Lezioni di filosofia: Dio

Vorrei fare qualche passo di approssimazione a questa idea straordinaria. Dio è un termine che la filosofia ad un certo punto, nella modernità, ha considerato impronunciabile. Eppure, per millenni, Dio è stato l’oggetto del pensiero filosofico, ancora Hegel diceva che in fondo la filosofia non ha altro oggetto che Dio. Poi conosciamo le difficoltà soprattutto novecentesche ad usare questo termine. Alcuni autori hanno provato a scriverlo sbarrando il nome (Dio), per sottolineare il fatto che ogni volta che lo dici non stai veramente dicendo quello. Tutte le volte che noi cerchiamo di pensare a qualcosa di così superiore alla nostra possibilità di concettualizzazione noi travalichiamo i limiti del nostro linguaggio. Dio è una parola talmente complessa che per pensarla dobbiamo chiederci se quel termine può avere un significato per noi.

Torniamo all’inizio della storia della filosofia quando Aristotele ci ha dato un vocabolario perfetto per pensare. Nella sua Metafisica Aristotele ci dice che possiamo occuparci di tutto, ma che quando facciamo veramente filosofia per prima cosa noi stiamo cercando i principi primi, le cause di tutto ciò che è. Ma allora se stiamo cercando il principio non possiamo chiamarlo Dio? Aristotele ci dice che questa è filosofia prima o teologia. Io credo che ripartire da qui abbia per noi un significato prezioso, ovvero la preziosità di guardare a Dio filosoficamente, come archè, il principio da intendersi come qualcosa che supera la fisica, la matematica e che solo la teologia può risolvere. Allora questo Dio che è archè, principio, ha solo una valenza logica per noi? Non ha niente a che fare con le grandi domande di senso, con una ricerca esistenziale e religiosa? Pascal, un grande filosofo cristiano della piena modernità, teneva stretto a sé, addirittura cucito nella sua giacca un foglio che esprimeva la sua fede non nel Dio dei filosofi, ma al Dio di Abramo, di Giacobbe e di Gesù Cristo, ovvero un Dio di fronte al quale si può cadere in ginocchio e pregare.

Mi piacerebbe pensare che la filosofia non debba essere relegata nella dimensione gnoseologica, ovvero chiedere ai filosofi di dare definizioni logiche ad un eventuale concetto di Dio. La nostra è un’epoca di grandi incontri, ci incontriamo con persone di fedi diverse e rischiamo di cadere in un pernicioso sincretismo. Credo che nell’affrontare una lezione su Dio ci accorgiamo subito di creare un intreccio tra filosofia, teologia e religione. Certo che una filosofia può essere atea, e molti credenti appartenenti a diverse confessioni religiose temono che la filosofia come mentale esercizio del dubbio da essere pericolosa per la fede. La filosofia dunque può fare a meno della teologia. La teologia è più difficile che faccia a meno della filosofia, giacché la teologia è filosofia che si concentra sul principio primo. Ci sono teologie che provano a pensare Dio senza utilizzare il patrimonio culturale ebraico-cristiano. Potremmo avere una teologia che non utilizza l’apparato concettuale della filosofia, se per filosofia intendiamo ciò che parla greco. Se parliamo di religione non stiamo sottintendendo che possiamo parlare solo della religione ebraico-cristiana, ma possiamo parlare di quella che è l’esperienza religiosa che ci accumuna a prescindere da quale sia la nostra appartenenza. Secondo me, usando il singolare, riusciamo ad essere più universali, rispetto ad un plurale che sembra dialogico, ma non lo è. La religione, che potrebbe permettersi di dimenticare la fatica del concetto, cioè la fatica del lavoro filosofico-teologico, rischia di cadere nella superstizione e di non essere più una fede autentica, che sta coerentemente dinanzi alle sfide che le vengono poste. Noi proviamo filosoficamente a pensare a Dio. Noi non pensiamo Dio come pensiamo gli altri concetti. Tutte le volte che crediamo di poterlo conoscere non è così, questo è un aspetto fascinoso, questo straordinario mistero ed è ciò che ci accumuna in quanto umani perché potrei proporre lo stesso paradigma di ragionamento circa il concetto di uomo, quando proviamo a dire che cos’è l’uomo noi ci accorgiamo che ogni volta che riusciamo a definirlo lo abbiamo già perso, ne abbiamo escluso delle parti. L’uomo non può essere definito, determinato. Quando parliamo di Dio sappiamo che la nostra mente, il nostro cuore si dilatano.

