Maurizio Tira: Vorrei iniziare questo colloquio con una prima serie di constatazioni e di domande, che diano a Roberto Battiston la possibilità di esprimere la sua visione, a partire dal suo osservatorio e dalla sua competenza di ricercatore, ma anche di gestore di programmi di ricerca, skills non sempre compresenti nei ricercatori. La prima questione è quella sui dati e sulla conoscenza. Quando parliamo di cambiamenti climatici una delle obiezioni principali è: “i cambiamenti climatici avvenivano comunque per cause naturali, quindi dove è il contributo umano?”. Nelle conferenze sul clima, in effetti, ci preoccupiamo del contributo umano ai cambiamenti climatici, come definitivamente assodato dal Report IPCC del 2021. Ma quanta consapevolezza c’è di ciò?
Roberto Battiston: Partendo dal un riferimento all’etica del tema della serata forse possiamo semplificare il discorso affermando che in questo caso specifico si tra tta di un’etica legata alla scienza, l’unico elemento veritativo e oggettivo che abbiamo a disposizione. È la scienza che ci ha permesso di capire 40-50 anni fa cosa stava succedendo: oggi si sta solo delineando con maggior precisione lo scenario che fu introdotto da alcuni scienziati coraggiosi che di fronte a quanto emergeva hanno analizzato la questione in dettaglio, in un contesto in cui non ci si immaginava che fossero in corso cambiamenti climatici significativi. Vorrei subito affrontare la questione che mi è stata posta: è importantissimo convincersi che quello che sta accadendo è dovuto a qualche cosa che può solo essere correlato alla rivoluzione industriale e per fare questo cominciamo da 500 milioni di anni fa. È assolutamente vero che la terra, nata 4 miliardi e mezzo di anni fa, quindi un pianeta molto vecchio, ha cambiato più volte, in questo lunghissimo periodo, la composizione dell’atmosfera e quindi il clima; all’inizio, parliamo di due miliardi di anni fa, era formata principalmente da anidride carbonica e gli organismi anaerobici erano quelli che dominavano la vita sul nostro pianeta. Respirando CO2, producendo ossigeno e non avendo competitori, nel corso di circa due miliardi di anni si sono praticamente autoestinti, li troviamo oggi solamente in poche nicchie ecologiche, producendo quel 20 per cento di ossigeno gassoso che ha permesso lo sviluppo di molti altri tipi di animali e di molti vegetali. La terra è quindi un laboratorio in cui le condizioni climatiche sono cambiate enormemente, ma molto lentamente. Nel pleistocene, circa 50-70 milioni di anni fa, si è registrata l’ultima fase torrida, con una temperatura di circa 14 gradi più alta di oggi: tutto era diverso, piante, animali, batteri, composizione dell’atmosfera. Da allora, nelle decine di milioni di anni che sono trascorsi, per vari motivi la temperatura è lentamente calata.. Quando sono comparsi gli ominidi, circa un milione e mezzo di anni fa, e poi l’Homo di Neanderthal e l’Homo sapiens, centinaia di migliaia di anni fa, la temperatura era scesa ed era rimasta bassa: la nostra specie si è sviluppata nelle famose caverne, quando il valore medio della temperatura era sotto di circa 4-5 gradi rispetto a quella attuale. Noi siamo figli del freddo, e, per sopravvivere, ci siamo spostati a latitudini più climaticamente accettabili. 14 mila anni fa c’è l’ultima grande glaciazione, dopo due-tremila anni si risale alla temperatura odierna e negli ultimi 11mila anni non ci siamo spostati se non di circa mezzo grado. Che cosa è successo negli ultimi 11 mila anni? Nelle scuole elementari abbiamo imparato le civilizzazioni, da quella egiziana a quella cinese: si sono tutte sviluppate negli ultimi dieci mila anni in condizioni climatiche stabili entro mezzo grado: abbiamo avuto il periodo delle estati medioevali in cui la temperatura era più alta di mezzo grado causando siccità e importanti carestie. L’ultima piccola glaciazione c’è stata qualche secolo fa, si è congelato il Tamigi, forse