Dall’educazione arcaica alla paideia ateniese

INDICE CAPITOLO I

  1. L’educazione primitiva
  2. Il retaggio omerico
  3. Il cosmos spartano
  4. La formazione dell’uomo nella Grecia ionica
  5. La paideia ateniese

 

  1. L’educazione primitiva

Comprendiamo qui, sotto il nome di educazione preclassica, cose differenti, quali l’educazione primitiva vera e propria e l’educazione che si è sviluppata antecedentemente a quella classica greco-romana. Nulla ci autorizza a identificare la mentalità primitiva con quella preclassica; tuttavia ci sembra di poter scorgere, almeno dal punto di vista educativo, qualcosa di comune, come il tentativo di risolvere per lo più tutti i problemi educativi e di organizzazione sociale con una imposizione dall’alto, da parte dell’autorità costituita, la quale si presenta agli individui e ai popoli come l’incarnazione dei valori del gruppo sociale. Questo orientamento che chiamiamo «primitivo» o «preclassico» non è soltanto caratteristico dei popoli primitivi o selvaggi, antichi e moderni, ma è tipico anche delle civiltà umane di più remota tradizione, alcune delle quali, a esempio la civiltà cinese, la giapponese e l’indiana, hanno avuto una grande influenza fino all’epoca più recente. Esso poi riaffiora di continuo, in quella sua caratteristica essenziale, e sia pure con diverso grado di consapevolezza, persino in alcuni momenti della storia dei popoli più evoluti. Infatti, nell’educazione che ufficialmente si riscontra nei vari regimi dispotici e nelle diverse forme del totalitarismo, là dove il comando politico appare come l’espressione della razza e delle esigenze superiori della classe o insomma come l’«assoluto sociale» a cui l’individuo deve legarsi totalmente, noi vediamo, almeno sotto questo aspetto e nonostante l’impegno di un tecnicismo didattico sempre più abile e perfezionato, un ritorno al motivo dominante dell’educazione dell’umanità fanciulla.

Il mondo dei primitivi è un mondo prevalentemente magico, mitico e fantastico, in cui l’intelligenza non ha introdotto ancora le sue distinzioni. In questo senso è un mondo essenzialmente «prelogico e prenozionale» (Lucien Lévy-Bruhl); ma esso è destinato a diventare lentamente il mondo della nostra razionalità (Wilhelm Schmidt e la sua scuola viennese) e, quindi, non dobbiamo dimenticare che l’anima primitiva non è poi qualitativamente differente dalla nostra, ma rivela soltanto delle varianti, rispetto alla nostra mentalità di civilizzati, molto notevoli se si vuole, e tuttavia nel loro complesso sempre radicate sopra quanto costituisce il fondo comune dell’umanità1.

Almeno due caratteri contraddistinguono la mentalità primitiva: l’emozionalismo, per cui il primitivo vive un’esperienza prevalentemente affettiva, e il concretismo, per cui rifugge dal ragionamento astratto e si dirige di preferenza alla sensibile realtà vivente, le cui forze sono divinizzate e, a poco a poco, esplorate. Questa mentalità normalmente accompagna la formazione dei primi piccoli aggregati etnici, le tribù e i clan. Si tratta di nuclei fortemente omogenei, di gruppi chiusi e rigidamente conservatori, nei quali l’individuo è costantemente sottoposto alla pressione della collettività2.

L’ufficio educativo della famiglia, e in particolare della madre, si avvale di tradizionali convinzioni per dirigere con i primi precetti la nutrizione e l’allevamento dei figlioli; dopo pochi anni a esso subentra l’attività del corpo sociale, poiché il patrimonio dei sentimenti, delle idee e dei costumi, che esiste anche nella più embrionale società umana, è prevalentemente collettivo e tende a modellare secondo un unico stampo le coscienze individuali. Per quanto rudimentali, il linguaggio, le arti, la legislazione, i simboli, le credenze e le regole dell’azione urgono direttamente sull’individuo. La tribù è infatti considerata come un corpo mistico a cui partecipano i vivi ed i morti: un organismo la cui esistenza garantisce e sostiene la stessa vita dei singoli.

L’educazione in tali condizioni non è altro che il processo della totale assimilazione della vita individuale nella vita della comunità, una progressiva iniziazione rituale agli usi e alle credenze del gruppo sociale. A questo riguardo ha una sua particolare funzione educativa anche il culto degli antenati, così vivo in tutti i popoli antichi. L’antenato è colui che è vissuto secondo le regole comuni ed è morto fedele al suo gruppo. Perciò dopo la morte il suo spirito diventa venerabile e santo, e possiede la virtù di un genio benefico e tutelare, che il vivente ha il compito di evocare e di imitare.

La tecnica educativa non si limita all’infanzia e all’adolescenza, ma si estende a tutta la vita del singolo ed è implicitamente fondata sull’idea di una corrispondenza tra il macrocosmo universale, la vita del gruppo, e il microcosmo umano. Le connessioni astrologiche, sociologiche e bio-psicologiche impongono perciò una stretta osservanza dei riti stabiliti, poiché dal loro magico potere dipende persino l’esattezza del corso delle stagioni, la vita della comunità, il successo delle imprese iniziate e, infine, il destino umano e l’inserzione del singolo nell’ordine del mondo.

Il fine educativo dei primitivi è perciò lo sviluppo di individui che siano essenzialmente membri della società. Gli individui vivono dapprima, nell’età dell’infanzia, nella famiglia, e poi, entrati a far parte della collettività attraverso le varie cerimonie dell’iniziazione, acquistano una certa personalità a patto che la loro esistenza effettiva si svolga in maniera conforme ai principi tradizionali.

In questa prima fase di sviluppo spirituale e sociale dell’umanità la società stessa educa direttamente e indirettamente, attraverso i suoi riti e i suoi costumi, a cui i giovani sono chiamati a partecipare, con gli spettacoli, le danze, le pantomime e con l’iniziazione al lavoro degli adulti. In fondo si crede che il bambino appena nato non esista veramente, in quanto non appartiene ancora al gruppo sociale, e che sia la società a farlo nascere una seconda volta: di qui, a esempio, la frequenza delle usanze di infanticidio nelle società primitive.

In genere, questa rudimentale attività educativa appare improntata a una certa dolcezza. È solo in alcuni momenti culminanti che i neofiti sono sottoposti anche a prove dolorose: a lavori pesanti, al digiuno, al silenzio per qualche tempo. I popoli destinati a vivere una vita aspra e selvaggia non possono disinteressarsi dal controllare la forza dei loro giovani, e perciò costoro vengono talvolta costretti a darne una dimostrazione dinanzi agli anziani, custodi inflessibili della tradizione trasmessa dagli antenati. In alcuni casi il gruppo stampa anche fisicamente la sua impronta sull’individuo ormai definitivamente assimilato con tatuaggi e ornamenti particolari, ma anche con cicatrici indelebili. Del resto il rito del versamento e della mescolanza di sangue è abbastanza comune, ed ha il significato di una più riflessa garanzia di continuità della famiglia sociale, al di là dell’atto generativo.

La severità e il disciplinarismo si rafforzano con lo svilupparsi della prima civiltà. Le cause di questo mutarsi e l’irrigidirsi della disciplina educativa sono parecchie. Anzitutto le stesse maggiori complicazioni della vita civile diffondono l’esigenza che l’infanzia si adatti a esse più rapidamente attraverso una più inflessibile regolamentazione di prove e di esercizi. E, d’altra parte, le nuove società sorte nell’antichità dopo la fase preistorica hanno per lo più un’impronta militare, sicché era naturale che lo spirito di violenza che animava il gruppo si propagasse anche all’educazione infantile (si pensi, a esempio, all’educazione spartana). Cominciano a sorgere nuove teorie religiose che tendono a svalutare alcuni istinti della natura umana o quanto meno a imporre tra essi una gerarchia di preferenze dal punto di vista morale. Da ultimo, la decadenza dello spirito magico, che un tempo s’imponeva per se stesso agli individui, implica la sua sostituzione con qualcosa d’altro che assicuri il rispetto e il timore di fronte all’ordine sociale: di qui una disciplina più ferrea, in cui non si escludevano i colpi e le battiture.

Non si deve credere, però, che il carattere di iniziazione rituale magico dell’educazione primitiva scompaia senz’altro con l’avanzare della cultura. Vi sono tracce di magismo educativo molto evidenti presso quasi tutte le popolazioni di epoche posteriori e anche nella nostra società moderna. Tutti i paesi hanno le loro leggende, credute o no, il loro folclore, i loro miti, le loro superstizioni, le loro cerimonie a cui sentono, in qualche modo, esser legata la sorte della comunità. Persino nella cosiddetta «buona società» ci sono regole di «buona educazione», la cui violazione comporta in alcuni casi l’espulsione o la deplorazione da parte di tutti gli altri, regole che rivestono un carattere di obbligatorietà tradizionale e, quindi, esercitano un ufficio molto simile a quello dell’antica magia. Inoltre abbiamo visto riaccendersi nella nostra epoca una sorta di misticismo politico che pone un tipo di società come unico e assoluto e concepisce l’educazione essenzialmente come propaganda e come sottomissione riverente e prona a esso.

Nel tipo dell’educazione corrispondente in genere alla mentalità preclassica si possono distinguere come due sottospecie: una che si riferisce al periodo primitivo e selvaggio, e l’altra che si riferisce al primo periodo storico socialmente più evoluto. Man mano che ci si allontana dalla mentalità preistorica e veramente primitiva, la società si organizza in modo più complesso. Essa ci appare per lo più distinta in due classi fondamentali. La classe più numerosa, la massa, si preoccupa essenzialmente di produrre economicamente, con una tecnica e un’abilità in taluni casi insospettate. La sua preoccupazione prevalente è lo sviluppo di quelle capacità lavorative e di quelle abitudini tradizionali che sembrano necessarie per vivere meglio. Alla classe dei privilegiati, dei dominanti, è concessa una vita materiale più comoda e più raffinata, e in essa si va sviluppando lentamente una cultura superiore, mediante l’uso della scrittura.

