Da Alessandro a Giustiniano: il millennio della paideia ellenistico-romana

INDICE CAPITOLO IV

  1. Il gigantesco trapianto di culture diverse tra genti diverse
  2. Il messaggio di Plotino
  3. Luci e ombre della prassi scolastica
  1. Il gigantesco trapianto di culture diverse tra genti diverse

Con la morte di Alessandro (323 a.C.) e di Aristotele (322 a.C.) si conclude il ciclo più glorioso della storia e della civiltà ellenica classica. Si inizia una nuova storia e una nuova civiltà, quella ellenistica, com’è designata, dopo gli studi di Johann Gustav Droysen (1808-1884). Con Alessandro la frontiera dell’ellenismo fa un balzo di quattromila chilometri verso est, dalle coste dell’Egeo all’Indo.

La morte prematura del conquistatore mostra però la precarietà della pur grandiosa costruzione. L’Occidente greco, isolato dalla madre patria, è conquistato da Roma (Taranto è occupata nel 272 a.C. e la Sicilia nel 241 a.C.). La Grecia continentale, prima egemonizzata dalla Macedonia, entra nell’orbita di Roma, fino a diventare come una provincia tra le altre.

Il nobile sogno del console Tito Quinzio Flaminio di una Grecia libera, «senza guarnigioni e senza tributi», come egli volle proclamarla durante la celebrazione dei giochi istimici nell’estate del 196 a.C., prevenendo le mire egemoniche del Senato, tramontava definitivamente nel 146 a.C., lo stesso anno della distruzione di Cartagine.

Gli Stati successori che si formano alla morte di Alessandro (la monarchia macedone degli Antigònidi, l’impero siriaco dei Selèucidi, l’Egitto dei Tolomei e, verso la metà del III secolo, il regno di Pergamo degli Attàlidi) sono agitati dall’antagonistica spinta egemonica della Siria e della Macedonia.

Roma teme l’affermarsi di un potente Stato antiromano e fa da perno a ogni schieramento difensivo dei piccoli Stati ellenici contro l’espansionismo dei due maggiori regni, sino a inglobare nel suo dominio tutto il mondo ellenistico che si affaccia al Mediterraneo. Sì che l’ellenismo si intende più correttamente quando l’incontro della paideia greca con le suggestioni e le tradizioni dell’Oriente è considerato il suo momento costitutivo, ma non esclusivo.

Infatti l’ellenismo sarà la forma interiore dello stesso mondo romano a partire all’incirca dalla metà del III secolo a.C., ma sarà altresì, in concreto e per molti secoli, a sua volta compenetrato dall’ordo, dal moderamen ordinis, dallo jus, dall’imperium di Roma.

In un discorso sull’ellenismo ai due termini originari, Grecia e Oriente, legittimamente si uniscono un terzo, Roma, e un quarto, Bisanzio, perché è perfettamente vero che il destino della cultura classica si prolunga attraverso la storia bizantina, durante tutta l’età romana e anche oltre. Dovendo pertanto assegnare un termine a quo e un termine a quem all’ellenismo anche l’adozione del criterio più restrittivo – che suggerisce come inizio la morte di Alessandro e di Aristotele (323 e 322 a.C.) e come conclusione l’età di Giustiniano (527-565 d. C.), in cui si afferma in modo netto e irreversibile la civiltà bizantina, con caratteri autonomi che la differenziano da quelle precedenti e che danno vita a un nuovo tipo di civiltà – ci obbliga a sottolineare la lunga durata, quasi un millennio, di una realtà storica e culturale tanto complessa.

«È una coincidenza assai notevole – scrive Hans Schubert – che proprio in quell’anno 529, in cui in Oriente l’imperioso decreto di Giustiniano chiudeva per sempre la scuola filosofica di Atene, la tradizione collochi la fondazione di Montecassino, del monastero modello di quei benedettini che dovevano poi diventare i rappresentanti specifici della cultura monastica» (Istruzione ed educazione alle origini del cristianesimo, La Nuova Italia, Venezia 1929, p. 45).

L’ellenismo ebbe le «capitali» della cultura in Atene1 e in Alessandria2; ma furono importantissimi centri di ricerche e d’irradiazione culturale anche Antiochia, Pergamo3, in Asia Minore, la cui celebre biblioteca giunse a contare duecentomila volumi, e Rodi4, a partire dal secolo II a.C.