anche la Senna ma ancora una volta si è trattato di una variazione di circa mezzo grado. Piccole variazioni di temperatura che si sviluppavano lentamente nel corso di secoli e impiegavano secoli a scomparire. Esiste una scienza affascinante chiamata paleoclimatologia che, scavando nel ghiaccio, studiando i depositi geologici, marini e terrestri, permette di capire che cosa è successo nel corso del tempo da un punto di vista climatico. Nei millenni passati si è vista una chiarissima correlazione fra la temperatura e la quantità di CO2e degli altri gas serra, come il metano, nell’aria: il motivo è molto semplice, l’atmosfera intorno a noi fa da serra e, se non ci fosse, Bergamo non resisterebbe un giorno senza l’atmosfera dal punto vista termico. Piccolissime variazioni del contenuto dell’atmosfera di gas come la CO2, oppure il metano, parliamo di parti per 10 mila (sic!), sono in grado di alterare in modo apprezzabile la trasparenza dell’atmosfera rispetto al calore che la terra sta scambiando continuamente con lo spazio profondo. Negli ultimi dieci mila anni, tutte le volte che si è abbassata o che si è alzata la CO2, sia pure su tempi scala di parecchi secoli, si è abbassata o si è alzata, rispettivamente, la temperatura. Negli ultimi 11 mila anni la CO2 si è attestata attorno alle 350 parti per milione, 0,35 per mille, ma è salita del 30% per cento negli ultimi 150 anni, fatto mai osservato nel corso di decine di migliaia di anni. In milioni di anni la CO2 è variata di poche unità percentuali, in tempi lunghissimi: ma una volta sola è cambiata del 30 per cento in tempi brevissimi, vale a dire in questo ultimo secolo. Che cosa è successo negli ultimi 150 anni? C’è stata la rivoluzione industriale, la quantità di CO2 emessa nell’aria è cresciuta in modo esponenziale e oggi è emettiamo 50 giga tonnellate di CO2 nell’aria ogni anno. Si tratta di un numero molto grande, che ha seguito esattamente lo sviluppo esponenziale del sistema industriale e dell’utilizzo delle risorse fossili negli ultimi 150 anni: carbone, petrolio, ma anche il gas metano contribuisce. Questo spiega facilmente ciò che sta accadendo. Se qualcuno vi racconta che è stata l’inclinazione dell’asse terrestre e che il clima della terra è sempre cambiato potete rispondergli tranquillamente: certo che la terra cambia clima, ma non è mai successo così in fretta! Nessun dato paleoclimatico ha mai dato evidenza di cambiamenti così rapidi: l’unica volta che è successo è quando siamo passati da meno di un miliardo di persone a più di 8 miliardi, con innumerevoli attività basate sull’ uso di materiale fossile. A partire dall’agricoltura, che era basata sul letame, ed è oggi basata sui fertilizzanti che derivano dal petrolio passando a tutto quello che rende la nostra società ricca e gradevole, ma in cui consumiamo energia fossile ad un ritmo centinaia di volte più rapido che nelle centinaia di mi di anni in cui è stata accumulata. “Il giorno della terra”, quello in cui superiamo la quantità di risorse ricostituibili dal nostro pianeta nel corso di un anno, si colloca oggi tra aprile e maggio: consumiamo tre volte più rapidamente risorse di quanto la terra riesca a rimpiazzarle, per il pianeta non è un grosso problema, perché, quando noi spariremo, la Terra, abituata a ben altri cambiamenti sopravviverà. Il fatto è che a noi interessa non sparire, a noi interessa un futuro in un ambiente gradevole e vivibile. È quindi un punto fondamentale capire con chiarezza quello a cui stiamo assistendo: un cambiamento del 30 per cento di un gas atmosferico presente dappertutto in quantità microscopiche, è più che sufficiente ad alterare la temperatura del pianeta con tutti gli effetti già oggi visibilissimi e che purtroppo continueranno in modo crescente negli anni a venire, fino a che non si farà qualche cosa per riassorbire questa piccolissima, ma rapidissima variazione che abbiamo provocato negli ultimi 150 anni.