È stato ben detto da Henri-Irénée Marrou che «la storia dell’educazione antica rispecchia il passaggio progressivo da una cultura di nobili guerrieri a una cultura di scribi». Beninteso la cultura degli scribi ha assunto nel tempo e nello spazio forme molto diverse, ma in tutte l’accento batte su ciò che è scritto. Lo scriba è essenzialmente colui che ha dominato i segni della scrittura e si sa quale fosse l’enorme difficoltà pratica dei diversi sistemi di scrittura in uso non solo in Cina, ma anche in Egitto e in Mesopotamia, dove si giustapponevano elementi di valore geroglifico, sillabico e alfabetico, senza parlare delle complicazioni supplementari prodotte in Egitto dalla pratica simultanea di tipi diversi di scrittura (geroglifica e ieratica, poi demotica) e in Mesopotamia dall’uso, nello stesso ambiente culturale, di lingue diverse (sumerica e accadica, più tardi aramaica).

Socialmente lo scriba è un funzionario al servizio dell’amministrazione, del potere politico o di quello sacerdotale. Egli tiene i conti, classifica gli archivi, redige gli ordini, è capace di riceverli per iscritto e, quindi, è naturalmente incaricato della loro esecuzione. Perciò la classe degli scribi appare, dal punto di vista politico e sociale, come una classe superiore, che partecipa più o meno all’esercizio del potere e ne detiene, direttamente o indirettamente, una parte.

Di qui l’importanza che le vecchie società orientali riconoscevano all’istruzione, l’unica via per introdurre il fanciullo in questa classe privilegiata. Testi letterari egiziani ci hanno trasmesso l’espressione pittoresca di quest’orgoglio di casta. Verso il 2240-2260 è lo scriba Aktoy che, per incoraggiare suo figlio Pepi all’ingrato studio delle lettere, gli delinea un quadro satirico dei mille inconvenienti dei mestieri meccanici, in contrapposizione al felice destino dello scriba. Il medesimo monito è rivolto dal primo archivista regio di Ramses II (1298-1232 a.C.), Amenemope. Questi testi erano divenuti «classici»: lo prova il fatto che ci sono stati trasmessi in forma di «brani scelti» e sono rimasti a lungo assai noti, tanto fondamentali erano i sentimenti che esprimevano3. Certo non bisogna esagerare i contenuti reali della formazione dello scriba, ma essa, pur comprendendo un’istruzione tecnica e utilitaria, la oltrepassava intenzionalmente mirando alla saggezza. In principio non è che una saggezza pratica, un sapersi comportare, fatto di buone creanze e di abilità, ma talora sfocia in un’alta concezione morale del potere politico e si rasserena persino in nobili aspirazioni religiose.

Nondimeno, nella maggior parte dei casi la mediocrità accompagna e favorisce il fenomeno della sclerosi e della cristallizzazione di moduli, formule, istituzioni. Nella classe dominante l’istinto conservatore mira a fissare l’educazione in modo che l’educando partecipi alla cultura e alla vita morale consacrate dalla casta. Ogni indipendenza dalla tradizione è severamente vietata, poiché in essa si perpetua il culto degli eroi, dei saggi, degli dei o semidei che hanno presieduto alla nascita della società e la proteggono. Perciò l’uomo dev’essere formato per servire fedelmente la società e il capo che la rappresenta, per assoggettarsi ai riti comuni e per ubbidire senza discussioni alle necessità della collettività, espresse concretamente dalla classe dei dominatori. Ai sudditi in genere non resta altra alternativa che la sottomissione. Anche i nati nelle caste privilegiate (anzi essi in modo speciale e con più rigorosa vigilanza) sono vincolati allo stesso patrimonio culturale, politico, etico e religioso. Chi non si adatta è respinto, talvolta soppresso, come un soggetto poco educabile o addirittura dannoso.

L’educazione preclassica è dogmatica e procede per ammaestramento passivo; per di più essa è fondata, nei primi istituti educativi variamente sorgenti, su metodi esclusivamente mnemonici e rigidamente disciplinari. «Le orecchie del fanciullo sono situate sulle spalle; egli ascolta quando viene battuto», così si legge in alcuni papiri egiziani.

Lo schema interpretativo e riassuntivo ora delineato bene si applica alla civiltà cinese, a cui Confucio (date tradizionali: 551-479 a.C.) diede un vero contenuto etico-religioso, delineando un’etica della responsabilità come sovraordinata all’esercizio del potere in quanto tale. «Governare significa rettitudine: se voi amministrate un popolo con giustizia, chi oserà non essere corretto?» (Lun-yii,XII, 17). Il moralismo di Confucio è tutt’altro che rivoluzionario. La sua morale vuol conciliare la saggezza tradizionale con una sana formazione personale; e il suo ideale è un’educazione familiare e civile che dia regole e prescrizioni adatte a realizzare un’armonica convivenza nell’ambito della famiglia e della società, ove ogni classe adempie il suo ufficio alle dipendenze di un saggio sovrano. «Vi è (buon) governo quando il principe si comporta da principe, il ministro da ministro, il padre da padre, il figlio da figlio» (Lun-yii, XII, 11, 1-2). In sostanza egli è piuttosto conformista, avendo come scopo principale quello d’instillare l’amore verso i genitori, il rispetto verso i superiori e le autorità costituite e il culto degli eroi nazionali e degli antenati. In questo senso Confucio raccoglie il meglio della tradizione e lo fissa in formule felici, che incontrarono una particolare fortuna. Egli non crea veramente nulla, si ispira essenzialmente al contenuto della tradizione, ne adotta il punto di vista, lo penetra genialmente e lo trasmette con efficacia.

Ma l’insegnamento di Confucio, perpetuato nelle scuole cinesi, col passare del tempo, pur attraverso fasi alterne di splendore e di decadimento, finì con l’inaridirsi. I maestri insegnavano essenzialmente a leggere e scrivere sui testi lasciati da lui. Lo scopo fondamentale era quello di utilizzare, imparandole a memoria e imitandole alla perfezione, le formule e le locuzioni già consacrate nella tradizione. Anche l’istruzione superiore col II secolo a.C. acquista in Cina un carattere principalmente mnemonico, formale e letterario. Dopo il tramonto della feudalità guerriera, i funzionari civili e militari erano reclutati attraverso concorsi rigorosi, a cui chiunque poteva partecipare e in cui venivano prescelti coloro che avevano assimilato meglio degli altri la lingua e la letteratura del passato. Ciò causò anche l’incompetenza dei pubblici funzionari nelle cose pratiche, dal momento che la loro abilità, a esempio di governatori di province e di consiglieri era misurata col metro della loro capacità a comporre, ad analizzare e a commentare in schietta lingua i testi e le norme morali degli antichi. A questo formalismo letterario si deve in gran parte attribuire la degenerazione della civiltà cinese. Chiusa entro la Grande Muraglia, essa si inibiva ogni contatto esterno; irrigidita nella pedissequa ripetizione del già fatto, perdeva lo slancio che pure aveva avuto inizialmente e per tanti secoli viveva di una vita ereditata, senza possibilità di sviluppi per l’avvenire.

Lo stesso tipo d’educazione impersonale, ma improntata piuttosto al militarismo delle prime civiltà, si ebbe in Giappone. Quivi, accanto all’antica religione animista dello scintoismo, che venerava gli eroi e gli antenati come dèi, nel 552 d.C. erano penetrati dalla Cina il buddismo e il confucianesimo. Ma il popolo giapponese, malgrado accettasse molti elementi del buddismo, ispirato a una più alta visione morale, attribuì sempre alla shintò (via=, degli dèi =shin) il valore d’istituzione patriottica, destinata a conservare le tradizioni nazionali di devozione al paese e al sovrano, per il bene e l’onore dei quali ogni sacrificio può essere richiesto4.

La mancanza di una vera fede religiosa e di una spiegazione razionale del dovere da compiere fino al sacrificio, spiega la venatura del pessimismo fatalistico a cui era sostanzialmente educata la gioventù di quel paese fino a qualche decennio fa.

  1. Il retaggio omerico

Il primo valido tentativo di risolvere il problema dell’educazione della persona umana si ebbe durante il fiorire della civiltà greca, e precisamente presso i greci della Ionia. Non bisogna, certo, cadere nell’errore di attribuire a tutta la civiltà ellenica ciò che era soltanto l’ideale o il privilegio di alcune epoche o classi particolari, tuttavia non si può negare che, nonostante le inevitabili variazioni, ci sono delle caratteristiche prevalenti le quali permettono di determinare nelle sue linee fondamentali l’orientamento educativo di quel popolo.

Non si può parlare dell’educazione classica senza risalire a Omero5, l’«educatore della Grecia» come lo chiama Platone (LeggiI, 643 a-644 a), colui che ha dato ai greci quell’antichissima storia collettiva che essi in realtà non hanno avuto se non durante le guerre persiane. L’educazione letteraria greca, in ogni tempo, considerò Omero il testo base, il centro dei suoi studi, così come faranno sebbene con un’incidenza molto meno ampia e profonda, gli italiani con Dante e gli anglosassoni con Shakespeare. I greci hanno avuto in Omero un maestro quale forse non trovò nessun’altra nazione. Omero sarà sempre l’autore, il classico per eccellenza nella casa di ogni greco colto o nella tenda di Alessandro durante le sue guerre, e qualcosa della sua visione della vita è indubbiamente diventata componente essenziale dell’anima greca: l’etica dell’onore, l’«ideale agonistico della vita» (Jacob Burckhardt), la concezione della vita valorosa, la forza d’attrazione dell’esempio eroico, l’amore schietto della vita e insieme l’essere pronti a sacrificarla a qualcosa di più alto. A questi aspetti eroici si accompagnano il senso, umanissimo, della brevità dell’esistenza terrena, l’inquietudine verso l’esistenza ultraterrena che appare incerta e vaga (è famosa l’apostrofe che Achille dall’Ade rivolge a Ulisse: «Non volermi consolare della morte; preferisco essere vivo, salariato del più povero contadino, piuttosto che dominare su tutti i morti, su questo popolo spento», Odissea, XI, 448 s.), una reale tristezza, a torto pervicacemente ignorata dalla rappresentazione che romantici e neo-umanisti dettero dell’intera civiltà greca da Achille ad Alessandro. Omero costituisce il più antico documento sull’educazione arcaica e sul medioevo ellenico, ma la sua opera è essa stessa erede di un’esperienza nella quale si sovrappongono posizioni precedenti e ricordi che abbracciano circa un millennio di storia6, per cui residui barbarici affiorano, qua e là, pur essendo genialmente limitati e trascesi dal vigile senso estetico del poeta. Infatti «nulla gli è più alieno della ebbra sfrenatezza degli eroi d’altre epopee; la divina armonia dell’arte che la Musa gli detta si trasforma in legge di misura che nessuno deve trasgredire e che aborre da ogni eccesso» (Gaetano De Sanctis, Storia dei greci dalle origini alla fine del secolo V, La Nuova Italia, Firenze 1942-1943, vol. I, p. 230). Poeta di battaglie, sa appieno schivare il brutale compiacimento del sangue versato, perché «non è cosa santa gavazzare sui cadaveri», come dice uno stupendo verso dell’Odissea.

