Ilario Bertoletti: La parola “antropocene” ha vent’anni: fu un premio Nobel per la chimica, Paul Crutzen, ad introdurlo la prima volta in termini di problema ecologico, antropologico nel saggio Antropocene, che vuol dire epoca ecologica attuale e quest’epoca ecologica attuale è diventata un problema, una domanda. Allora chiedo a Salvatore Natoli, perché la parola antropocene è diventata così egemone nel dibattito, perché ricorre continuamente?
Salvatore Natoli: Siamo entrati nell’antropocene, ora ne stiamo uscendo. La nozione era presente anche in passato, anche se questo termine non era stato ancora impiegato: già Buffon in Epoche della natura parlava dell’età dell’uomo; nell’800 si parlava di dimensione antrozopica. Come si vede, l’antropos è posto al centro da tempo e da lì viene guadagnando una posizione progressivamente dominante; s’impone vieppiù a partire dalla sua capacità fabbrile, è intelligente – per dirla con Anassagora – perché ha le mani. A differenza delle altre specie ove era l’animale ad adattarsi alla natura, il sapiens adatta la natura a se stesso. In realtà, non è che l’animale non adattasse la natura a sé – il nido non c’è in natura, se lo fabbrica l’uccello, l’animale definisce il suo oikos – ma in una sostanziale compatibilità con essa. L’uomo, al contrario, non solo si adatta agli spazi, ma si espande, ne apre di nuovi, li occupa, li crea. Da quando ha guadagnato la posizione eretta ha orizzonti: è l’animale che fugge, ma è anche quello che conquista. Ora, l’uomo nell’adattare il mondo a sé stesso scopre le potenze nascoste in natura – che mai sarebbero emerse senza l’uomo – e le attiva. Di qui l’abito della scoperta, la capacità d’invenzione, ma proprio per questa sua capacità di far emergere il possibile, di penetrare l’ignoto si espande e insieme legittima il suo dominio. Questa storia la chiamiamo civiltà. Questo stesso Museo in cui ci troviamo documenta, a suo modo, alcuni tratti e tappe di quel complessivo sviluppo che va sotto il nome di “civilizzazione”, “progresso”. Sono manufatti, opere, che documentano modi e forme con cui l’uomo nel corso del tempo ha abitato la terra. È lungo questa via che si disegna l’antropocene. Di questo, il neolitico fornisce già alcuni indicatori fondamentali: l’invenzione dei cerali, l’addomesticamento degli animali. L’uomo cacciatore doveva competere con gli animali più grandi che in parte uccideva, in parte assoggettava, ma è a partire dal neolitico che si pone visibilmente in posizione dominante: infatti, mentre viene scoprendo le potenzialità immanenti nella natura, libera al tempo stesso le sue. E, a sua volta, accresce la sua potenza e, dominando, finisce per percepire questo come un suo diritto. All’apparizione del sapiens – nei primi stadi della evoluzione umana – e, soprattutto, lungo lo sviluppo della modernità formulare un’espressione quale “difesa dell’ambiente” – oggi ampiamente in uso – era inconcepibile. In effetti il sapiens per la più lunga parte della sua storia evolutiva ha dovuto difendersi da una natura leopardianamente cattiva: curare le malattie, fronteggiare la forza degli elementi: in breve armarsi contro la natura per sopravvivere. Era da lì, infatti, che venivano – vengono i pericoli. Ma la natura ignora se stessa: caso mai è l’uomo “quell’ente di natura” in cui la natura perviene alla consapevolezza di sé. Ora è di chiara evidenza che, se l’uomo sparisse, la natura continuerebbe a procedere tranquilla nelle sue evoluzioni e nelle sue catastrofi e per questo non ha affatto bisogno di essere difesa. È vero, caso mai, il contrario: se l’uomo la difende è per salvaguardare la sua possibilità di sopravvivenza sulla terra. Il mito di Prometeo si costruisce su questo. L’esistenza umana è tutta un gioco al limite: superatone uno, se ne trova un altro, in una rincorsa senza fine. La dimensione umana è costitutivamente prospettica tant’è che non si limita a reagire a fronte degli ostacoli che incontra, ma s’acconcia a prevederli. L’uomo