Maurizio Tira: Cosa è successo nel 1850? Sappiamo della rivoluzione industriale, che ha certamente portato un enorme allungamento della vita media, benessere, un enorme incremento della popolazione, che continua ad aumentare, anche se il trend di crescita sta già rallentando da un po’ di anni. Ma quale rivoluzione del pensiero è avvenuta in quegli anni? Credo non basti spiegarla con la constatazione dell’innovazione tecnologica, dall’introduzione della macchina a vapore e quindi allo sfruttamento nell’industria di questa nuova forma di energia, dopo quella della trazione animale e dell’uomo. C’è anche un pensiero filosofico alla base di questa rivoluzione, perché la radice dell’etica è riconoscere che l’uomo è attore delle trasformazioni. Cos’è accaduto tra la metà del Settecento e la metà dell’Ottocento che ha portato a questa accelerazione dello sviluppo? Io credo che Adam Smith, filosofo ed economista che aveva studiato filosofia morale, abbia dato un importante contributo teorizzando che alla base dell’approccio economico ci sia sostanzialmente la crescita, crescita legata alla ricerca del proprio benessere individuale. Non solo, egli teorizza il fatto che se ciascuno ricerca il proprio benessere, tutti staranno meglio, perché tutti staranno lavorando per il proprio benessere. In effetti oggi ci accorgiamo che il mio benessere individuale produce esternalità negative che agiscono sulla vita di altri. In sostanza tutti noi siamo produttori e consumatori che confliggono nell’uso dei beni comuni. Quindi cosa è successo in quegli anni di grande sviluppo tecnologico che non è stato compreso al tempo e che oggi cominciamo drammaticamente a capire. Cosa non funziona né nel paradigma economico classico dell’idea ottimistica e fondata sulla libertà individuale (valore certamente irrinunciabile) della crescita, né nella fede assoluta nella tecnologia, che non è la tecnica strumentale dell’uomo delle caverne, ma che è in sé stessa condizionatrice dell’idea di sviluppo?
Roberto Battiston: Secondo me subiamo oggi gli effetti di due gravissimi errori che sono alla base del ragionamento economico iniziato secoli fa; innanzitutto il sentimento di infinito, risorse infinite, illimitate, praterie da esplorare e sfruttare. Erano altri tempi, ma è un concetto profondamente errato, la terra, per quanto grande, non è infinita. E il secondo che a mio parere è ancora più grave è il fatto di aver confuso le risorse riutilizzabili con quelle non riutilizzabili. I metalli, come ferro, alluminio, oro, possono essere più o meno rari, i metalli, quando li ho estratti e ci faccio, che ne so, una forchetta, poi ci posso fare un coltello, un pezzo di automobile. Si tratta di beni recuperabili e riutilizzabili a differenza di altri beni, che vengono sempre dalla terra, ma che non sono riutilizzabili, come le risorse energetiche fossili. L’energia fossile una volta bruciata, scompare (e quindi c’è un problema di quantità) lasciando una traccia nell’ambiente (e quindi c’è un problema di alterazione dell’atmosfera). Una volta che ho estratto l’oro, l’alluminio o il ferro posso avere inquinato la zona in cui ho fatto gli scavi, ma quel bene è disponibile per essere utilizzato un numero di volte a piacere. Una volta che invece ho estratto la risorsa fossile e la utilizzo per produrre energia lascio inevitabilmente una indesiderata traccia gassosa. Di questo non si trova traccia nel pensiero economico classico, solo in tempi recenti si è introdotta una differenziazione fra materie prime, di tipo A e di tipo B. Quando oggi parliamo di una carbon tax dobbiamo ribaltare un pensiero che è lontanissimo dall’idea che una tonnellata di petrolio e una tonnellata di ferro siano profondamente diverse e che è impensabile che il petrolio costi meno del latte e dell’acqua, come di fatto accade oggi. Negli USA la benzina costa come la Coca Cola. Vi pare ragionevole che una cosa così complessa come la benzina, considerando la complessa catena produttiva per non parlare degli effetti ambientali, possa costare meno della Coca Cola? Eppure è così. Mi sembra che questo tipo di ragionamento su un bene che così importante, ma allo stesso tempo caratterizzato da importanti sfaccettature negative, sia mancato nel momento cruciale della formazione del pensiero economico, se non è così invito gli esperti presenti a commentare, perché secondo me è uno degli elementi che rende oggi così difficile fare marcia indietro. A noi servirebbe un pensiero economico che guardi avanti con una concretezza fondata su fatti reali, supportati dalla scienza, individuando un percorso di sviluppo diverso da quello attuale.