Cartesio ci ha insegnato qualcosa di strepitoso, ovvero che abbiamo in noi un’idea che non ci appartiene. È un’idea impensabile ed è l’idea di infinito, idea che facilmente si appaia con Dio. Quando arriviamo a Dio scopriamo che abbiamo in noi questa idea strabiliante di infinito pur essendo esseri finiti, questa è una banale constatazione, l’uomo è finito. Noi finiti ci scopriamo capaci di un pensiero che è dentro di noi per questo lo chiamiamo infinito, ma non è un pensiero che ci qualifica. L’idea di Dio è l’unica idea che qualifica in maniera appropriata l’umano che siamo proprio perché il concetto di Dio ci somiglia perché è l’indeterminabile, l’impossibile. Solo i filosofi provano a pensarlo spingendo i limiti sempre più in là. Questo ci somiglia, come abbiamo detto prima, perché l’uomo non sta mai dentro una definizione, se proviamo a definirci stiamo già escludendo qualcosa o qualcuno. Questa idea di infinito in noi è ciò che qualifica la nostra stessa grandezza, se siamo degli esseri viventi capaci di pensare più di quanto siamo noi per noi stessi, siamo un bicchiere che contiene più della nostra stessa misura. Noi stessi ci scopriamo in quanto umani, esseri viventi, che avendo in sé stessi l’idea di infinito non finiscono mai di finire; dunque, quando pensiamo Dio come ciò che non è finito, scopriamo la grandezza che noi siamo come essere che è capace di un’idea così strepitosa. Potremmo arrivare a dire che se noi siamo capaci di arrivare a formulare un’idea così straordinaria come quella dell’infinito in noi, cominciamo a metterci dentro a questa avventura che è umano-divina, perché mentre cerchiamo di conoscere chi è Dio, noi ci siamo già messi sulla strada di chi sta provando a cercare chi è. Non c’è il Dio delle religioni e un Dio dei filosofi, ma c’è il Dio dell’uomo che egli nutre in sé, c’è questo desiderio di infinito che non cessa mai di finire. La dimensione del desiderio ha questa stranezza strabiliante che più si colma più cresce. Questa approssimazione verso l’idea dell’infinito, per cui noi più approfondiamo, più lavoriamo in direzione verso ciò che ci stimola costantemente, perché è inafferrabile e continua a distanziarsi, in realtà qui troviamo una forza di vita, legata al concetto del più grande di me in me. Questa idea di Dio, di questa origine la trovo dentro di me.  Esperienza che scopriamo in noi, si tratta di attingere ad una fonte che è dentro, è quel sé profondo che troviamo in noi come ciò che ci costituisce.

Plotino era già convinto, nel suo tempo, che Dio non sia comunicabile. Plotino è un grandissimo maestro nella ricerca di Dio come la fonte e come l’origine che troviamo non fuori, ma dentro di noi.  Ci interessa vedere cosa ci racconta Plotino quando immagina un sacerdote che sta andando verso il santuario posto in cima al monte e per arrivare vede diverse statue che verranno tutte abbandonate (tutte le simbologie, le allegorie), il sacerdote solitario arriva al tempio, entra nel santuario e per lui c’è questo momento di contemplazione, o meglio dire con parole greche il momento della visione teoretica. Plotino non vede nulla con gli occhi del corpo. La ricerca di Dio non è per pochi, è per tutti, ma ognuno deve percorrere la propria. In questo momento di piena contemplazione del divino Plotino ci racconta una vera e propria esperienza estatica. Plotino fa questa esperienza straordinaria di essere non più in sé, ma fuori dalla sua esperienza quotidiana e scopre di essere uno con non ciò che cercavo, come se due cerchi diventassero concentrici. Non mi distinguo più tra io che cerco Dio, io che cerco me, io che non conosco chi sono, in quel momento, in cui siamo in una dimensione extratemporale, dentro il momento estatico Plotino ci segnala la possibilità di essere uno con il divino cercato, questo è il momento che ci pacifica con tutta la ricerca, perché non è più una fatica, un dover essere, ma una pacificazione. È un momento di appagamento del desiderio tale per cui anziché cessare quel desiderio dell’incontro il desiderio è ancora più infiammato. Parliamo di Dio perché parliamo di ciò di cui umanamente facciamo esperienza soltanto come una continua ricerca di qualcosa che è sempre di più.