ha fin dall’inizio giocato d’anticipo. Per dominare la natura era necessario conoscerla, ma essa ha i suoi segreti e per portarli alla luce l’uomo ha dovuto strapparne il velo, violarla. D’altra parte nella storia cos’altro sono state scienza e tecnica se non lo sforzo per scoprire i segreti della natura, le sue leggi e impiegarle contro di essa a vantaggio degli uomini. Di qui quella singolare combinazione che vede l’uomo per un verso costretto ad obbedire alle leggi natura – perché non può sfuggirle – e al tempo stesso un farne uso, per quanto può, per padroneggiarla: un’inevitabile obbedienza ed insieme un’astuta costante insubordinazione. Una prevaricazione che nel tempo si è mutata in arbitrio fino a che la natura non ha posto l’alt. Ora, proprio questo s’intende dire quando si afferma che l’antropocene è giunto alla fine. Il sistema della natura è complesso: l’uomo l’ha esplorato, l’ha violato oltrepassandone i limiti o meglio “ha dimenticato i suoi”, rendendo così l’ambiente inabitabile per sé. Molte sono le specie che l’uomo con i suoi interventi ha distrutto; ancora oggi non sappiamo quante ce ne sono sulla terra e perciò quante ne rimangono rispetto a quelle che abbiamo estinte. Ebbene, nella storia dell’umanità questo cammino è stato definito progresso, ma i vantaggi che l’affinamento delle tecniche hanno consentito, ha spesso messo sullo sfondo i costi. D’altra parte, in società ove i vantaggi superavano gli eventuali danni era facile metterli in mora. Sicché nel tempo è invalso un modo pressocché inconsapevole di distruggere, confondendolo come l’avanzare. Nella modernità, infatti, l’idea di progresso è connessa direttamente con il nuovismo. Tutto ciò specie a partire dal secondo dopoguerra dello scorso secolo. La ricerca della novità è cresciuta vertiginosamente fino al punto da cancellare il passato: la nostra è una società che perde continuamente la memoria, perfino il “recente” cade facilmente nell’oblio. Non v’è dubbio che a partire dalla tarda modernità, la società ha goduto come non mai di beni e di ricchezze: di qui è venuto maturando quel che si potrebbe chiamare il “consumo del presente”. Produrre dunque per divorare. La generazione del dopoguerra, ma ancor di più quelle a seguire, hanno poco pensato al futuro e proprio la società del benessere, la “società dei consumi” ha abituato al puro consumare. Di qui una vertigine che sta divorando la terra, un consumo che per un verso si risolve in spreco e nel contempo genera sacche di miseria, povertà. Ne danno prova i profondi squilibri, le grandi diseguaglianze – e i relativi conflitti sociali – che contraddistinguono le società contemporanee. Si pensi alle grandi migrazioni di fine ’800 inizio ’900; ebbene oggi la migrazione è permanente. La logica del mero consumo non solo accumula spreco bensì logora anche gli affetti, gli amori, le famiglie, le relazioni umane. Ne è segno la difficoltà a generare, da un lato frutto delle compatibilità economiche del deficit dei servizi sociali, ma dovuta in parte per una ragione non dichiarata: generare vuol dire impegnarsi per il futuro, ma chi consuma il presente non ha la minima voglia di farlo. Infine, oggi, esplodono contro-finalità tali che ciò che fino a poco tempo fa ci appariva nella forma del progresso – e certamente lo è stato – si presenta come incertezza sul futuro. Ma, queste contro-finalità hanno covato a lungo nella indolenza di molti e adesso si manifestano nello scatenarsi della furia degli elementi. Da sempre un fatto di natura, ma oggi, almeno in parte, indotte dalle alterazioni che l’intervento umano ha introdotto nell’ambiente: fuoco e acqua, un mondo che brucia e che affonda. Il futuro torna ma questa volta non come progresso, ma spesso come incubo.
Ilario Bertoletti: Abbiamo la scoperta del limite, si riflette ora sul carattere positivo del limite. Questo ritorno filosofico ai diversi significati oggi assunti dal tema del limite. In che modi oggi si dice fare esperienza del limite?