Maurizio Tira: Il tema che tu hai evocato della valutazione economica dei beni ambientali è un tema molto dibattuto, non essendoci ancora dei metodi consolidati. Di fatto però, in Europa almeno dal 1985 e poi dal 2001, con due direttive, quella sua Valutazione d’impatto ambientale (VIA) e poi sulla Valutazione Ambientale Strategica (VAS), siamo obbligati a porci il tema dell’impatto sulla matrice ambientale di ogni grande opera e trasformazione. Progetti, piani e programmi che devono subire un processo valutativo ex ante. In tali processi bisogna poi cercare di mitigare gli impatti, cercando di dare un valore anche ai beni ambientali, che non sono soggetti a scambio in mercati definiti. Dopo aver analizzato le grandi trasformazioni introdotte dalla rivoluzione industriale e dal pensiero economico classico, vediamo dunque ora, in positivo, che cos’è scattato, dopo la seconda guerra mondiale, nel pensiero al punto da far nascere una nuova coscienza delle problematiche ambientali (che peraltro ha portato alle direttive europee citate). I fisici peraltro hanno sempre avuto un ruolo non banale nella riflessione etica: ancora oggi citiamo alcuni aforismi di Einstein sulle questioni etiche. Che cosa ha fatto scattare un pensiero critico e ha fatto sorgere la consapevolezza che bisognava invertire la rotta della crescita continua? Che cosa ha fatto scattare, pure in una fase di grande ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale e con l’ansia di risorgere dalle macerie della guerra, la riflessione sulle tematiche ambientali, dal tuo punto di vista di fisico, senza mai dimenticare il contributo dei fisici anche alla riflessione sui diritti umani?
Roberto Battiston: La risposta ovviamente è molto complessa, io mi limito ad affrontare gli aspetti che mi sono più familiari, ovvero la parte scientifica. È successo, come per fortuna spesso accade, che alcune persone si sono messe a guardare per motivi di curiosità, di interesse scientifico, ad un certo tipo di problema. Spesso si è trattato di fisici, chimici o scienziati di altri settori, persone con un pensiero indipendente, in grado di accedere ai dati e di farsi alcune idee su problemi magari ignorati dai più. Il primo documentato riferimento all’ effetto dell’accumulo della CO2 lo dobbiamo al grande fisico-chimico svedese Svante Arrhenius, Nobel per la chimica nel 1903. Dobbiamo però aspettare gli anni ’60-’70, quando alcuni fisici, per lo più americani, si sono messi a studiare sistematicamente il problema climatico e trovare le prime concrete evidenze. Subito, a causa degli enormi interessi economici in gioco, è scattata una terrificante macchina denigratoria nei confronti di questi pionieri dell’analisi climatica. Ad un certo punto, in America si è assistito ad una serie di pesanti attacchi provenienti da scienziati appartenenti a think tank pagate o influenzate dal mondo politico: vi consiglio di leggere il bellissimo libro Mercanti di dubbi, perché chiarisce come funzionano queste cose. Sono 50 anni che sul fronte del tabacco, sul fronte del clima, sul fronte del DDT, dal nulla nascono delle think tank che puntano a demolire l’analisi scientifica che interferisce con gli interessi commerciali. Questa lotta si è sviluppata con la massima intensità negli Uniti, dove sono particolarmente grandi sia gli interessi commerciali che le competenze ed il prestigio scientifico. Ricordiamoci che in alcuni casi gli scienziati del clima sono stati portati alla rovina professionale e personale perché si erano messi contro interessi di enorme rilevanza. Torniamo quindi alla questione etica: lo scienziato serio non può non dire le cose come stanno – abbiamo di fronte a noi una natura bellissima ma se noi proviamo a dire che uno più uno fa tre, non duriamo molto. Abbiamo la necessità, da Galileo in poi, ma certamente anche da prima, di confrontarci con questa realtà, obbligati ad essere rigorosi, veri, onesti nei confronti della natura e di noi stessi. Le leggi della natura non sono in discussione, possono essere in certe fasi non completamente chiare, ma se la comunità scientifica le hanno verificate, se siamo seri come scienziati, non ci possiamo girare attorno. Su questo tema specifico uno dei modi per ragionare