Nel secondo periodo detto ellenistico-romano, oltre Roma, divennero celebri Smirne durante l’età d’oro dell’impero elettivo (96-180 d.C.) da Nerva a Marc’Aurelio, e più tardi, Costantinopoli, la «Nuova Roma, figlia maggiore e diletta dell’antica» elevata dal 330 a capitale dell’impero, e Berito (Beirut) per il diritto romano. La cultura ellenistica mostrò nel suo primo periodo (da Alessandro ad Augusto) un’autentica forza creativa. La ricerca scientifica (la patria elettiva degli scienziati è Alessandria) fu straordinariamente intensa e feconda di risultati; in filosofia si ebbe l’approfondimento filosofico del tema basilare della libertà spirituale dell’uomo (stoicismo, epicureismo, scetticismo ed eclettismo sono dominati e tormentati dal problema morale). La storiografia ebbe Polibio (205-124 a.C.); gli studi di grammatica morfologica e la filologia furono strutturati scientificamente da Didimo di Alessandria (65 a.C.-10 d.C.) e precedentemente dalla scuola di Pergamo, il cui corifeo fu Cratele di Mallo, vissuto nella prima metà del secolo II a.C. La poesia tornò a far sentire la sua voce in tutto il mondo greco con Callimaco (310-240 a.C.) e Teocrito (310-260 a.C.).

È scomparsa per sempre la città-stato, la polis; la storia non la fa più l’assemblea popolare, ma la volontà del monarca; le formazioni politiche non sono «patria», terra dei padri, né per i sudditi, né per le teste coronate; il combattente non è più il cittadino, ma il soldato di ventura e il mercenario. Coloro che erano cittadini si sentono ora oggetto e non soggetto di una storia dominata dalla Fortuna. In questo quadro politico il saggio stoico aspirerà tutt’al più a farsi consigliere del monarca e il saggio epicureo accoglierà l’appello del maestro a fuggire la vita politica. Tra il latenter vivere di questi e il conclamato cosmopolitismo di quegli c’è nondimeno una superficiale affinità nel positivo e nel negativo: il disinteresse per la piccola patria, la cui gente ci è più prossima, aveva un vantaggio, quello di indebolire i pregiudizi legati alle istituzioni, come a esempio il pregiudizio contro gli schiavi e contro gli stranieri. Socrate, il più ateniese dei greci ed insieme l’uomo più universalmente umano di tutto il mondo greco, aveva realizzato un equilibrio dialettico, unico, tra l’amor patrio e la coscienza di un legame profondo con tutti gli altri uomini, in virtù della comune razionalità, per cui ogni uomo può farsi soggetto di un ordine conoscitivo e morale di valore universale e oggettivo. Quella visione ardita, luminosa e anticipatrice non ebbe un coerente sviluppo né in Platone, né da parte dei socratici minori, talora persino triviali nello sterile coraggio delle posizioni estreme di rifiuto globale della società. Ma ora, nel crollo di una determinata forma di vita sociale, che per molti greci era stata addirittura la categoria, la norma superiore del pensiero e della vita, emerge, diventa più che mai attuale l’appello socratico alla interiorità.

Liberata dal condizionamento collettivo della polis, la persona riscopre e approfondisce il senso della sua appartenenza a se stessa, la grandezza dell’autonomia morale. Per il filosofo ellenistico l’uomo ha lo scopo di raggiungere la forma più ricca e più perfetta di personalità. Si deve discutere se tali esigenze furono soddisfatte o non piuttosto impoverite e persino contraddette nei sistemi filosofici che pure le affermano5, ma non si può negarne la validità e la fondatezza. Ogni uomo è chiamato a «prendersi cura della propria anima» e, come il coroplasta, a scolpire la sua propria statua per «vivere serenamente e bene» (Etica Eudemia, I, 1, 1214 a, 31), secondo un’efficace espressione aristotelica molto vicina alla sensibilità dei moralisti ellenistici.

In questa visione l’isolamento del filosofo può nascere anche dalla coscienza dei veri valori della vita, dalla sentita necessità di mirare più in alto dell’azione politica, peraltro resa impossibile in una società disorganica e fittizia in cui il potere è accentrato nelle mani del monarca assoluto. Secondo il modello orientale i sovrani ellenici esigevano per sé il culto divino (culto che Alessandro aveva imposto, suscitando ripugnanza presso i greci, così come ogni imperatore romano che si proclamerà «Dominus et Deus» susciterà l’universale orrore degli ebrei e dei cristiani). Con il gigantesco trapianto di cultura operato tra genti tanto diverse – che pure si ritrovano a far parte di una stessa area di civiltà, a parlare una stessa lingua e a studiare gli stessi classici – l’ellenismo attestava i caratteri di universalità e di umanità della cultura greca, la sua forza antropoplastica.