Gli eroi omerici non sono dei soldati brutali; in un certo senso, sono già dei cavalieri. Il servizio di corte dei giovani è analogo a quello dei paggi del medioevo, e così l’ufficio di «scudiere» che abilita a imprese gloriose. Grande è la delicatezza di comportamento verso la donna: gli stessi proci hanno tanto rispetto per Penelope, Laerte non si unisce alla schiava Euriclea per non offendere la consorte (Odissea, I, 433). Come nel Medioevo, insieme con le cerimonie, i giochi costituivano l’aspetto dominante dei cavalieri omerici: spontanei e cordiali come nella festa in casa di Alcinoo, solenni e organizzati con cura come nei giochi funebri in onore di Patroclo (pugilato, corsa, scherma, lancio del peso, tiro con l’arco, giavellotto, corsa dei carri). L’onore cavalleresco mitiga i rituali improperi che preludiano alla mischia e accomuna i due veri eroi dell’Iliade, Achille, sul cui capo incombe la minaccia di morte precoce, accennata opportunamente nel primo come nell’ultimo libro del poema, ed Ettore, il cui mirabile addio ad Andromaca e al figlioletto prepara idealmente la sua morte in battaglia. Ettore, «colui che tutto sostiene», il magnanimo difensore di Troia che non ama la guerra, è l’eroe la cui gloria è portatrice di sventura, l’eroe il cui affetto per la famiglia e per la patria è puro ed è contraccambiato dai parenti e dai concittadini di pari amore. Il poeta, con raro senso di comprensione, ha fatto proprio di Ettore la figura più cara e umana dell’Iliade, quella che «avrà onore di pianto… finché il sole risplenderà sulle sciagure umane». Il poema si chiude col pianto di Priamo e Achille, entrambi affratellati nel dolore per la morte del figlio e dell’amico, sgomenti dinanzi al fato amaro che ci preme, non il barbaro grido di trionfo sul corpo del vinto fa da suggello all’epopea, ma l’umano senso di pietà per ogni sciagura umana. In ciò consiste la vera forza catartica di Omero, il suo più alto retaggio, la sua capacità formativa. «E tuttavia – osserva Gaetano De Sanctis (op. cit., vol. I, pp. 232-233) – nonostante l’influsso così profondo e per molti aspetti così benefico che Omero ebbe sull’animo dei Greci, non deve apparire ingiustificato e pazzo il bando contro di lui che Platone, procedendo sulla via segnata da Senofonte e da Eraclito, sanciva nella sua repubblica ideale; perché col diritto era anche il rovescio della medaglia. L’epopea trascinava con sé un peso morto, la morale inferiore e la religione inferiore d’una età primitiva. E di questo peso morto era tanto più difficile liberarsi quanto più essa era una forza viva ed operante. Da ciò l’apparente antinomia, per cui i migliori pensatori ed educatori dei Greci o ripudiavano quell’Omero che tanta efficacia aveva potuto avere nella loro stessa educazione o la falsavano con interpretazioni allegoriche. Ma siffatte sono appunto le antinomie tra le quali si avvera il progresso umano».

  1. Il cosmos spartano

Una società chiusa tende a perpetuare una morale chiusa, a farsi totalitaria, a darsi un ordinamento educativo statico. Particolarmente rappresentativo di questo tipo d’educazione arcaica, militare e aristocratica, è il sistema realizzato a Sparta, nonostante che per lo più si consideri l’educazione spartana come uno dei tipi d’educazione classica. Non si vuol negare l’influsso che poté esercitarsi sugli spartani da parte dell’educazione che finì col prevalere su gran parte della Grecia; ma il fatto è che Sparta, in Grecia, anche nei confronti dell’educazione, fa un capitolo a sé, paese paradossale, oggetto di scandalo e di appassionata ammirazione da parte di teorici utopistici.

Occorre periodizzare storicamente il discorso su Sparta per evitare forzature e irrigidimenti che diventano involontarie, ma reali, falsificazioni. C’è una storia di Sparta nei secoli VIII, VII e VI che vede il fiorire della Laconia. Sparta vive la sua età dell’oro nel VII secolo, dopo la sottomissione della Messenia, diventando ciò che Atene sarà nel V secolo, la metropoli della civiltà ellenica. L’educazione dello spartano non è più quella dal cavaliere, com’era nel cosiddetto medioevo omerico, ma quella del soldato. Le ragioni di ciò e le profonde conseguenze morali e sociali che ne derivarono ce le spiega con profondo acume Aristotele (Politica, IV, 1297 b, 16-25). Il combattimento è deciso non più da una serie di scontri fra cavalieri, ma dall’urto di due linee di fanti in ordine serrato. All’ideale del cavaliere, del compagno della schiera del re, si sostituisce l’ideale collettivo della polis, dell’incondizionata dedizione allo Stato, che diviene il quadro fondamentale della vita umana. «È bello morire, cadendo in prima fila, da prode che combatte per la patria», canta Tirteo (fr. 10, 1-3), il poeta che interpreta questa nuova etica. Ma Sparta in questi primi secoli, in questa sua precoce fioritura, è ben lontana dalla rigidezza disumana e dal militarismo della Laconia classica. Essa non ignora le arti. La musica assicura il legame tra i diversi aspetti della cultura: si unisce alla ginnastica nella danza, fa da veicolo alla poesia con il canto, contribuisce a stabilire un’atmosfera di grazia e di gaiezza nei concorsi artistici e nelle feste nazionali. Sparta, a capo del progresso in Grecia dall’VIII al VI secolo, ha il gusto degli sport ippici e atletici: è sportiva e non solo militare. Dal 720 al 576 su 81 vincitori olimpionici conosciuti, 46 sono spartani; e per la prova decisiva della corsa a piedi ventun sono spartani su trentasei campioni conosciuti. Lo sport è ancora praticato con animo agonistico e non è stato soffocato dalla rozzezza barbarica. Lo sport non è riservato solo agli uomini, come è attestato da piccoli bronzi della prima metà del VI secolo e poi, con ricchezza di particolari, da Plutarco.

La forte animazione civica della cultura e dell’educazione della prima Sparta si perverte in ideologia totalitaria verso il 550. Gli storici, a cominciare da Gustave Glotz e da Victor Leopold Ehrenberg, sono d’accordo nel porre a metà del secolo VI la rivoluzione reazionaria di Sparta. L’agitazione delle classi popolari per l’estensione dei diritti civili, in connessione con la seconda guerra di Messenia, è ferocemente spezzata dall’aristocrazia, la quale volle rendere stabile il suo trionfo con istituzioni appropriate. Sparta divorzia dalle altre città greche e si fa dominare da un’aristocrazia reazionaria, mentre altrove le tirannidi, fondate sul favore popolare, mettono fine all’oppressione oligarchica, segnando così una tappa decisiva verso una crescente partecipazione del popolo al potere. I tiranni, questi uomini ambiziosi ed energici che provenienti spesso dalle file dell’aristocrazia, sposarono la causa delle classi malcontente, ma ancora inette a governare lo Stato, finirono, nota Gaetano De Sanctis, «col promuovere lo spirito democratico, se è vero che alla loro caduta si affermarono nella Grecia non dorica i regimi democratici». Ma la Grecia dorica precipita in un processo involutivo posto sotto l’alto patronato di un Licurgo, miticamente invocato a giustificazione di un cosmos in cui si esprimeva in forma perfetta l’oppressione oligarchica.

La rivoluzione reazionaria dette i suoi frutti: la cultura impoverì progressivamente; Sparta rinuncia alle arti e perfino agli sport atletici, troppo favorevoli allo sviluppo della personalità (non ci sono più campioni spartani ai giochi olimpici). Il terrore poliziesco pesa sui cittadini e rende sospetti gli stranieri. «Sparta si fa puramente militare: la città è nelle mani di una casta chiusa di guerrieri mantenuti in stato di mobilitazione permanente e irrigiditi da un triplice riflesso di difesa nazionale, politica e sociale. Questa tendenza sarà esagerata nella Sparta decadente del IV secolo, nella Sparta decaduta dell’epoca ellenistica, nell’umile Sparta municipale dell’epoca imperiale romana; ed è proprio allora, quando la grandezza lacedemonica non è più che un ricordo, che l’educazione spartana si irrigidisce e rinforza la sua severità con una violenza tanto più disperata, quanto più gratuita» (Henri-Irénée Marrou, Storia dell’educazione antica, Editrice Studium, Roma 1950, p. 41).

Il quadro dell’educazione spartana classica si ricava essenzialmente dalla Costituzione degli Spartani (II) di Senofonte, dalle Leggi (I, 633) di Platone e dal Licurgo (16-17) di Plutarco. Organizzata in funzione dei bisogni dello Stato, essa è completamente nelle sue mani. L’educazione spartana ha come fine supremo sempre l’integrità e la grandezza dello Stato, a cui il cittadino deve offrire tutto se stesso. È giusto solo ciò che giova alla potenza di Sparta. La città è priva di mura, perché i petti dei cittadini la difenderanno da ogni pericolo. A questa educazione essenzialmente guerriera si dedicano i dirigenti spartiati, dal momento che essi non hanno preoccupazioni economiche, poiché le terre sono tutte coltivate dagli iloti, veri servi della gleba.