sul clima che io trovo molto utile è analizzare quello che sta succedendo sul Covid. L’effetto complessivo di una minaccia incombente, pesante, onnipresente, sfidante, a cui eravamo impreparati, contro cui abbiamo fatto delle cose estremamente importanti in positivo, ma anche degli errori clamorosi, è in piccolo quello che accadrà e accade sul clima. La tempistica è un po’ diversa, il clima è più lento di una pandemia, ma la risposta sociale, il ruolo della scienza, il ruolo dell’anti-scienza e gli effetti sulla società nel suo complesso, secondo me rappresentano una grandissima lezione, che io spero verrà studiata da sociologi, psicologi, scienziati di ogni genere ma anche dai politici. Tutti noi abbiamo vissuto e stiamo vivendo gli effetti del Covid e ciascuno di noi si è fatto un’idea di quanto complesso, mutevole, serio o poco serio può diventare un discorso così importante come la lotta all’epidemia. Quindi per tornare alla tua domanda: già negli anni ’70 era iniziato un discorso sul clima che poteva essere anticipatorio di grandi cambiamenti nel comportamento sociale, ma si è dovuti arrivare al 2015 a Parigi per certificare, tra 186 fra paesi ed enti rappresentanti tutto il mondo, che effettivamente c’è la traccia dell’uomo sull’effetto climatico. Si poteva tranquillamente mettere a fuoco decenni prima, ci è voluto molto tempo per allineare questa molteplicità di paesi e organizzazioni, pensieri, culture: abbiamo perso 30-40 anni. Poi, una volta che il mondo è allineato, arriva Trump e si torna indietro! Comunque ora il mondo è molto più allineato, e la grande sfida è: cosa fare? E qui abbiamo bisogno ancora una volta di un discorso veritativo, perché non è una strada qualunque quella che ci porterà fuori dal pozzo in cui siamo finiti. Se non capiamo esattamente qual è un percorso ragionevole con i suoi pro e con i suoi contro, i costi ma, anche i vantaggi e ci limitiamo a un po’ di greenwashing non andiamo da nessuna parte. Ricordiamoci che oggi siamo in una fase in cui l’aumento del 30 per cento della CO2, ha portato a un grado di aumento e si parla del 2050-60 sperando di rimanere sotto i due gradi: ma i disastri ambientali ormai sono quotidiani. Siamo ancora in un periodo invernale, ma ricordiamoci la scorsa primavera, ogni giorno c’erano tornadi, incendi di ogni genere, ci siamo già dentro in pieno e mancano 30 anni al 2060 quando ci si propone di azzerare l’inserimento di CO2 nell’atmosfera. Questo vuol dire che da oggi al 2060 sarà un disastro dopo l’altro: è necessario sperare che nei 30 anni che seguiranno si tornerà piano piano indietro e non solo si azzererà l’immissione netta! Non è questa una notizia eccitante, ma credo che la storia che dobbiamo raccontarci deve essere un po’ più vera di quella che ci stiamo raccontando. Anche se mi rendo conto che ci sono infiniti compromessi, infiniti equilibri di interessi, come scienziato, io non posso che raccontarvi il dato scientifico per quello che veramente significa.
Maurizio Tira: Tu sei uno scienziato, ma hai anche gestito la ricerca, in una importantissima agenzia. Parisi qualche mese fa ha usato una bellissima metafora: gli scienziati sono i fari dell’auto, ma al volante c’è la politica. Tu hai vissuto anche la dimensione politica della ricerca, che attiene all’allocazione delle risorse e alla definizione delle priorità, oltre che al trasferimento dei risultati della ricerca. Quanto la scienza riesce a influenzare le decisioni politiche? Hai citato le conferenze, che sono iniziate negli anni Settanta, sull’ambiente. Ogni volta si sono registrati fallimenti o perlomeno la non attuazione dei proclami e dei programmi. Che cosa deve scattare ancora nel decisore politico per far sì che la consapevolezza scientifica, ormai acclarata, possa veramente radicarsi? Anche la conferenza di Glasgow è finita con un compromesso, perché all’ultimo momento un Paese ha chiesto di cambiare una parola e quella parola ha determinato una modifica non banale nel documento conclusivo. Che cosa secondo te ostacola la consapevolezza del decisore politico? Quali sono le leve che possono far sì che ci sia una tale trasmissione della consapevolezza scientifica verso le scelte politiche, affinché esse siano più rigorose?
