«La fine del mondo comune è destinata a prodursi quando esso viene visto sotto un unico aspetto e può mostrarsi in una sola prospettiva» (Vita activa, p. 43).
Questo è il pericolo del nostro tempo, ovvero il modo in cui noi molto spesso pensiamo il mondo, cioè l’espressione del nostro punto di vista. Inevitabilmente abbiamo una prospettiva sul mondo, la realtà è già sempre costruita con una prospettiva. Questo stare insieme della realtà deve corrispondere anche al riconoscimento più onesto e più umile che il nostro modo di vedere le cose è solo un modo di vedere le cose. Necessario, ma che non può essere assolutizzato. Il nostro mondo è un mondo comune ed è tale nella misura in cui ognuno si fa consapevole che la propria prospettiva è solo una delle tante prospettive sul mondo. L’assoluta mancanza di prospettiva sta generando effetti forse irreversibili sul nostro vivere comune.
Nota: Trascrizione, rivista dall’Autore, della conversazione tenuta a Brescia il 24.2.2023 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.