Il potere dello Stato sull’individuo si fa notare fin dalla nascita: è lo Stato infatti che, attraverso speciali magistrati, decide se il neonato gracile o deforme debba essere esposto sul monte Taigeto, come inutile alla società. La città è trasformata dallo Stato educatore in una specie di convitto militare, di cui i giovani spartani sono gli scolari. Fino a sette anni il bambino era affidato alla famiglia, e la madre aveva il compito di dare una prima educazione sobria e sana per rendere i figlioli forti e coraggiosi nelle tenebre e nella solitudine. In seguito si passava sotto la diretta sorveglianza dello Stato. Un magistrato speciale, detto pedonomo, era preposto all’organizzazione degli istituti di pubblica educazione. In essi, diceva Plutarco (Licurgo, 16), gli alunni apprendevano «di lettere solo quel tanto che era necessario per l’uso; ogni altro ammaestramento era diretto a insegnar loro a bene ubbidire, a sopportar le fatiche e a vincere combattendo».Vi si imparava il disprezzo del pericolo e del dolore, la rigida obbedienza alle leggi e al dovere, il rispetto agli anziani, la semplicità della vita, il coraggio e la destrezza nelle armi. A questo scopo i ragazzi erano abituati a una vita dura e frugale; portavano sempre vestiti leggeri, andavano scalzi, e ogni giorno dovevano bagnarsi nel fiume Eurota; dormivano sulla paglia, mangiavano scarsamente, e se rubavano per integrare la scarsa razione di viveri non erano biasimati purché avessero dimostrato abilità e arditezza. Dagli 8 agli 11 anni i fanciulli si riuniscono collettivamente solo per i loro giochi ed esercizi; dai 12 ai 15 anni i ragazzi lasciano la casa paterna per la caserma, da cui usciranno solo a 30 anni.

I giovani partecipavano ai banchetti (syssitia), ove ascoltavano i discorsi che riguardavano gli interessi pubblici. Invitati talvolta a esprimere il loro parere, erano lodati coloro che sapevano dare il loro giudizio in modo conciso: donde la tradizione del laconismo o affettazione di brevità. I giovani intervenivano alle cerimonie civili e religiose della città, e contribuivano alla loro solennità con cori e danze d’intonazione militare, in cui si cantavano le glorie della patria e si danzava con movenze simili alle parate guerriere. Infatti la musica era coltivata solo in quanto musica militare analoga a quella delle nostre fanfare. Le Muse hanno un santuario a Sparta perché gli ospiti vanno in battaglia al suono dei flauti e al canto dell’embaterio, antico canto militare, e gli spartani intonano dopo la vittoria il peana di ringraziamento. Ma la cultura intellettuale è ben scarsa.

All’educazione spartana prendevano parte anche le donne. Il loro patriottismo riusciva persino a vincere le più naturali espressioni del sentimento femminile. La grazia arcaica, la delicatezza femminile, il pudore cedono il posto a una concezione cruda e utilitaria. Come la donna nazifascista, la donna spartana ha il dovere di essere soprattutto una robusta virago che s’accoppierà nell’interesse della razza. Nella sua formazione tutto è subordinato a questa preoccupazione di eugenetica.

Sparta rappresenta l’incarnazione di una politica coscientemente razzista, militaristica e totalitaria. Idealizzato passionalmente dai partigiani conservatori, aristocratici e oligarchi, che respingevano l’evoluzione democratica della loro città, riportando su Sparta il loro ideale represso, il miraggio spartano è stato esaltato dall’erudizione tedesca, come un modello che anticipava sotto alcuni aspetti la Germania di Federico II, Bismarck e Hitler e, in genere, l’ideologia del neo-paganesimo razzista rinato nell’Europa del XX secolo in tutta la sua disumana grandezza. L’«addestramento» spartano sa destare il senso del sacrificio a un ideale superiore alla propria individualità, senza dubbio, ma si tratta di un ideale angusto, di un utilitarismo di Stato, di un egoismo collettivo che corrompe l’autentico patriottismo. Questo è un valore, quello è un disvalore. Così pure il richiamo alla sobrietà della vita e l’insistenza sull’irrobustimento del corpo: di per sé sono esigenze sempre valide, che devono occupare un posto non trascurabile in ogni programma educativo; ma è aberrante il contesto «spartano» in cui quelle esigenze sono pervertite perché divenute unilaterali, esasperate. Allora la sobrietà della vita diventa rozzezza, rifiuto della cultura, puritanismo fanatico con le sue inevitabili ipocrisie. L’«indurimento» dei corpi sviluppa la virilità e la combattività, la resistenza al dolore, ma non certo l’integrità propriamente umana degli spartani. I ragazzi malnutriti sono invitati a rubare per completare il rancio e l’esercizio all’uso della violenza è diretto e brutale, coltivando esplicitamente durezza e barbarie, sino al crimine della crypteia, cioè della caccia che si dava liberamente agli iloti, vaganti di notte fuori dei loro quartieri, per completare l’allenamento del futuro combattente all’imboscata e alla guerra. Sviluppare lo spirito comunitario e insieme il senso della disciplina è un compito sempre rinascente in ogni sistema educativo, ma l’irreggimentazione nelle formazioni giovanili, così analoghe a quelle degli Stati totalitari del nostro secolo, e l’incessante rete di riflessi condizionati collettivi entro cui ogni singolo viene a essere inserito e annullato, scomparendo appunto come persona, sono le vie più idonee a formare sudditi, non cittadini. «Licurgo – dice Plutarco (Licurgo, 25) – abituò i cittadini a non volere, anzi nemmeno a saper vivere da soli, essere sempre, come le api, uniti per il bene pubblico intorno ai loro capi»7.

In conclusione il negativo prevale nettamente sul positivo. La divinizzazione dello Stato e il monopolio che esso detiene nel campo educativo implicano una svalutazione della famiglia, della libertà individuale e dell’autonomia personale. L’importanza prevalente data alle qualità fisiche esteriori degli uomini e l’educazione improntata essenzialmente alla forza, e in alcuni casi persino alla ferocia, fanno passare in seconda linea gli altri e più elevati ideali umani, le aspirazioni intellettuali, culturali e artistiche, e finiscono col soffocare anche dal punto di vista morale alcune delle più nobili tendenze dall’animo. Di fatto poi, Sparta, proprio per aver impedito una sana critica personale e progressiva, si irrigidì sempre più nelle sue istituzioni, sulla base di principi oligarchici e militareschi, tanto che già Tucidide, nel famoso discorso di Pericle per i caduti nel primo anno della guerra contro gli spartani, mette in bocca al capo ateniese oltre alla commossa esaltazione della libertà cittadina e dei suoi benefici effetti educativi, la critica agli ordinamenti di Sparta, che sacrificavano alla sicurezza collettiva la personalità umana. Platone stesso, per quanto laconizzante, nelle Leggi fa dire all’ateniese che parla a uno spartano e a un cretese: «Voi siete governati come un esercito in campo, non come cittadini che abitino nella città». E ancora Aristotele (Politica, 1337 a, 1338 b), fa le sue riserve intorno a certi metodi educativi, che rendono «i fanciulli bestiali con fatiche eccessive», osservando che il valore e il nobile coraggio si possono insegnare agli uomini senza ricorrere alla selvaggia brutalità, e rilevando che spesso un’eccessiva rigidezza nella prima infanzia e nell’adolescenza riesce dannosa alla salute e alla formazione morale.

  1. La formazione dell’uomo nella Grecia ionica

La gente ionica si distingueva non soltanto per il suo amore del rischio che la faceva particolarmente avida di viaggi e abile nei traffici marittimi, ma soprattutto per il suo desiderio di conoscenza nel campo spirituale, che la rendeva curiosa di sapere e singolarmente incline a coltivare tutte le idealità anche non economiche e utilitarie della vita. Ciò spiega, tra l’altro, il sorgere, in mezzo a essa, della filosofia, intesa come ricerca pienamente razionale intorno alla realtà e all’uomo, e il sorgere, quindi, della prima sistematica riflessione pedagogica. Ma la tendenza a discutere e a raziocinare, così evidente all’epoca dei sofisti e di Socrate (470-399), non era l’unica occupazione dello spirito greco. La prontezza dell’ingegno e la vivacità del temperamento, alleate a non comuni risorse di una ricca e varia vita interiore, a una colorita immaginazione e a naturali disposizioni a gustare la bellezza, fecero sì che, nella Grecia ionica, e in Atene in modo peculiarissimo, si affermasse un supremo ideale di armonia e di grazia, secondo cui si pensava di dover modellare tutte le attività umane.

In pratica spesso non si riuscì che imperfettamente a dar vita a quell’ideale, ma l’educazione ebbe quella mira. Essa, come dottrina e come prassi, proprio per la ricerca di una completa armonia, s’ispirò in primo luogo prevalentemente allo scopo di formare personalità umane il cui sviluppo indipendente si conciliasse con le tradizioni e le necessità della vita associata. Non mancano naturalmente episodi che rivelano momenti di riflusso, in cui torna a prevalere tenace una mentalità conservatrice: a esempio i clamorosi processi contro le «novità» dei filosofi Anassagora, Protagora e soprattutto Socrate. Ma il senso d’equilibrio che dà l’impronta alla migliore civiltà greca, si manifesta anche nei rapporti tra individuo e Stato, che sono i due poli della realtà politica.

L’educazione deve formare il cittadino. Su questo non v’è dubbio: il carattere sociale dell’educazione è sempre ben presente nella tradizione e nel pensiero greco, poiché l’«uomo è un animale politico» (Aristotele). Tuttavia è altrettanto viva nei greci dell’età classica la coscienza del valore individuale, ed è abbastanza comune l’affermazione che allo Stato, di cui il cittadino dev’essere strenuo difensore, non è permesso opprimere i sudditi. Il fenomeno spartano rimane in Grecia isolato, e prevale invece, abbastanza chiaramente, la convinzione che saggi e virtuosi magistrati, valorosi combattenti e custodi sinceri e sicuri delle migliori tradizioni civili e religiose della patria, sono anzitutto cittadini che hanno maturato una loro propria fisonomia spirituale. Infatti, come dice anche Aristotele (Politica, 1332 a), la virtù collettiva è necessaria conseguenza della virtù individuale.