Roberto Battiston: Alcune società hanno una maggiore presenza della scienza negli organi di governo altre di meno; faccio un esempio, gli Stati Uniti hanno un consigliere scientifico del presidente, supportato da una apposita istituzione (OSTP). Nella maggior parte dei paesi, Italia inclusa, questa figura non esiste. Al volante c’è la politica, appunto, ma i fanali devono essere quelli della scienza. È impensabile che oggi, nel 2022, si vada a votare per una o per l’altra coalizione senza avere chiaro il rapporto o l’assenza di rapporto che la politica si propone di avere con la scienza per affrontare i problemi che molto spesso hanno una profonda radice scientifica; è quindi impensabile governare rettamente un sistema senza un rapporto costruttivo, solido, trasparente con la conoscenza della scienza che molto spesso ci sta dietro. In Italia abbiamo esperti, ma è tutto poco strutturato, molto casuale: bisogna essere consci del fatto che il bravo consigliere scientifico non ha colore politico ma deve dire come le cose stanno: la responsabilità di scelta non può che essere politica ma non può essere basata sulla “non conoscenza” o sulla conoscenza sussurrata da un “amico”. Questo è un punto di partenza, ma come ci si arriva? I paesi che hanno una volontà di influenza politica internazionale, come America, Russia, Cina, India, sanno benissimo che la scienza è importante nelle decisioni strategiche. I paesi che non questa volontà di influenza o che l’hanno persa rischiano di muoversi a caso. L’Europa ha una capacità di attuare investimenti alquanto straordinari dedicati alla scienza ma questo non basta. Occorre sapere utilizzare la scienza per indirizzare le strategie politiche ma, mancando un vertice politico, in Europa, questo aspetto risulta carente. Una politica moderna non può esimersi dall’avere un rapporto con la scienza all’altezza delle sfide scientifico-politiche che l’umanità ha di fronte
Maurizio Tira: Prima, parlando del Covid, hai evidenziato anche il rapporto dei cittadini con la scienza, quindi non soltanto del livello decisionale. Abbiamo visto le diverse fasi: all’inizio della pandemia, un aumento di fede nella scienza, poi ad un certo punto una sorta di noia, fastidio nel sentire posizioni scientifiche spesso alquanto diverse. Se confrontiamo questa evoluzione con il processo democratico di formazione del consenso, atteso che la risoluzione dei problemi ambientali diffusi dipende ampiamente dai comportamenti individuali, oltre che dalle scelte delle aziende e della politica, ci rendiamo conto dell’importanza della comunicazione scientifica per la formazione della consapevolezza e della coscienza. Qual è il ruolo oggi, nelle democrazie consolidate, dell’etica ambientale? Può il modello democratico assumere le dinamiche ambientali così complesse, dove alcune scelte sono chiaramente impopolari? Faccio riferimento a quei cambiamenti necessari, ma non indolori, che dal punto di vista del consenso faticano a trovare un consenso: uno su tutti potremmo citare il tema della mobilità privata.
Roberto Battiston: I problemi non si possono risolvere sempre allo stesso modo, se tu hai una società che è scientificamente impreparata su certi aspetti, non è che bombardandola con dei talk show la educhi, l’educazione di tutti noi viene dalle scuole da quel tipo di educazione che ci ha permesso di imparare a leggere i giornali, i libri, ad ascoltare e a discernere criticamente fra le opinioni. Sappiamo benissimo che spesso e volentieri temi carattere economico sono discussi con criteri che rispondono alla quantità e non alla qualità. Durante il periodo del Covid per mio personale interesse e curiosità mi sono messo un po’ a ragionare sui numeri della pandemia e talvolta mi hanno chiesto di commentare pubblicamente. Ho avuto quindi spesso rapporti con i mass media in questo periodo: ho percepito un miglioramento della comprensione del fenomeno statistico da parte di coloro che si occupano di comunicazione e questo è associato, secondo me, a una maturazione complessiva della società dopo due anni duri, terribili. La quantità di morti e difficoltà senza fine, hanno fatto migliorare la percezione della questione pandemica. Nonostante i sensi di fastidio, la società ne ha tratto un qualche vantaggio: certo era meglio se imparavano alle elementari o alle scuole medie il significato dell’errore statistico o di una derivata, però secondo me