Leggiamo a questo riguardo il passo delle Enneadi, VI, 11: «Proprio questo vuol significare quel famoso comando dei nostri misteri: «non divulgare nulla ai non iniziati»; appunto poiché il divino non è da divulgarsi, fu vietato di manifestarlo altrui, tranne che quest’altro abbia già avuto di per sé stesso la ventura di contemplare. Ora, poiché non erano due, ma egli stesso, il veggente, era una cosa sola con l’oggetto visto (non “visto”, ma “unito”), chi divenne tale, allora, quando si fuse con Lui, ove mai riuscisse a ricordare, possederebbe presso di sé una immagine di Lui. Egli però era già uno di per sé, in quel momento, e non serbava in sé nessuna differenziazione né in confronto a se stesso né in rapporto alle altre cose; poiché non c’era in lui alcun movimento: non animosità, non brama di nulla erano in Lui, asceso a quell’altezza; ma non c’era nemmeno ragione né pensiero alcuno; non c’era neppure lui stesso, insomma, se è proprio inevitabile dire questa enormità! E invece, quasi rapito o ispirato, egli è entrato silenziosamente nell’ isolamento e in uno stato che non conosce più scosse e non declina più dall’essere di Lui e non si torce più verso se stesso, compiutamente fermo, quasi trasformato nella stessa immobilità.

Persino le cose belle, egli le ha oramai valicate; anzi, egli corre già al di sopra del bello stesso, al di là del coro delle virtù: somiglia a uno che, penetrato nell’ interno dell’invarcabile penetrale, abbia lasciato alle spalle le statue rizzate nel tempio; quelle statue che, quando egli uscirà di nuovo dal penetrale, gli si faranno innanzi per prime, dopo 1’intima visione e dopo la comunione superna non con una statua, non con una immagine, ma con Lui stesso; quelle statue che sono, per certo, visioni di second’ordine. Pure lì non ci fu certo una visione pura e semplice ma una visione in un senso ben diverso: estasi, dico, e semplificazione estrema e dedizione di sé e brama di contatto e quiete e studio di aggiustarglisi ben bene; solo così si può vedere ciò che si trova nel penetrale; ma se uno guardi in altra maniera, tutto dilegua per lui. Ora, tutto questo è una pallida immagine, una allusione velata di Vati sapienti, della maniera onde si lascia contemplare quell’altissimo Iddio; pure, un saggio sacerdote, che comprenda l’allusione, può ben giungere alla verace visione del penetrale sol che entri lì dentro. Anche se non vi entra, se cioè pensa che questo penetrale sia qualcosa d’ invisibile, la Sorgente e il Principio, egli saprà tuttavia che solamente il Principio vede il Principio, e che solo con il simile il simile si fonde; e non trascurerà nulla di tutto quel contenuto divino che l’anima sua riesce a serrar dentro, già prima della visione; e il resto, poi, lo pretenderà dalla visione stessa. Il resto, cioè, per chi ha valicato tutto, è proprio Colui che è anteriore al tutto. L’anima, è vero, non può mai e poi mai pervenire all’assoluto non-essere; ma, se va in basso, scende al male, e così, verso il non-essere, ma non proprio al completo non-essere; invece, correndo sulla via opposta, ella giunge non a un altro ma a se stessa; e in questo senso, poiché non è in un altro, non può essere in nulla ma solo in se stessa; ma l’espressione “in sé sola e non nell’essere” equivale “in Lui”; e il contemplante, quale che sia, diventa persino “non-essere” ma “al di là dell’essere” proprio in quanto si unisce intimamente a Lui. Dunque, se alcuno si veda già trasformato in Lui, questi possiede in se stesso una similitudine di Lui e se trapassa da sé, copia, all’originale, ha oramai toccato il termine del suo viaggio. Ma se decade dalla contemplazione, egli può ridestare di nuovo la virtù ch’è in lui e, meditando sul suo essere così perfettamente adorno, ritroverà la sua leggerezza e salirà allo spirito sulla via della virtù e a Lui mediante la saggezza. «Ed ecco la vita degli dèi e degli uomini divini e beati: separazione dalle restanti cose di quaggiù, vita cui non aggrada più cosa terrena, fuga da solo a solo».

Con Agostino siamo qualche secolo dopo Plotino e siamo già con un Cristiano. Agostino ha esercitato la filosofia non come uno studente di una disciplina, ma egli dice che non c’è nessun motivo di occuparsi di filosofia se non per essere felici. Si fa filosofia perché si vuole la felicità. Agostino che cerca Dio come fonte, come origine, come ciò che è la verità vivente, come verità da vivere, da sperimentare. In questa pagina Agostino ci racconta di un colpo di fulmine, pagina appassionata, vediamo narrato il rapporto che Agostino ha con il Dio cercato e trovato, in una dimensione che è sempre di mistero. Scrive una dichiarazione d’amore al Dio che ha trovato. Siamo di nuovo in un’esperienza estatica, esperienza di un filosofo che cerca cosa è vero. La relazione con Dio non è fredda, Dio lo si pensa come vita pulsante. Dio è il di più di tutto.