La ricerca di un’armonia conciliativa nei rapporti tra il singolo e la collettività è resa possibile perché si è compiuta un’evoluzione nel concetto dello Stato. Allo Stato magico dei primitivi, si è sostituito lo Stato secondo ragione, che appunto tende ad assicurare a tutti gli associati l’ordine della convivenza politica fondata sulla giustizia contro le insidie disumane del mito, contro le passioni, contro gl’istinti d’insocievolezza e di sopraffazione.

La ragione è il punto d’incontro e la base su cui si edifica la vita del singolo e quells dello Stato. Per questo l’educazione dell’individuo s’identifica addirittura con la sua formazione politica. Non esisteva un problema educativo scisso dal problema politico e da quello morale. Di qui la grande importanza sociale che assume l’educazione nella polis greca dell’epoca classica. La città organizza le feste religiose, le palestre, i giochi, il teatro, per offrire ai giovani ed ai cittadini uno strumento di comunanza, un’occasione di cultura e, soprattutto attraverso l’alta poesia, la sua autorappresentazione ideale. Però, nello stesso tempo, grande era il rispetto per la libertà del singolo, la qual cosa ci permette già di definire l’educazione greca come liberale, sia nel senso generico ch’essa ha lo scopo precipuo di rendere l’uomo capace di usare con piena consapevolezza della propria libertà, e sia nel senso più specifico ch’essa lascia libertà di respiro ai padri e agli educatori nei loro rapporti con i giovani, e non impone agli educandi delle forme fisse che li costringano dall’esterno a seguire vie diverse da quelle a cui sentono spontaneamente e liberamente di potersi avviare.

Appunto per questo apprezzamento dei valori individuali la cultura greca non ha carattere tradizionalistico, è continuamente progressiva e ha creato di fatto un numero prodigioso di capolavori e di valori artistici e umani; di pari passo l’educazione greca non si limita alla monotona ripetizione del passato, ma si rinnova continuamente volgendo lo sguardo all’avvenire. Il progresso nasce dal modo con cui si concepisce lo sviluppo completo della personalità. La formazione dell’uomo in tutte le sue direzioni materiali e spirituali si raggiunge con un perfetto equilibrio delle diverse attività dell’animo tra loro e con un potenziamento proporzionato delle più varie doti spirituali e corporee. Sorge in tal modo la necessità di stimolare nei giovani, accanto alla cultura intellettuale, un adeguato accrescimento delle qualità morali ed estetiche, insieme a una corrispondente attività fisica.

Non si dà cultura né educazione, senza immagine, presente allo spirito, dell’uomo quale deve essere. Essa si manifesta in tutto il modo di essere dell’uomo, nel contegno esteriore come nell’atteggiamento intimo. L’ideale dell’uomo greco si esprimeva potentemente nell’aspirazione alla kalòkagathìa, in cui si vedeva la bontà indissolubilmente legata alla bellezza che esprime al di fuori il sereno ordine interiore dell’animo. L’educazione greca è per questo la ricerca di una perfetta euritmia,«somma fusione di ogni eccellenza» (Werner Jaeger, op. cit., vol. I, p. 44), ornamento supremo dell’areté (virtù). Ma essa si raggiunge solo attraverso un combattimento, nell’interno del singolo e nella società, contro l’indisciplinata e scomposta disarmonia delle forze istintive, e quindi attraverso la formazione di un illuminato e coerente concetto della vita. Come nell’universo il caos si fece cosmo per mezzo del ritmo, e come l’uomo di governo deve tener calcolo di tutti gli elementi che compongono lo Stato, graduandone armonicamente il valore per impostare quell’armonia che è la «giustizia sociale», così chi educa deve sfruttare e far germinare tutte le energie dell’individuo, promuovendole in modo che si integrino a vicenda e si compongano in unità nel centro vitale dell’io ch’è la coscienza.

Perciò quando si parla di educazione improntata all’armonia, non si deve intendere che i greci s’ispirassero e si fondassero unicamente sull’arte. La scuola ellenica aveva nell’arte il suo centro vivificatore, non però nel senso che vi si insegnassero prevalentemente le discipline artistiche, ma nel senso che tutti gli aspetti dell’attività educativa erano rivolti a promuovere lo sviluppo armonico della vita spirituale. E comunque, l’arte era coltivata come mezzo e strumento d’interiore formazione, come metodo per realizzare l’armonia di sé con se stesso. «Sii quale hai imparato a conoscerti» dirà Pindaro (Pitiche, II, 131). Le leggi dell’armonia, a cui si deve obbedire, si rivelano ai più antichi come le leggi d’una ineluttabile ananke (necessità); poi si esprimono nel numero dei pitagorici, che stabiliscono le più perfette consonanze e corrispondenze nelle relazioni tra le cose; e infine sono colte mediante l’attività razionale, divenuta sempre più consapevole e rigorosa nei suoi procedimenti e intimamente orientata a porsi come processo di liberazione dell’intelligenza e della vita. Di qui il culto greco per l’indagine volta ad approfondire il perché di tutte le cose, cioè per la filosofia, considerata il culmine del processo educativo, non insegnata però con il proposito di dare ai giovani un sapere enciclopedico e astratto, ma col desiderio di farli partecipi della suprema razionalità e armonia del tutto.

Il greco mira a foggiarsi una nuova vita, trasfigurando la realtà in un sogno degno di essere vissuto. La via di questa trasformazione che libera l’umanità dal giogo del dolore è appunto quella dell’arte. Poiché la vita empirica sfugge, l’armonia dell’esistenza si spezza a causa del male e del dolore, poiché il tempo corrode ogni ordine di cose, l’uomo con il pensiero e con l’energia di cui dispone riplasmerà la sua vita, non solo fissando le armonie nel ritmo dei versi o nella luminosità dei volti di marmo o nelle forme architettoniche, ma soprattutto perfezionandosi ed educandosi armonicamente, elevandosi dall’animalità a una vera e più degna umanità. L’uomo diventa artista, plasmatore, costruttore e ricreatore di se stesso, allo stesso modo in cui il Demiurgo divino è plasmatore dell’universo. L’uomo si forma secondo il principio dell’autarchia, ch’è un «bastare a se stesso» inteso sia come libertà da costrizioni altrui e sia come capacità di vivere secondo le leggi che l’individuo liberamente dà a se medesimo, riconoscendone l’obiettiva validità, l’intrinseca universalità. In conclusione l’ideale della kalòkagathìa è di ordine essenzialmente etico, perché buono e bello è in primo luogo l’orientamento morale di fronte alla realtà, la vita saggia e il sentire magnanimo che derivano, come ben dice Aristotele (Etica Nicomachea, IV 7, 1124 a, 4), dall’altezza d’animo, dal completo possesso dell’areté, dalla sintesi della virtù che caratterizzano un carattere ed una personalità. La kalògathìa attica è sensibile e chiara coscienza di ciò che è umanamente giusto e opportuno nella padronanza dell’espressione e dell’atteggiamento anche del corpo, è senso di misura che si rivela quale libertà interiore. Nulla in essa è effettuato o forzato. Essa è la vita umana, finalmente all’unisono con se stessa, un ideale di vita che comprende l’uomo intero, corpo e anima, e tutte le sue forze. Il bello, kalόs, dai poemi di Omero alle opere di Platone e di Aristotele, si contrappone a ciò che è utile o meramente piacevole e, dunque, sta a significare prima di tutto l’ideale, l’elemento decisivo del processo di umanizzazione della vita. Certo è normale e naturale che i greci considerassero e onorassero la bellezza e la presenza fisica, l’armonia d’un corpo ben sviluppato soprattutto in virtù dello sport, come il riflesso visibile della personalità intera e del suo valore ideale: ciò è perfettamente valido come aspirazione, punto limite. Ma essi, da Tirteo a Platone, non hanno idolatrato la bella apparenza in quanto tale, né le hanno assegnato una qualsiasi preminenza. Il corpo è sempre il mezzo per esprimere e, ancor più, per realizzare la propria personalità, ma chiunque guasta l’areté con qualche brutta azione – scrive Tirteo – «smentisce la sua nobile apparenza» (fr. 7, 9) e, del pari, Platone nella Repubblica (III, 403 d) proclama: «non il corpo bello col suo fascino, rende l’anima buona, ma l’anima buona con la sua virtù rende ottimo il corpo, nel limite del possibile». E con non minor efficacia Tucidide esprime il senso di equilibrio che ispira la visione della vita dei suoi concittadini: «noi amiamo il bello, ma con misura; amiamo la cultura dello spirito, ma senza mollezze».

  1. La paideia ateniese

In origine non sembra ci sia stata una differenza sensibile tra la cultura e l’educazione delle diverse regioni della Grecia. Ovunque, e dunque anche in Atene, predomina l’ideale civico e guerriero del periodo arcaico, ma a metà del VI secolo l’educazione ad Atene non è più prevalentemente militare malgrado la frequenza delle guerre. La pedagogia ateniese si orienta verso una direzione tutta diversa da quella eretta a sistema dalla rivoluzione reazionaria di Sparta. Ad Atene non si pensa affatto a esigere da un adolescente tredici anni di caserma e il passo di parata. Secondo le testimonianze di Tucidide (I, 6), gli ateniesi furono i primi ad abbandonare l’antico uso di circolare armati e, avendo lasciato l’armatura di ferro, i primi ad adottare un genere di vita più civile. La sola preparazione efficace, benché indiretta, per la guerra è – come spiega Senofonte (Memorabili, III, 12) – la pratica del più democratico e meno costoso degli sport, l’atletismo. Con la pratica dell’atletismo tutto il vecchio ideale omerico del valore, dell’emulazione, dell’azione passava dai cavalieri al demos (popolo). L’opera di Pindaro (521-441 a.C.) è a questo riguardo altamente significativa: le sue odi trionfali celebrano il valore dei campioni della Grecia, come l’aedo omerico celebrava le gesta degli eroi.