c’è stato un miglioramento: per questo tipo di miglioramenti ci vuole però tempo e le opportunità formative. Più vicini siamo ad un problema, più ci troviamo a doverlo affrontare con le armi che abbiamo, più riusciamo a partire da lontano, preparando un percorso razionale per affrontarlo, più possiamo sviluppare le armi necessarie, ovvero strumenti sociali, capacità di discutere, linguaggi comuni. Sul clima il gioco si svolgerà nei prossimi 20-30-40 anni, ci siamo già in mezzo. La chimica avrà un ruolo fondamentale nel futuro della gestione del problema climatico, ma occorre una chimica che si sviluppi ai ritmi furiosi della prima metà del secolo scorso, quando si sono inventati e sviluppati i vari processi chimici alla base del nostro il sistema industriale. C’è già troppa CO2 nell’aria ma stiamo ancora discutendo come metterne di meno: in realtà dovremmo rovesciare il problema, dovremmo iniziare a toglierla, ogni grammo in meno oggi è un piccolo vantaggio aggiuntivo a favore della strategia di immetterne meno. Si chiama sequestrazione, oppure cattura dall’aria: è un problema di cui si discute troppo poco e su cui si fa troppo poca ricerca. È un problema difficile in quanto oggi energeticamente costa molto. Se ne discute sottovoce perché evidentemente è difficile, non ci sono ancora soluzioni complete, ma potrebbe essere un percorso che ci obbliga a ridisegnare parte della catena delle azioni per affrontare il problema climatico. L’unico modo adatto, per costruzione mentale, ad affrontare un problema così complesso e a provare d’ipotizzare una soluzione dall’a alla z, senza fermarsi a metà, è la modalità della scienza: non c’è nessun altro che possa fare questo mestiere, perché chiunque parta da un contesto economico non riesce ad esplorare tutti gli aspetti della questione. Riconosciamo il fatto che, ad oggi, una risposta operativa per risolvere il problema climatico non è ancora stata formulata.
Maurizio Tira: Abbiamo bisogno di soluzioni e i paesi portano avanti scelte diverse. Il dibattito sul nucleare si è riaperto, ma siamo ancora alla fissione, visto che la fusione è un percorso ancora lontano. Che cosa ci dici su questo dibattito? È impostato correttamente? Lo possiamo eludere del tutto?
Roberto Battiston: Intanto il fatto stesso che si stia parlando di questi temi in un’iniziativa sostenuta dalla camera di commercio è già un segno importantissimo della sensibilità e quindi dell’eticità di una componente importante del settore economico, che si pone onestamente questo tipo di domande. Naturalmente questo è solo un punto di partenza perché il percorso è lungo e molto difficile. Soluzioni concrete: ancora non abbiamo una soluzione completa. Proviamo ad affrontare per temi: quasi tutta l’energia viene direttamente o indirettamente dal sole, anche tutto il fossile che si è accumulato con le piante, in milioni di anni creando carbone, petrolio, il metano. Se intercettiamo questa energia con il fotovoltaico facciamo una cosa intelligente, quello che fanno le piante, dappertutto attorno a noi. L’energia del sole è immensa e pulita, ne arriva sulla terra 10 mila volte di più di quella che ci serve a livello globale, è dappertutto, non è esposta a crisi geopolitiche, non è sensibile all’andamento climatico. Negli ultimi dieci anni il costo del silicio è sceso di un fattore 9 e oggi un kilowattora dal silicio costa molto meno del famoso kilowattora nucleare. L’eolico, è una bella idea, ma l’energia nell’aria è relativamente poca, è solo 20-30 volte meno di quella che noi consumiamo ogni anno: l’aria è leggera, quindi i venti, anche i più impetuosi contengono poca energia. L’eolico ha vari problemi, un campo eolico tende ad assorbire il vento cambiare localmente il clima. Se ho mille pale eoliche in qualche bella vallata della California del sud, quando queste assorbono il vento cambiano l’andamento della ridistribuzione energetica locale. Ricordiamoci sempre che l’energia principale è il sole, l’energia del vento è derivata dal riscaldamento di parti del pianeta, ed è sensibile ai mutamenti climatici. Il nucleare sulla carta ha vari vantaggi, tra cui uno fondamentale: si tratta di energia molto concentrata. L’energia ha valore quando è concentrata, il sole è abbastanza concentrato, l’eolico di meno, il nucleare è concentratissimo e quindi è un’energia che supera da questo punto di vista tutte le altre sorgenti. Il problema del