Salvatore Natoli: Il limite nella storia dell’umanità si è presentato con due facce: per un lato come barriera e per l’altro come sfida: e perciò il sentirsi imprigionati nel limite e nel contempo la spinta ad oltrepassarlo. In effetti, la storia evolutiva dell’umanità è un gioco al limite. Individui e comunità, in situazioni date, a volte vincono la sfida del limite, altre volte innanzi al limite arretrano. Ma in ambedue i casi si può agire mancando di misura. C’è il tentativo di andare oltre le proprie forze, il tentare il tutto per tutto ritenendo di potercela comunque fare. Di qui quella singolare follia che il limite neppure lo vede e semplicemente vi precipita. Dall’altro, l’eccesso di reticenza, la difficolta ad iniziare. Due eccessi che nella storia dell’umanità si sono bilanciati, ma la giustezza della misura non è unica né definitiva. Ogni società, come ogni uomo, la pratica a seconda che i tempi richiedono, ma se un tempo la dimensione del limite la si esperiva in contesti locali – più o meno estesi – e gli effetti delle scelte erano più controllabili, era più percepibile il grado di pericolo, nella globalizzazione le scelte che contano vengono prese lontano da noi. Noi, oggi, operiamo di conseguenza, gli effetti sono spesso di lungo periodo talché non sono percepibili immediatamente e gli immediati benefici fanno agio sui danni possibili. Oggi gli effetti da locali sono globali e in contemporanea: l’impatto dell’uomo sulla natura è divenuto tale da variarne i ritmi. Le mutazioni climatiche ne sono prova e oggi sono divenuti un’esperienza collettiva. Non si tratta più solo di turbolenze che avvengono lontano, di cui ci giungono notizie (che facilmente si dimenticano e secondo il lessico televisivo “si passa ad altro argomento”), ma sono mutazioni che riguardano in modo vieppiù crescente l’intero pianeta. Di questo il Covid19 è stato un segno: non una notizia di qualcosa di remoto, ma l’esposizione di tutti e contemporaneamente ad un potenziale di contagio. Il Covid ha fatto diventare esperienza comune e non un generico pensiero la dimensione del limite che gli stessi successi raggiunti ci hanno portato a dimenticare. Il Covid ha fermato le imprese, rallentato l’economia e ci ha spinto a riconsiderare e sottoporre a giudizio i nostri usuali comportamenti. Non sappiamo esattamente da dove vengano le epidemie, ma non si può ritenere che l’avere occupato violentemente, vertiginosamente e in breve tempo gli spazi animali sia stato in ininfluente. L’evoluzione è lenta e noi non ci siamo resi conto delle forzature impresse ai ritmi della natura: infatti negli ultimi due/tre secoli abbiamo provocato mutazioni che l’homo sapiens non aveva realizzato in tutta la sua storia. Tutti questi mutamenti ci stanno rendendo sensibili al fatto che stiamo oltrepassando i limiti, ma non adottiamo comportamenti pertinenti adeguati a questa percezione. Semplicemente rinviamo. La transizione ecologica è, infatti, difficile, perché è intersistemica: non si può cambiare una cosa sola, ma modificare nel suo complesso gli stili di vita. La società e la politica sono chiamate a risolvere questo problema; tutti devono starci dentro perché altrimenti è impossibile qualsiasi soluzione. Ma ne siamo all’altezza?
Ilario Bertoletti: Quale spazio oggi per una riflessione morale che non può non esserci? Pena il rischio, che però è un rischio attuale. Se c’è uno spazio, in che modalità ripensare oggi condotte morali, a quali valori appellarsi?