La cultura dapprima non muove che da una classe ristretta, l’aristocrazia della nazione. Ma la nuova, vigorosa società borghese, s’impadronisce nella sua ascesa di una siffatta forma di vita e questa diventa, in linea di principio, patrimonio comune e norma generale. Insomma, in stretto rapporto con l’evoluzione politica di Atene, l’educazione si democratizza e, per democratizzarsi, per giungere all’insieme degli uomini liberi, si sviluppa dal punto di vista istituzionale, porta con sé la creazione e lo sviluppo della scuola pubblica, in cui s’impartisce un insegnamento collettivo. Il fatto è di un’importanza decisiva ed è attestato proprio dalla rabbiosa reazione dei poeti aristocratici, Teognide (fr.12, 1-10) e Pindaro (fr.2). Aristofane, celebrando la gloriosa generazione dei combattenti di Maratona, ormai adulta nel 490, ci mostra i ragazzi del popolo, i quali, al sorgere del sole e con qualunque tempo, «vanno dai loro maestri, marcianti in file serrate, anche se nevicasse fitto come farina» (Nubi, 964-965).

Le condizioni più favorevoli per la realizzazione di questo tipo d’educazione si ebbero nell’Atene dell’età di Pericle (V secolo a.C.), che diede il modello a quasi tutte le altre città elleniche. Lo Stato è ormai il grande protagonista dell’educazione, ma l’obbligo civico e morale fatto ai genitori di educare e istruire i figlioli non li vincola a speciali istituti pubblici. La responsabilità dell’attuazione ricade tutta sulla famiglia; le scuole sono libere e private. Lo Stato si limitava a esercitare su di esse un suo diritto di sorveglianza.

A Ippocrate si attribuisce la divisione della vita umana in otto periodi di sette anni ciascuno. Se è vera questa attribuzione, si può dire che i primi tre periodi, che riguardano particolarmente l’età evolutiva, sono essenzialmente così distinti presso gli ateniesi: il primo è quello dell’infanzia e dell’educazione familiare; il secondo, quello della vera e propria paideia, cioè della formazione scolastica; il terzo, quello dell’educazione civile e militare. Infatti, secondo ciò che dice anche Platone nel Protagora (cap. XV), i bimbi erano lasciati alle madri e alle nutrici fin verso i sette anni; poi succedeva il pedagogo, di solito uno schiavo anziano. Sotto la sua guida i fanciulli erano accompagnati alle scuole e frequentavano non due, ma tre maestri: il pedotriba, il citarista e il grammatista, «colui che insegna le lettere», e che un giorno diverrà «il maestro» per eccellenza, il maestro senza altre determinazioni. Il pedotriba era il maestro di educazione fisica, «l’allenatore dei fanciulli», che impartiva il suo insegnamento su un «terreno di sport», la palestra appunto, che è per i fanciulli ciò che per gli adolescenti è il ginnasio. L’uomo non deve fallire nella vita per debolezza fisica: la scuola di ginnastica educa il corpo affinché sia buon servitore di uno spirito valente. La ginnastica per il corpo, la musica per lo spirito. Il ritmo e l’armonia sono le forze formatrici dell’animo.

La musica era specificamente insegnata del citarista, non tanto dal punto di vista tecnico e con una mira esclusivamente estetica, quanto con la convinzione che essa avesse un’influenza benefica sui costumi8. I citaristi, dice sempre Platone nel Protagora, adoperano i ritmi e le armonie per formare gli animi dei fanciulli, «affinché divengano più placabili e, divenuti più euritmici e armoniosi, dicano e facciano meglio, poiché tutta la vita dell’uomo ha bisogno di euritmia e di armonia». Occorre non dimenticare che l’insegnamento dottrinale e la poesia si servono del canto e che la canzone è il genere letterario fondamentale, intorno a cui si raggruppano le altre manifestazioni artistiche (danze, lira o aulos – antico strumento a fiato greco -, intermezzi di musica strumentale). Quindi educazione musicale significa, in senso lato, iniziazione al regno delle Muse.

Dal grammatista il fanciullo imparava a leggere, a scrivere, a far di conto. L’uso della scrittura è comunemente utilizzato nella vita quotidiana e, quindi, il suo insegnamento si è diffuso per tempo. Quando nel 480 a.C.,alla vigilia di Salamina, gli abitanti di Trezene ricevettero le donne e i bambini evacuati da Atene, assunsero, a spese della loro città, dei maestri di scuola che insegnassero loro a leggere (Plutarco, Temistocle, 10). Il fanciullo, superata la fase di alfabetizzazione strumentale, imparava una scelta di poesie liriche e gnomiche, cominciava a conoscere scene ed episodi dei poemi omerici e alcune delle elegie moralizzanti di Solone (arconte nel 594-593), l’espressione più tipica del civismo ateniese, così diverso da quello spartano. I suoi versi s’inculcavano ai giovinetti sin dalla prima età e sempre s’invocano dagli oratori in tribunale e nelle assemblee popolari. La solidarietà, la responsabilità reciproca, i pericoli della discordia interna e della passione partigiana, il dovere sempre rinascente di attuare la giustizia sociale: questi i temi della poesia di Solone. Non è più l’eroismo guerriero a cui si fa appello, ma una nuova, più difficile forma di eroismo, quello quotidiano, esigito da una comunità che vuol fondarsi sull’armonia, sempre preziosa e sempre difficile, della giustizia e della libertà, della forza coesiva dello Stato e dell’iniziativa dei singoli. «La cosa più difficile fra tutte è cogliere l’invisibile misura della saggezza, che sola reca in sé i limiti di tutte le cose»: queste parole di Solone (fr.16) ci danno, come meglio non si potrebbe, la giusta misura della sua grandezza e della sua efficacia educativa.

Verso i sedici anni i giovani entravano nei ginnasi. In origine consisteva in un edificio con un grande cortile e con bagni e aveva carattere prevalentemente atletico, igienico e premilitare. Subì col tempo una complessa evoluzione. Conservò la funzione di circolo giovanile sportivo, ma divenne anche centro di studio e di conferenze, con apposite sale e biblioteche, luogo d’incontro e di discussione, con la partecipazione anche degli adulti. «Chiunque in Atene aveva qualcosa da dire o da domandare che fosse d’interesse generale e che non fosse affare da assemblea o di tribunale, andava al ginnasio, in cerca di amici e di conoscenti» (Werner Jaeger, Paideia, La Nuova Italia, Firenze1959, vol. II, p. 53). Ed è noto che, accanto al maestro e al medico, Socrate divenne per così dire il terzo personaggio nei ginnasi ateniesi, l’ambiente preferito delle sue conversazioni. I ginnasi, quindi, ebbero una grande importanza nella vita intellettuale e nella paideia della Grecia attica.

Diciottenne, l’efebo diveniva un vero cittadino, giurando fedeltà allo Stato e prestando per due anni un servizio militare. Ma l’educazione non cessava. La città continuava a educarlo nelle riunioni politiche, amministrative e giuridiche, nei giochi, con lo splendore delle arti figurative e architettoniche, e soprattutto con la magnificenza delle rappresentazioni drammatiche. Poiché il teatro, in Atene e nella Grecia tutta, non era fatto soltanto per i privilegiati: era la scuola di tutta la cittadinanza. Le tragedie erano il più degno coronamento delle feste, che assumevano spesso, con i cori e la musica, un aspetto di più austera e maestosa solennità. Ma anche le commedie, col ridicolo e con la satira, cooperavano alla formazione del carattere ellenico. In un popolo arguto e intellettuale come quello dell’Attica è facile immaginare quale fosse l’efficacia educativa di Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane.

L’educazione ateniese, attuata nella scuola e dalla città, ha due scopi precisi: lo sviluppo del cittadino che ama la sua patria e insieme la formazione dell’uomo come persona, che ha acquistato una piena armonia e padronanza delle proprie attività. Non c’è nulla, in essa, che riguardi la preparazione tecnica e professionale dell’educando o anche solo una cultura specializzata volta a fini utilitari. Gli artigiani e i commercianti imparavano il loro mestiere essenzialmente fuori di scuola. Ma in essa gli ateniesi divenivano uomini nel più vasto senso della parola, con la più ampia varietà d’interessi culturali, con il più ampio sviluppo del loro senso nativo della bellezza, con la celebrazione costante di quell’ideale d’armonia e di grazia ch’era la loro caratteristica. Così intesero se stessi i greci all’apice del loro sviluppo. Tuttavia questo tipo di educazione non era esente da difetti. Il primo è quello d’essere un’educazione aristocratica, adatta per i «giovani di buona famiglia», come rivela Platone (Protagora, 326 c), i soli che potranno seguirla fino in fondo, avendo i mezzi di sopportare i sacrifici che essa comporta, ed essendo in miglior posizione per apprezzarne i vantaggi.

Certo, la tradizione greca di una scuola disinteressata affermava l’elevatezza della missione educativa, volta a creare capacità e attitudini alla vita veramente degna dell’uomo libero, piuttosto che dispensatrice volgare d’un qualsiasi viatico per l’esercizio di particolari professioni, e dall’altro, specialmente con Socrate, ribadiva il concetto nobilissimo della non commerciabilità del sapere. Ma rimaneva il fatto che l’educazione greca ignorava la gran massa del popolo, era distante dalla vita degli uomini più umili e dal mondo del lavoro. Esiodo, il maestro cantore della vita nobilitata da una dura e onesta fatica, era un’eccezione e così pure Socrate, il filosofo che faceva lo scultore. E per questo mancava in genere ai greci, l’aspirazione e lo stimolo di infondere nell’attività economica e nel lavoro una funzione educativa e morale9.