nucleare è quello che è successo nel caso di incidenti: Chernobyl è un caso clamoroso di cattiva gestione, però può succedere, è successo. In Italia i famosi referendum ci hanno messo in una situazione difficilmente rovesciabile. Il nucleare ha poi un altro un problema che è lo smaltimento post-vita della centrale, in questo forse le future tecnologie nucleari potranno essere migliori rispetto a quelle attuali. Onestamente per affrontare rapidamente il problema della CO2, considerato il crollo del costo di fotovoltaico ed eolico la risposta non è la fissione nucleare e tanto meno la fusione. Lo vediamo dal rallentamento globale dei progetti di centrali nucleari. È attuale un discorso di nucleare in Italia? Siamo nel 2022, il nucleare nel paese non c’è, abbiamo smantellato le competenze che avevamo, ha senso ricominciare? Sarebbe una partenza in ripida salita, non credo ci siano le condizioni: questo è un classico caso in cui la politica guida e la scienza al massimo può illuminare la strada ma mi rendo conto che sia molto complicato. Una cosa vorrei aggiungere alla discussione sulle soluzioni: stiamo usando poco il mare il quale, energeticamente parlando, è una risorsa pazzesca. Vi porto un esempio recente che riguarda l’accumulo di energia rinnovabile. Il sole vi dà energia elettrica spesso quando non serve, e accumulare questa energia è un problema importante. Dieci anni fa viene proposta la seguente idea; prendiamo delle grandi sfere di cemento armato di 30 metri di diametro, vuote internamente, poste a 700 metri di profondità su un fondale marino e dotate di una turbina in ingresso. Quando sono vuote l’acqua entra a 70 atmosfere, quando vuoi accumulare energia l’acqua è estratta a 70 atmosfere, come se fossero dei laghi sottomarini Esistono sui fondali marini superfici immense dove mettere questi accumulatori: una di queste sfere a può fornire 20 mega watt per quattro ore, per fornire ad una città come Brescia una potenza dio 100 mega watt per un giorno basterebbero 30 sfere. Stiamo parlando dell’accumulo di enormi quantità di energia. Magari non è l’idea decisiva, però dobbiamo valutare tutte le possibilità. Occorre più ricerca.
Maurizio Tira: Tu sei partito dal sole quindi andiamo nello spazio. Tu hai fatto ricerca nello spazio, hai diretto l’Agenzia Spaziale Italiana, ti sei occupato di raggi cosmici. Dov’è il link col tema dei cambiamenti climatici nel tuo cammino di ricerca?
Roberto Battiston: Come presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana la connessione fra spazio e clima è formidabile: se nel 2015 a Parigi si è dichiarato l’effetto dell’impronta umana sul clima è perché le costellazioni di osservazione della terra misurando con una precisione certosina dallo spazio più di metà delle 50 variabili su cui si basano i modelli climatici permettono di capire cosa accade alla CO2 al metano etc. Il sistema climatico è estremamente complicato ma oggi con i supercomputer riusciamo ad analizzarlo con precisione sempre crescente. Il contributo dello spazio alla tecnologia e alla scienza del clima è stato fondamentale. I satelliti Sentinel che l’Europa ha sviluppato e messo in orbita, sono gli occhi che osservano non solo lo stato del pianeta, ma permettono di capire chi emette CO2, dove e quanta. Dopo le telecomunicazioni, l’osservazione del pianeta è la grande rivoluzione, fornendo una molteplicità di dati, che, da soli o integrati con i dati terrestri, ci stanno permettendo una comprensione globale del pianeta. Oggi si parla addirittura di fare un duplicato digitale della Terra. Con i cambiamenti climatici l’umanità ha messo in moto un meccanismo che deve essere invertito: lo spazio è un grande alleato in questo senso, i satelliti sono e saranno in nostri alleati nella soluzione del problema climatico.
Maurizio Tira: Nel concludere questa stimolante riflessione e nel ringraziare il Prof. Battiston, non possiamo non ricordare che anche i conflitti armati, oltre al dramma umano che stanno generando, provocano un grande impatto ambientale, che dovremo scontare nel futuro. Emerge ancora una volta lo stretto legame dei problemi che affliggono i nostri tempi e che il Papa ha magistralmente riassunto nella categoria dell’ecologia integrale.
NOTA: Trascrizione, rivista dagli Autori, della conferenza tenuta a Brescia il 6.5.2022 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura, Fondazione Brescia Musei e Futura.