LA FILOSOFIA DI KAROL WOJTYLA[1]
É certo non facile recensire mente pura bono honestoque proposito, secondo l’espressione di Seneca, opere di filosofia morale di un “collega” così illustre da essere poi diventato Papa. Ma è del pari bello constatare che finalmente un intellettuale di razza, e non solo un estimatore del lavoro dell’intelligenza, è stato chiamato alla cattedra più alta. Nell’itinerario spirituale di Karol Wojtyla gli studi filosofici hanno giocato un ruolo di notevole importanza. Nel 1953 ottiene a Roma l’abilitazione all’insegnamento alla facoltà di teologia, ma la tesi è sul filosofo tedesco Max Scheler. Il colloquio tra il tomismo esperienziale e le filosofie contemporanee è la via imboccata fin dall’inizio. Al centro dei suoi numerosi contributi e dell’insegnamento è sempre il problema della dignità e della condotta dell’uomo, come oggi lo è nella sua azione pastorale e nel suo magistero.
Di Wojtyla ho potuto leggere – oltre i tre densi saggi fondamentali stesi per convegni tenuti nel nostro Paese, La struttura personale dell’autodeterminazione (1974), Teoria e pratica: un tema umano e cristiano (1976), Il problema del costituirsi della cultura attraverso la praxis umana (1977) – due opere tradotte in lingua italiana: il volume di Max Scheler (Edizioni Logos, Roma 1980, pp.250) e i Fondamenti dell’ordine etico (Editrice CSEO, Bologna 1980, pp. 174). Il libro sulla “fenomenologia morale” di Max Scheler è compatto, saldo nel suo serrato argomentare, chiaro ma non divulgativo. É insieme una monografia e un’opera di teoretica. L’altro volume raccoglie undici scritti di diversa mole e importanza, apparsi su varie riviste nell’arco di tempo che va dal 1955 al 1970. In essi il prof. Wojtyla ripercorrere criticamente le concezioni di cinque autori che hanno in vario modo svolto un ruolo decisivo nella formazione del pensiero etico: Aristotele, Tommaso, Hume, Kant, Scheler.
Scheler, il filosofo tedesco (1874-1928) che tanto ha influito sulla cultura europea del nostro secolo, è personaggio di forte rilievo, il cui cammino ha conosciuto, proprio sul finire della vita, anche sconcertarti arretramenti e deviazioni. E tuttavia, in un clima per tanta parte dominato dalla volgarità del positivismo e dallo storicismo, Scheler ha saputo porre in primo piano il grande tema della vita morale e dei valori, applicando alla filosofia pratica quel metodo fenomenologico che Husserl aveva elaborato per affrontare, da un nuovo punto di vista i problemi teoretici.
Di Scheler il prof. Wojtyla respinge e critica lucidamente, con ampiezza, insufficienze e aporie; ma nell’opera del tedesco gli acquisti positivi e i suggerimenti da sviluppare sono tanti. Scheler ripudia ogni apriorismo in senso kantiano, denuncia senza sosta la unilateralità del formalismo etico e i pericoli che derivano dal disprezzo per i contenuti concreti dell’opzione morale. Scheler sottolinea altresì il carattere personale della vita morale, i cui valori permeano di sé tutta la nostra esistenza, proprio perché la loro caratteristica è di manifestarsi nell’atto di realizzare tutti gli altri valori. Lo sforzo di Scheler è di elaborare una dottrina fondata sull’esperienza, capace di vincere l’impressione di “negativismo” che, a torto o a ragione, si era diffusa nei riguardi dell’’etica identificata ut sic con la morale kantiana dell’imperativo categorico. Scheler si capisce meglio nella sua funzione storica come risposta a Nietzsche. La preoccupazione di Scheler è tanto forte che, nello slancio della polemica, misconosce interamente il carattere normativo della morale e non vivifica paolinamente la legge con l’amore, ma rende reciprocamente esclusivi dovere e valore; ai suoi occhi, infatti, il valore dà alla vita morale quel carattere positivo, creativo che il dovere, l’obbligo le toglie. É vero che l’elemento fondamentale in etica non sono le norme e che, se vogliamo penetrare nella vita etica di una persona o anche di tutta la società, dobbiamo anzitutto mirare a stabilire il loro mondo di valori, il loro ethos. E tuttavia, a mio avviso, tutto ciò non ci obbliga a sminuire con lo Scheler la saggezza di Kant, la quale è più forte dei paradossi del suo formalismo. Sarebbe veramente auspicabile che la discussione sul rapporto Kant-Scheler servisse a farci cogliere la sconcertante attualità della dottrina morale del nostro Rosmini.
Nel volume I fondamenti dell’ordine etico si leggono affermazioni che attenuano fortemente la condanna scheleriana di Kant. Wojtyla nega che «la comprensione kantiana della moralità fosse completamente distaccata dall’esperienza» (p. 33) e riconosce la validità delle riserve kantiane su qualsiasi forma di utilitarismo. Non fu forse per liberarsi da esse che il filosofo di Könisberg sconfinò nel formalismo aprioristico (p. 105)! Su di un punto Kant aveva visto giusto: la specificità stessa dei fatti morali, ciò che decide dell’essenza del fenomeno della moralità, in nessun modo rientra nell’ambito del sensibile e dell’utile.