Questi rilievi critici ci sembrano fondati e tuttavia hanno bisogno di essere accompagnati da qualche precisazione per essere intesi correttamente. Innanzi tutto si deve rilevare che c’è sempre, in qualsiasi società, una sfasatura cronologica, inevitabile, fra cultura ed educazione, fra cultura e istituzioni educative. Questa sfasatura esiste anche in Grecia; ma la Grecia ionica, civiltà veramente dinamica, ne ebbe coscienza e cercò di correre ai ripari con un poderoso sforzo di diffusione della scuola pubblica di ogni livello, fatto di cui conviene sottolineare l’importanza. Lo sdegno e la violenta irritazione di quegli aristocratici chiusi alla comprensione di un fenomeno così rilevante ci attestano che questo esisteva e aveva una feconda incidenza. Infatti l’istruzione strumentale, la formazione di base, è sufficientemente diffusa nella massa dei cittadini, per lo meno sin dall’istituzione dell’ostracismo con la procedura del voto per iscritto (riforma di Clistene 508-507), e l’irruzione dei «non ben nati» ai gradi superiori della cultura, una volta privilegio degli eupatridi – cioè a chi apparteneva alla classe nobiliare e poteva accedere alle cariche politiche – accompagna costantemente l’ascesa della democrazia politica ateniese. Questo fenomeno ha un profondo significato se ricondotto alla sua matrice culturale.

Infatti i caratteri di universalità e di razionalità che sin dal principio caratterizzano la cultura greca, la «predisponevano» a svilupparsi, al di là degli originari, angusti, odiosi limiti di classe, nella cultura della polis, dell’Ellade e, finalmente, della civiltà umana in quanto tale. Nella difficile, progressiva, contrastata fedeltà alla propria intima e più nobile tendenza, la cultura greca, che si credette a lungo «privilegio dovuto alla nobile nascita», fu poi più coerentemente concepita come «inerente alla natura dell’uomo come essere ragionevole», come sua possibilità, suo bisogno e suo compito. La conseguenza fu che l’educazione dell’uomo alla sua vera forma, alla vera umanità fu vista per la prima volta come grande postulato della democrazia. E tale è in realtà se è vero che la democrazia, quella periclea e quella di tutti tempi, deve governare senza bisogno di coazioni esteriori, o riducendole al minimo, senza irreggimentazione dittatoriale o collettivistica, ma solo col rendere tutti partecipi dell’autorità e consapevoli della responsabilità, rispettando al massimo grado la libertà di ciascuno nelle proprie faccende private e, nel contempo, infondendo in tutti un gagliardo senso del bene comune e delle sue esigenze. Anche sotto questo aspetto, in politica non meno che nell’arte e nella filosofia, Atene ci ha offerto un’esperienza e un paradigma che ha un significato universale anche se riguardano così da vicino la formazione dell’uomo greco.

Un altro difetto, e non meno grave, della concezione educativa greca è lo scarso ufficio riconosciuto al senso religioso della vita. Torna qui il problema già posto per Omero. Ciò che limita l’efficacia formativa della paideia greca è il vuoto del politeismo olimpico, che si trascina dietro stancamente il suo rozzo antropomorfismo. L’uno e l’altro sono denunciati più volte e, soprattutto, di continuo, abilmente emarginati e superati da tanti filosofi, da Eraclito ad Aristotele, da artisti della levatura e profondità di Eschilo, Sofocle, Euripide – che portarono sulle scene il movimento degli spiriti, i loro dubbi e le loro speranze – e anche da coloro che, ed è il caso di Aristofane, appartengono al vecchio mondo, ma sono essi stessi destinati a distruggerlo. La tragica morte di Socrate, la cui vita volle essere «un servizio prestato a Dio nella più grande povertà», com’è detto nell’Apologia, pone l’anima greca e la filosofia sul sentiero di Dio10. Nell’atto di condurre la Grecia, e con la Grecia l’umanità, alla «età della ragione» (André-Jean Festugière, Socrate, Morcelliana, Brescia 1936, p. 186), dopo la theologia fabulosa di Omero e di Esiodo, Socrate inaugura il cammino razionale che conduce al Dio della trascendenza e della vita interiore. L’uomo e la vita umana sono al primo posto nel pensiero di Socrate, e in questo senso esso è antropocentrico; ma Dio è al centro di questo mondo umano. Il rapporto dell’uomo con il trascendente si fonda sull’esperienza intrinseca dell’anima e delle sue facoltà, soprattutto sulla ragione, l’aureo vincolo che unisce il filosofo a Dio. Anche qui, come nel campo della scienza morale e della logica, Socrate non è che l’iniziatore, ma quale mirabile iniziatore!