Salvatore Natoli: Nelle nostre società vi è diffuso sottopelle un sentimento d’angoscia che seppure non ha effetti immediati sulle condotte può essere assunto come punto di leva per una trasformazione delle istituzioni e degli individui. Si tratta di angosce vaganti, paure diffuse con le conseguenti richiese di sicurezza. Ebbene tutto questo deve essere ricondotto a razionalità. Certo non si può fare d’un colpo e perciò ci devono essere minoranze attive a provocarlo. Vedo che ci sono azioni, movimenti che in modo informale o organizzato animano tutto questo. Ad ognuno tocca assumere un impegno morale, una militanza, a seconda del grado di responsabilità che si possiede. Le aziende devono rimodulare la produzione, creare un nuovo tipo di domanda compatibile con la sanità dell’ambiente. Salute o veleni? Nella società dell’informazione bisogna evitare che la chiacchiera abbia agio sulle competenze e allo scopo bisogna potenziare i processi di formazione. Solo questi possono immunizzare gli individui dagli inganni delle reti. Uno dei drammi che ha prodotto questo Covid è proprio quello dell’aver ferito una generazione: star fermi per due anni a settant’anni può essere anche accettabile ma perdere due anni tra i 12 e i 22 non è cosa facilmente recuperabile. Il male esiste e bisogna essere all’altezza di reggere al conflitto, l’etica la si vive ogni giorno. Di questo bisogna esserne consapevoli e la filosofia deve essere da pungolo. Come diceva Socrate: io sono stato per gli ateniesi come un tafano. Non ha fatto politica come rappresentante, ma l’ha fatta perché ha assillato la città, richiamandola alla responsabilità, indicando le ragioni del bene.
Ilario Bertoletti: Negli ultimi anni prepotentemente sono tornate due virtù, la prudenza e la capacità di perseverare nelle azioni, al fine di abitare un mondo con e per gli altri, avendo cura di sé, ma soprattutto all’interno di istituzioni il meno ingiuste possibili: di qui le sue ultime riflessioni su perseveranza e prudenza come arte del compromesso in questo contesto di rischio.
Salvatore Natoli: Sono virtù antiche e connaturate all’uomo quali strategie di riuscita. Mai estinte. Oggi, si sono forse estinte le istanze di giustizia? Anzi vengono più che mai avanzate. La giustizia, infatti, è il criterio della “messa in pari” e più d’ogni altra virtù riguarda il rapporto con gli altri. Presiede al bilanciamento delle sorti: è mettere in equilibrio, distribuire con equità la ricchezza, non dare cose uguali a disuguali. Ma se queste sono le istanze di principio, come realizzarle? Allo scopo è necessaria un’altra antica virtù, la prudenza: e ciò per definire le priorità, decidere modi e tempi di realizzazione a seconda delle risorse disponibili e delle compatibilità, reperire gli strumenti di attuazione. La prudenza, infatti, è eminentemente virtù politica ed esige competenza, conoscenza adeguata dei contesti, capacità di risolvere problemi ma, soprattutto, di mediare i conflitti. E dal momento che si opera sempre di più in contesti di improbabilità non bisogna mai mollare né tanto meno rinunciare all’obbiettivo se non prima di averle provate tutte: ebbene, la perseveranza è la virtù necessaria per non cedere alla resa, per reggere la difficoltà. Anche in questo il Covid ha messo tutti alla prova e tuttavia non tutti hanno praticato la perseveranza: tant’è che quando ci hanno chiusi siamo rimasti a casa più per paura (dell’epidemia certo, ma anche delle sanzioni) che per senso di responsabilità. Di ciò ne dà conferma il fatto che, appena si è aperto, ci si è sentiti subito in libera uscita, le piazze si sono riempite senza tenere in conto debitamente le conseguenze. E dire che una società virtuosa – e perciò capace di autoregolazione – non avrebbe neppur bisogno di leggi. Perseverare vuol dire adottare una condotta proporzionata alle difficoltà e in ciò differisce dalla prudenza attiene per lo più al giudizio alla decisione, è intellettuale. Ma per quel che è “il da farsi”, per portare ad attuazione ciò s’è deciso è necessaria la fortezza di cui la perseveranza è una variante. In caso contrario, la giustizia resterà una pura petizione di principio. Ma già Aristotele distingueva tra le virtù dianoetiche – che riguardano la conoscenza – e le etiche, che riguardano il carattere. Quindi la forza, la costanza. Quanto detto lo si può dire di ogni virtù a seconda dell’ambito di azione, ma di sicuro non si può dire che le virtù oggi non siano necessarie. Piuttosto in molte circostanze se ne costata – e tristemente – l’assenza. Con le su nefaste conseguenze. Per venire al tema è cosa del tutto inutile discettare di ecologia se ciò non si trasforma in pratica di vita, un esercizio di virtù.
Nota: Trascrizione, rivista dagli Autori, della conferenza tenuta a Brescia il 13.9.2021 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura, Fondazione Brescia Musei e Futura.