Uno dei segni del nostro tempo, ed un segno positivo, è che, si voglia esplicitamente o no, al centro di un giudizio politico, pur con tutto il rilievo che opportunamente si tende a dare all’indagine conoscitiva sui molteplici e complessi dati di fatto di una situazione o di un problema, sta la realtà e la forza dell’istanza morale. «Se i politici fossero meno accecati dalla loro ambizione, vedrebbero che non è possibile che un ordinamento, quale che sia, possa procedere secondo lo spirito della sua istituzione, se non è diretta secondo la legge del dovere». Noi che viviamo in pieno la crisi delle istituzioni, e talora delle speranze, sorte dopo il 1945, non possiamo leggere queste parole nel tomo V dell’Enciclopedia, pubblicato esattamente due secoli fa, senza avvertire in esse un’intuizione particolarmente profonda e illuminante, di cui si deve essere grati al genio di Rousseau. Nella cultura italiana una lunga tradizione di omaggio formale e di adesione al machiavellismo e alla mentalità storicistica (che non va confusa affatto con il senso della storia o storicità) – prima hegeliana, poi gentiliana e crociana, ora marxista – ha oscurato fortemente il concetto e il valore di una «moralità politica» che costituisce a un tempo una questione da discutere realisticamente con rigore e per noi italiani il primo bisogno e il dovere più urgente.
Per divergenti che siano i fini contingenti delle diverse e opposte forze politiche in campo e degli uomini in esse impegnati, per tutti l’attività politica, secondo il significato stesso del termine, significa attività che si svolge a vantaggio della polis nella sua totalità e in rapporto alle altre comunità politiche. Dunque la politica non può avere rispetto allo Stato e alla società, a cui è logicamente e vitalmente connessa, un’efficacia negativa o distruttiva, come del pari l’attività economica non può avere per fine la distruzione della ricchezza e l’attività scientifica non può proporsi la dissoluzione o la corruzione della verità.
E poiché la società e lo Stato rappresentano e sintetizzano scopi e interessi collettivi, una politica che persegua fini particolari in modo prevalente o esclusivo manca all’esigenza elementare e fondamentale che la costituisce come politica.
L’osservazione che spesso, nel giuoco sottile della storia, gli individui servono a fini che non si erano proposti e che trascendono le loro intenzioni, richiama un’esperienza suscettibile di trascrizioni diverse, ma non autorizza l’inerzia né l’ottimismo – talora ingenuo, mai innocuo – di chi conferisce al male la fecondità positiva che spetta solo al bene.
La spontanea esigenza etica, interna al sorgere e all’esercizio dell’attività politica, che potremo chiamare «etica» della politica (in un senso del tutto diverso da quello della eticità hegeliana) consiste nel fatto che la politica è strutturalmente orientata verso il bene comune della sua stessa natura e, dunque, esige la subordinazione di tutti gli altri possibili fini di carattere particolare a questo fine supremo. Il bene comune è il criterio discriminante dell’azione politica, per cui la regola è, come aveva detto Aristotele, che il governo e l’attività politica abbiano per obiettivo «non l’utilità particolare ma il bene di tutti» (Politica 1279 a 25-32; b 35-36); «è impossibile del resto – incalzava il grande filosofo – che lo Stato possa essere felice nel suo complesso, senza la felicità di tutti o della maggior parte dei suoi cittadini» (1264 b 17-19). Quando i cittadini o la maggioranza di essi si sentissero gravemente insoddisfatti, non si può continuare a parlare della felicità di un tutto le cui parti siano infelici e al potere viene a mancare il consenso su cui deve pur reggersi.
Aspetto non meno «funzionale» e decisivo del bene comune è il suo porsi, per ineludibile comando della ragione, come ideale regolativo anche delle relazioni tra i popoli, e non soltanto all’interno di una determinata società e di uno Stato, pur nella tensione di un incessante confronto di interessi, di punti di vista, di civiltà aventi differenti gradi di sviluppo storico. La regola che il governo e l’attività politica abbiano per obiettivo «non l’utilità particolare ma il bene di tutti» vale anche nella comunità internazionale. L’illuminista Montesquieu attestava una profonda assimilazione del messaggio cristiano – processo questo quanto mai difficile, ma che non ha mai cessato di svolgersi, grazie all’impulso immesso nella storia umana da Cristo e dai suoi imitatori – quando scriveva: «Se sapessi di qualcosa che potesse giovare a me, e riuscire dannoso alla mia famiglia, lo respingerei dall’animo mio. Se sapessi di qualcosa che giovasse alla mia Patria e nuocesse all’Europa, ovvero che giovasse all’Europa e nuocesse al genere umano, lo considererei come un delitto» (Riflessioni e pensieri inediti, trad. it. Einaudi, Torino 1944, p. 9).
C’è un bene comune delle nazioni che non può essere sacrificato a quello unilaterale e parziale di un singolo Stato ed è certo che l’idea di umanità non solo come specie, ma come valore, non può essere dissociata da quella di Stato e di comunità internazionale. Il concetto di bene comune compendia, armonizza e caratterizza i fini specifici dell’attività politica, designando esso stesso una sintesi di fattori molteplici – economici, sociali, culturali, giuridici, morali e religiosi – riguardanti sia la convivenza dei cittadini nello Stato che la convivenza degli Stati nella comunità internazionale.
La dialettica naturale dei partiti e delle tendenze politiche trae alimento dalla problematica concernente i vari aspetti del bene comune, i loro reciproci rapporti di coordinazione e di subordinazione, la possibilità di una sintesi concreta sul piano operativo. La tragica fecondità del male e il fermentare di cupidigie che facilmente s’intravedono sotto diverse maschere ideologiche, sia sul piano della politica interna che su quello della politica internazionale, non servono ad accreditare l’aspra indiscriminata censura della politica in quanto tale e l’identificazione dell’attività politica con le sue deformazioni più aperte e ricorrenti. Due considerazioni molto semplici ci pongono al riparo dallo scetticismo: la realtà politica è una realtà umana, con tutti i caratteri generali e differenziali di questa, con tutte le ragioni che attestano la miseria e la grandezza dell’uomo, con le sue ombre e le sue luci, nella coscienza umana e nella storia i valori non sono mai in una perfetta e assoluta attualità, bensì allo stato di esigenza e di relativa attuazione, il che non significa che siano sempre e dovunque assenti. La politica, specialmente se considerata in alcuni aspetti più appariscenti, è esposta, come e più di ogni altra attività umana, alle possibilità negative degli pseudovalori e dei disvalori; ma neppure il prevalere dell’inautentico sul terreno politico ci autorizza a scambiare le finalità e le esigenze connaturate all’essenza della politica con i fenomeni paurosamente degenerativi che l’esperienza ampiamente ci attesta. «L’eticità» intrinseca all’attività politica in quanto tale, l’intima sua finalità e la tensione originaria al valore a cui quell’attività è orientata può essere elusa, calpestata o assecondata e attuata, ma essa è «condizionante» dell’attività politica.
Giornale di Brescia, 30 ottobre 1975