NOTE

  1. La natura umana non è qualcosa di assolutamente immutabile ed esistente al di sopra del tempo (come una «idea» platonica separata o come «la cosa in sé» kantiana). Essa ha suoi caratteri specificamente umani, che costituiscono le strutture proprie di un essere contingente, diveniente, che si evolve, si trasforma, progredisce o regredisce, si attua o si perverte nel tempo, nella storia all’interno dei suoi limiti specifici. La contrapposizione polemica, così ricorrente nel clima culturale del secondo dopoguerra in Italia, fra coloro che erano additati come «essenzialisti» e gli «storicisti» della più diversa estrazione (hegeliani-marxisti-esistenzialisti, ma tutti accomunati nel presupposto di un’essenza umana situazionale, storica, non ontologica), fa venire in mente quella tra gli «immobili» e i «fluenti», parmenidei gli uni, eraclitei gli altri, su cui Platone ironizza nel Teeteto.Il problema, evidentemente inevitabile per ogni concezione filosofica, ritorna con particolare insistenza nelle opere degli illuministi. Bernard de Fontenelle, a esempio, è persuaso che i secoli non creano nessuna differenza naturale fra gli uomini: le differenze che vengono a stabilirsi devono essere causate da circostanze esteriori (Digression sur les anciens et les modernes, in Oeuvres, III, Amsterdam 1754, p. 118). Questo postulato della comunanza fondamentale di natura tra coloro che in qualsiasi tempo sono nati da uomini è condiviso anche da David Hume, il quale nota acutamente che senza di esso sarebbe impossibile raccogliere qualunque osservazione generale sull’umanità (Ricerche sull’intelletto umano e sui principi della morale, Laterza, Bari 1957, pp. 94-9). In queste tesi è troppo facile ed elusivo vedere un documento dell’antistoricismo illuministico. Il ragionamento è, invece, irrefutabile: se la natura dell’uomo cambiasse radicalmente nel corso delle storia umana, non avremmo più la storia dell’uomo, ma tante storie separate di specie diverse. Sarebbe irrimediabilmente compromessa l’unità e l’intelligibilità della vicenda umana sotto ogni aspetto. «È interessante rilevare – scrive Nicola Petruzzellis ne I valori dello spirito e la coscienza storica, Libreria scientifica editrice, 3 ed., Napoli 1965, p. 226-227, che Hume, il cui pensiero è così pervaso di nominalismo, si sia tuttavia accorto di una verità così semplice. La quale è ben lungi dal rendere impossibile il divenire e la storia, in quanto intervengono come fattori del divenire le cause enumerate da Bernard de Fontenelle. Si può certamente discutere intorno a queste cause, ai modi e alle forme della loro azione, si può anche fare delle riserve sulla loro definizione di circonstances étrangères (circostanze estranee) perché i tempi, l’organizzazione sociale e politica sono cose umane, fatte dagli uomini, anche se poi contribuiscono a fare gli uomini. Ma resta dunque accertato che dove tutto cambia radicalmente non c’è che il caos».
  2. L’insieme di tutte le idee, conoscenze, modi di comportamento, capacità e attrezzature comuni ai membri di un gruppo umano è detto «cultura» in senso sociologico. Descrivere e comparare le singole culture è il compito essenziale dell’etnologia. Gli elementi particolari di una civiltà non esistono né si propagano isolatamente, ma si strutturano in un complesso culturale o ciclo, più o meno ricco secondo il livello raggiunto, ma abbracciante sempre, in una unità organica, tutti i bisogni essenziali, materiali e spirituali, della natura umana. La «cultura» costituisce un’unità funzionale in cui la tecnologia, la religione, l’arte, l’organizzazione sociale, il gioco, sono in stretta connessione reciproca, sì che i mutamenti che avvengono in un settore coinvolgono gradualmente gli altri. Analogia e differenze tra i diversi tipi culturali non hanno nulla a che fare con le cosiddette caratteristiche di razza. È ormai provato che i rappresentanti di razze completamente diverse possono venire assorbiti da una stessa cultura; e viceversa che i rappresentanti di culture completamente diverse possono appartenere alla stessa razza. Per un primo orientamento cfr. la voce Etnologia di Emilio Willems nel volume Sociologia, Enciclopedia Fischer-Feltrinelli, Milano 1964, pp.126-133 ed ethnologica di Vinigi Lorenzo Grottanelli, Labor, Milano 1965.In questi ultimi anni le ricerche si sono intensificate e i contributi sono assai numerosi. Di particolare risalto quelli Franz Boas, Ruth Benedict, Vere Gordon Childe, Leslie Alvin White, Claude Levi-Strauss sui problemi più generali e le questioni metodologiche. Ai fatti religiosi è dato particolare risalto nelle opere di Ernesto De Martino, Mircea Eliade, Adolf Ellegard Jensen. In questo campo giganteggia la monumentale Der Ursprung der Gottesidee in 12 volumi di Wilhelm Schmidt, Münster – Vienna 1912-1955.
  3. L’alto concetto che si ha dell’arte dello scriba trova un’espressione simbolica nell’idea che la scrittura è una cosa sacra, d’ispirazione divina, posta sotto il patrocinio di un dio (Thoth, a esempio, in Egitto). La «satira dei mestieri» di Aktoy e la «satira del coltivatore» di Amenemope sono stati tradotti da Adolf Erman, Die literatur der Aegypter, Lipsia1923, pp. 100-105 e pp. 246-247. René Labat segnalò a Henri-Irénée Marrou un testo cuneiforme in cui lo stesso Assurbanipal si gloria della sua abilità di scriba come delle sue conquiste. Egli pretende su questo punto di sorpassare tutti i re suoi predecessori. A sentirlo avrebbe scritto lui stesso i testi della sua biblioteca. Si fece rappresentare nei bassorilievi con uno stilo infilato nella cintura (Henri-Irénée Marrou, Storia dell’educazione antica, Studium, Roma 1950, p. 466).
  4. Uno degli sviluppi dello scintoismo è costituito dal mikadoismo o «via dell’imperatore», per il quale l’imperatore fu considerato divinità. La rivoluzione del 1868, che diede all’imperatore i pieni diritti esercitati per secoli praticamente dagli shōgun, feudatari della corona, diede slancio al mikadoismo.Il comportamento dei soldati giapponesi nelle varie guerre del Novecento attesta il seguito ottenuto, in un paese che è pure all’avanguardia del progresso tecnologico, dalla mistificante simbiosi di tradizionalismo e imperialismo. L’imperatore rinunciò esplicitamente al suo rango… divino solo col rescritto del 1° gennaio 1946. Alcuni mesi prima, il 6 e l’8 agosto del 1945, vi erano stati i due tragici bombardamenti atomici e il 1° settembre la resa incondizionata del Giappone agli Stati Uniti.
  5. Lo storico pronuncerà il nome di Omero con precauzione. L’analisi filologica documenta ormai ad abundantiam il carattere composito e complesso dell’Iliade e dell’Odissea, l’elaborata lingua poetica, l’opera unificatrice di un poeta che ha curato le inserzioni e i raccordi indispensabili alla continuità del carme. L’autore-redattore dell’Iliade e dell’Odissea gode e rivive le scene e le immagini create dai suoi predecessori in una molteplicità di cicli poetici che egli si sforza di connettere insieme con mano maestra, nella meravigliosa armonia della sua architettura, sapientemente distribuendo luci e ombre. Forse questo fu il compito e il merito di Omero personaggio realmente vissuto: eccellente architetto e mediocre versificatore che rabbercia carmi non suoi. Dopo le orge congetturali dell’erudizione tedesca, oggi si è inclini ad ammettere che il testo di cui noi disponiamo – quello che Ipparco, alla fine del dominio di Pisistrato, suo padre, nel 528-527, avrebbe portato dalla Ionia ad Atene, ove fu ufficialmente adottato per il concorso dei rapsodi delle Panatenee (Platone, Ipparco 228 b), esisteva fin dal VII –VIII secolo e che non sia lontana dal vero la data ipotizzata da Erodoto, che fa vivere Omero «quattrocento anni prima di me, non di più», cioè verso l’850. Sulla vexata quaestio si è scritto fino alla sazietà. Qui basti ricordare le nutrite pagine di Gaetano De Sanctis (Storia dei greci dalle origini alla fine del secolo V, La Nuova Italia, Firenze 1942-1943, vol. I, pp. 183-273), il volume di Paul Mazon, Introduction à l’Iliade, Parigi 1942, e le suggestive osservazioni di Werner Jaeger, Paideia, della 2a ed. tedesca (1936) con gli aggiornamenti della 2a ed. americana (1945), Firenze 1959, vol. I, pp. 25-119. Tra le opere italiane: Benedetto Marzullo, Il problema omerico, La Nuova Italia, Firenze 1952 e Luigia Achillea Stella, Il poema di Ulisse, La Nuova Italia, Firenze 1955.
  6. Questa è la ragione di non pochi anacronismi e di incoerenze rivelatrici. Eccone qualche esempio: l’Iliade nel XIX libro (404 -423) evoca le danze della gioventù di Cnosso e le acrobazie nel teatro di Dedalo effettivamente distrutto dopo la catastrofe del 1400. Nell’Iliade ai caduti viene data regolare sepoltura, mentre il proemio parla di salme abbandonate in pasto ai cani e agli uccelli, perché questa era la sorte che un’età più rozza serbava al cadavere del nemico. E del pari nel racconto dei funerali di Patroclo il poeta sorvola, non senza peraltro un cenno d’orrore, sui dodici prigionieri troiani scannati da Achille, pur non omettendone la menzione che aveva trovata nel carme più rozzo e più antico da lui usato come fonte e che non si sentiva di sopprimere. Ma era uso barbaro su cui egli e il suo pubblico non voleva più soffermarsi.
  7. In pratica e la teoria di un’educazione improntata al culto idolatrico dello Stato, del capo, della nazione, della razza o della classe, impegnata a limitare il valore della personalità umana nell’ambito del servizio esclusivo della società, ha continuato ed esercitare, anche in tempi posteriori, un fascino funesto per il suo contenuto pseudo-mistico, irrazionale, fanatico. Come possiamo rintracciare evidentemente nelle civiltà più antiche i germi di un’educazione personale, morale e sociale più evoluta che si apre il passo, nonostante l’inerzia del conservatorismo, per la naturale tendenza espansiva dello spirito umano, così non è difficile accorgersi che il tipo dell’educazione totalitaria non cessa con l’avanzare di più progredite concezioni di vita.Persino ai nostri giorni abbiamo assistito e assistiamo al riprodursi di quella mentalità. L’assolutizzazione del capo, della nazione, della razza, della classe caratterizza tanta parte della vita del mondo nel secolo XX prima e dopo la guerra 1939-45 combattuta appunto in nome della liberazione dell’umanità dalla peste del totalitarismo. Di fronte all’autorità dell’assoluto politico l’uomo singolo non può più scegliere o discutere, proprio come nel totemismo più antico: e proprio come nella logica dei primitivi, i popoli oggi s’affidano talvolta al superuomo, come al medico di tutti i mali sociali, la demiurgo capace di curare ogni piaga e di sconfiggere ogni nemico. I nuovi riti e i nuovi dogmi sono stabiliti e decretati inappellabilmente dal capo: egli «ha sempre ragione» poiché è l’unico giudice, l’unico maestro, l’unico sacerdote, l’unico dio. L’educazione perciò non è concepita che come il mezzo con cui formare uomini disposti alla più intransigente dedizione al capo o al partito che incarna definitivamente le aspirazioni, la volontà e gli interessi del popolo e della classe. L’istruzione impartita nelle scuole, dalle elementari all’università, attuata sfruttando le più moderne risorse della tecnica, non ha altro scopo che quello di propagandare le idee del capo, o del partito, della classe egemonica e di farne raggiungere a tutti un’accettazione sempre più convinta. E l’accompagna tutto un apparato di cerimonie simboliche, civili o militari, meticolosamente predisposto per conferire alle dottrine, alle asserzioni e ai gesti degli uomini leaders un carattere dogmatico, un’atmosfera solenne e pseudo-mistica, capace di influire più profondamente sull’animo dei giovani ancora inesperti e sulla psiche della massa sprovveduta di ogni possibilità di informazioni che non sia quella a senso unico.
  8. È stato giustamente osservato che noi conosciamo i greci come architetti e scultori, poeti, filosofi e matematici, ma non pensiamo mai alla loro musica. E tuttavia essi erano e volevano essere prima di tutto dei musicisti. È un errore di prospettiva, ma non è agevole correggerlo.
  9. Aristofane rideva di tutto e di tutti. Il suo conservatorismo non gli impediva di raffigurare con insuperata spregiudicatezza e malizia le avventure eroicomiche della mitologia ufficiale. I sofisti, Socrate, Euripide, che Aristofane accusa di scarso rispetto verso gli dei, non si erano mai sognati di giungere a tal punto di audacia. Nell’Apologia (18 b) Socrate ricorda che proprio Aristofane nelle Nubi lo ha calunniato per primo e nel modo più pericoloso, accreditando con la satira dicerie da cui è praticamente impossibile difendersi. Aristofane fu uno dei responsabili del tragico destino di Socrate.
  10. Sulle orme di Socrate, Platone e Aristotele ristabilirono la certezza di Dio come principio supremo del reale. Dio, Theos, fu così la più alta conquista del pensiero razionale, del logos. Il risultato di questo sforzo dell’intelletto fu detto theologia. Colui che inventò questa parola e che fece di questo nuovo concetto il centro di tutto il pensiero filosofico fu Platone (Repubblica, II, 379 a). Aristotele chiamò «teologia» la sua filosofia prima (Metafisica, VI, I, 1026 a 19). Dal punto di vista storico, fu proprio la filosofia la più grande creazione dello spirito greco in campo religioso. Essa è sopravvissuta alla religione popolare dei greci e in questa sua forma il genio greco durerà probabilmente quanto l’umana cultura. Penetrare la natura di questa evoluzione dello spirito filosofico greco è un’esperienza illuminante. Poiché il ritorno dello spirito umano alla sua fonte e la nuova sintesi di tutti gli elementi che si erano affrancati dalla loro unità originaria durante le fasi primitive del processo, sembrano indicare una legge strutturale dello spirito che esige Dio al centro dell’universo, del cosmo come dell’anima. Le insufficienze, rispetto alla rivelazione ebraico-cristiana, della scienza del Principio supremo fondata da Platone e Aristotele, ciascuno con un proprio metodo e su un suo proprio sfondo sistematico, sono state poste in luce con rigore implacabile da Étienne Gilson ne Lo spirito della filosofia medievale (17a ediz. francese 1932, Morcelliana, Brescia 1947).Tuttavia non si può trascurare il fatto di grande rilievo storico che, a partire da Giustino, i pensatori cristiani opposero alla teologia mitica e politica della tradizione la teologia naturale dei filosofi pre-cristiani e l’accettarono come provvidenziale sussidio nella lotta contro il paganesimo. In tal senso, non si considererà mai abbastanza l’importanza vitale della filosofia come della più grande forza intellettuale che preparò il mondo al cristianesimo durante l’impero romano. All’inizio di questo processo c’è l’infaticabile ricerca, il duro lavoro, la sapienza e la morte di Socrate

Nota finale. I materiali riportati provengono dalle bozze di una storia del pensiero pedagogico battuta a macchina e divisa in capitoletti, che si interrompe al capitolo X: «Il realismo pedagogico dell’età moderna». I testi sono stati scritti dal prof. Matteo Perrini in data non precisata, probabilmente negli anni Ottanta del Novecento. Il capitolo qui riportato è il primo. Il curatore Filippo Perrini è intervenuto in minima parte, modificando frasi con terminologie desuete e verificando, per quanto possibile, le citazioni. Un ringraziamento va al prof. Gian Enrico Manzoni che ha rivisto la traduzione di alcune citazioni in latino.