Della ricerca di Dio ne parla nel Libro X delle Confessioni:

«Ciò che sento in modo non dubbio, anzi certo, Signore, è che ti amo. Folgorato al cuore da te mediante la tua parola, ti amai, e anche il cielo e la terra e tutte le cose in essi contenute, ecco, da ogni parte mi dicono d’amarti e lo dicono senza posa a tutti gli uomini, affinché non abbiano scuse. Più profonda misericordia avrai di colui, del quale avesti misericordia, userai misericordia a colui verso il quale fosti misericordioso. Altrimenti cielo e terra ripeterebbero le tue lodi a sordi. Ma che amo, quando amo te? Non una bellezza corporea, transitoria; non lo splendore della luce, così caro a questi miei occhi; non le dolci melodie, non la fragranza dei fiori, degli unguenti e degli aromi, non la manna e il miele, non le membra care agli amplessi della carne. Nulla di tutto ciò amo, quando amo il mio Dio. Eppure, amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell’amare il mio Dio. Nell’uomo interiore splende una luce non avvolta dallo spazio, risuona una voce non travolta dal tempo, olezza un profumo non disperso dal vento, si assapora un gusto che la nausea non scema, si stringe un’unione che la sazietà non può disciogliere. Questo è quello che amo, quando amo il mio Dio. Ma Dio chi è? Interrogai la terra e mi rispose: “Non sono io”; la medesima confessione fecero tutte le cose che si trovavano in essa. Interrogai il mare e i suoi abissi e i relitti con anime vive e mi risposero: “Non siamo noi il tuo Dio; cerca sopra di noi”. Interrogai i venti e l’aria con i suoi abitanti e mi rispose: “Sbaglia, Anassimene, io non sono Dio”. Interrogai il cielo, il sole, la luna, le stelle: “Neppure noi siamo il Dio che cerchi”, risposero. E dissi a tutti gli esseri che circondano le porte del mio corpo: “Parlatemi del mio Dio; se non lo siete voi, ditemi qualcosa di lui”; ed essi esclamarono a gran voce: “È lui che ci fece”».

Un altro filosofo – l’ultimo che, per motivi di tempo, trattiamo – è Kierkegaard, il quale scrive La malattia per la morte, dove l’incipit riguarda la ricerca di chi siamo noi, di che cos’è la nostra intimità. Questo è un filo che accompagna tutti questi cercatori di infinito. Non possiamo cercare Dio dimenticandoci di noi. Cerchiamo Dio proprio perché non sappiamo chi siamo noi. Queste due ricerche si illuminano di senso nella misura in cui riesco a dire Dio come tentativo di risposta alla mia domanda soggettiva, personale, identitaria. C’è solo un’esperienza diretta, una ricerca che è sempre individualissima. L’autore ci introduce alla dimensione dello spirito e, parlando di chi siamo noi, Kierkegaard osserva che noi scopriamo di essere in relazione con noi stessi non essendoci posti da noi stessi, noi non siamo autoprodotti, ci troviamo a essere ciò che siamo. Siamo costitutivamente in rapporto con questa dimensione originaria che ci ha posto in essere. Niente può stare fuori da questa intensa ricerca. Quando l’uomo cerca di dare risposte a sé stesso scopre che l’unica risposta possibile è che trovando la profondità di sé si trova qualcosa che potremmo nominare come Dio, perché si arriva all’origine che ci ha posti in essere. Qui c’è una prospettiva di un uomo nuovo, un uomo che scopre di non aver paura, uomo che sa che può essere in equilibrio perché è in rapporto di fiducia piena con questo altro da sé, che avendolo posto in essere gli dice chi è. Ci accorgiamo sempre di più che se ci avviciniamo a voler sapere chi è Dio è perché vogliamo sapere chi siamo noi.

 

Riferimenti bibliografici

 

Plotino, Enneade VI, 9, 11.

 

Agostino, Confessioni X, 6, 8.

 

  1. Kierkegaard, La malattia per la morte, Parte prima, A. A.

 

N.B.: Trascrizione, rivista dall’autrice, della conversazione tenuta a Brescia il 3.3.2023 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.