Scheler ha però ragione nel ricordarci che gli atti umani sono accompagnati – proprio per il loro valore morale, per il bene o il male in essi contenuti – da un’esperienza emozionale assai profonda. Questa osservazione ha trovato approfondimenti preziosi nella scuola polacca di J. Lindworsky, M. Dybowski, J Reutt e altri. Ciò che facciamo è sempre accompagnato da una forte risonanza affettiva. Ma, ed è ancora Kant ad insegnarcelo, altro è compiere un’azione «con» (mit) una risonanza affettiva positiva, altro è compierla «per» (aus) essa. Comunque «la riduzione di esperienze e di sentimenti morali alla categoria del piacere e del dolore sensibile è grossolana semplificazione, che comporta un banale impoverimento dell’immagine dell’uomo come pure della sua moralità» (p. 34).
Se la critica dell’apriorismo e del malinteso formalismo è diventato un tema dominante nella filosofia contemporanea, non sempre si è visto che il nemico mortale di ogni autentica morale è il «nichilismo assioogico». Con il nichilismo assiologico l’etica si ritira al margine dei suoi grandi compiti secolari e si autodistrugge. Ma per fortuna le cose stanno diversamente. La moralità si manifesta, come si è già detto, sempre attraverso i sentimenti, ma non è l’emozione l’essenza della vita morale. É poi assurdo aver tanto criticato l’apriorismo della ragion pratica kantiana per poi sostituirlo con un apriorismo emozionale.
Vi sono poi alcuni dati di fatto che secondo Wojtyla gettano luce sul problema. Il primo è il seguente: l’esperienza della responsabilità costituisce l’affermazione del legame che intercorre tra il valore morale dell’atto e la casualità della persona. «L’atto di volontà – dice molto bene Lindworsky – è una specifica esperienza in cui l’io appare come causa dell’azione». L’autore insiste su questo punto con grande forza: «bisogna dire categoricamente che la fonte del valore etico è la causalità stessa della persona» (p. 65); «l’esperienza etica non solo si compie nella persona, ma è un’esperienza della persona perché riguarda il suo essere stesso» (p. 67). Il secondo dato di fatto, mirabilmente approfondito da Aristotele e da Tommaso, è che «l’uomo si perfeziona moralmente attraverso gli atti buoni e si degrada attraverso quelli cattivi» (perfezionismo). Il bene è ciò che costituisce l’oggetto dell’aspirazione profonda dell’uomo ed è nel contempo ciò che perfeziona il soggetto che lo fa suo. «Della pienezza dell’uomo decide la perfezione morale» (p. 39), da cui esula nel mondo più assoluto ogni finalità. Il bene oggettivo, oggettivamente disinteressato, è il fine della persona e proprio per questo costituisce il suo compimento perfettivo. Anche sul piano della morale naturale, essendo il disinteresse l’essenza stessa dell’agire morale, solo chi non cerca nel bene altro premio che il bene, riceve la gioia che esso dà. Si fa il bene non in vista di una ricompensa; ma è nel contempo impossibile rinunciare alla gioia che al soggetto umano viene dal possesso del suo oggetto, perché questa gli è coessenziale. Agostino e Tommaso su questo problema hanno detto qualcosa che dovrebbe diventare un acquisto per sempre.
Concludo questa recensione ancora con qualche citazione. Non ci può essere un etica che non sia solidale con una visione della vita. La domanda «come debbo agire» implica l’altra: «qual è il senso profondo del vivere per l’uomo». La risposta di Wojtyla è netta. Non è tanto l’umana produttività, quanto l’umana personalità, la quale porta con sé il compito «della creazione di se stesso», che a sua volta si irradia nel mondo dei prodotti. «L’uomo è creatore perché è persona. La creazione si realizza nell’azione. Quando la persona agisce in modo a lei proprio, crea sempre qualcosa in se stessa o fuori di sé. La creazione come conseguenza del pensiero è così peculiare alla persona che costituisce ovunque la sua impronta inconfondibile, la prova della sua esistenza e presenza nel mondo» (pp. 147-148). Nel saggio Il personalismo tomista una pagina ci è parsa particolarmente perspicua, quella sui rapporti tra persona e società. Il genio del cristianesimo ha da sempre affermato il principio di correlazione tra il bene della persona e il bene comune, ma di tale principio il tomismo ha dato la giustificazione più articolata e vigorosa. Wojtyla la ripropone in termini di bruciante attualità. «Il bene individuale della persona deve essere per natura di cose subordinato al bene comune a cui tende la collettività, la società – ma questa subordinazione non può in nessun caso degradare a annullare la persona stessa. Ci sono certi diritti che ogni società deve garantire alla persona, poiché senza di essi non è possibile la vita stessa della persona e il suo corretto sviluppo. Uno di questi diritti fondamentali dell’uomo è il diritto alla libertà di coscienza. Questo diritto viene sempre intaccato dal cosiddetto totalitarismo oggettivo, secondo il quale la persona umana deve essere interamente e in tutto subordinata alla società. Invece il personalismo tomista sostiene che la persona deve subordinarsi alla società in tutto ciò che è indispensabile alla realizzazione del bene comune, e che il vero bene comune non minaccia mai il vero bene della persona, anche se può esigere da quest’ultima seri sacrifici» (pp. 150-151).
La verità di queste parole, permeata di sapienza universale, nasce non solo da una rigorosa riflessione, ma anche dalla partecipazione in prima persona al dramma del popolo a cui appartiene chi le ha scritte. Beati coloro per i quali la fonte della filosofia non è solo la meraviglia o il dubbio, ma anche il dolore e l’amore.
[1] La Voce del Popolo, 24 settembre 1982