Storicamente il risultato più solido fu l’ellenizzazione dell’Oriente mediterraneo, che entrerà a far parte integrante dell’impero bizantino sino alla fine, greco di cultura e di lingua. Ma dal punto di vista della civiltà umana, nel senso più alto della parola, l’evento veramente decisivo fu l’incontro tra il mondo giudaico e la cultura greca, che avviene in Alessandria nel secolo III. Secondo la Lettera a Filocrate di Aristeas vissuto intorno al 200, Tolomeo, su consiglio del peripatetico Demetrio Falereo (morto nel 283 ca. a.C.), affidò a un nutrito gruppo di dotti ebrei la traduzione in greco – detta appunto dei Settanta – della Bibbia. Per effetto di questa traduzione, compiuta non in breve tempo, ma tra il III e il II secolo e, com’è più probabile, per gli usi della numerosa colonia giudaica in Alessandria, la religione e la cultura ebraica assumevano come propria lingua il greco. Il naturale clima linguistico degli scrittori del Nuovo Testamento – tra il 50 e il 100 circa dell’era cristiana – è la versione greca dei Settanta dei libri sacri dell’Antico Testamento, di lettura comune nelle comunità cristiane del mondo ellenistico.

Ai primi testimoni del Cristo una sola lingua si presentava naturalmente e necessariamente per comunicare agli uomini il nuovo messaggio: quel greco che era da tempo la lingua comune di tutto l’Oriente ellenizzato6. Molto probabilmente il primo a compiere questo passo, che fu decisivo per l’avvenire del cristianesimo, fu Paolo di Tarso. Il greco rimase, fin verso l’anno 180, la sola lingua del cristianesimo primitivo e così la lingua che era stata di Omero, di Eschilo e di Platone sarà ancora fondamentalmente la lingua degli apostoli del Cristo, degli apologisti e dei grandi teologi, cioè della letteratura cristiana. «E non fu solo – ha scritto un illustre grecista – una contingenza storico-culturale a far sì che il cristianesimo si diffondesse per mezzo della lingua greca: basti pensare che soltanto in tal modo esso poté giungere in Occidente e farsi universale – in tutti i modi e con tutte le conseguenze – in Roma».

  1. Il messaggio di Plotino

Nel secondo periodo dell’ellenismo – che va da Augusto a Giustiniano – Roma domina in campo politico, almeno fino a Marc’Aurelio (morto nel 180), e ci dà nel contempo i frutti più alti del suo genio nell’arte, nella letteratura, nell’eloquenza, nel diritto. Nella filosofia furono veri maestri di umanità Seneca, Marc’Aurelio ed Epitteto (dei tre solo il primo scrisse in latino). La potenza creativa e l’originalità etico-religiosa del cristianesimo si manifestarono anche in campo culturale con l’apologetica e la patristica, greca e latina, avviando un’esperienza nuova, l’uso cristiano della ragione, che caratterizzerà in modo indelebile la speculazione e la civiltà dei secoli successivi. La cultura ellenistica tende, invece, a esaurirsi proprio nella zona originaria ed elettiva, nel Mediterraneo orientale, da Alessandria a Rodi, ove l’arte e la scienza chiudono il loro momento eroico. Anche nella letteratura, malgrado la presenza di forze letterarie nuove (il romanzo, la biografia, l’epistolografia), è in atto un generale processo di estenuazione e di decadenza. Vi è una sola grande eccezione ed è in filosofia: Plotino, il quarto big del pensiero greco, accanto a Socrate, Platone e Aristotele, il pensatore in cui s’incontrano l’Oriente e l’Occidente greco-romano7.

Plotino (205-270 d.C.), che vive nel III secolo d.C., ha cercato nella tradizione platonica e in tutto il pensiero greco gli elementi di una costruzione razionale per giustificare il senso di continuità di tutto il reale, l’ineffabilità della divina presenza, la libertà interiore dell’anima nella sua dialettica ascesa all’Uno-Bene. Egli offre una dottrina di Dio più esplicita di quella di Platone e meno astratta di quella di Aristotele. L’Uno non è nulla di ciò che conosciamo e solo in opposizione dialettica al molteplice l’anima lo intuisce e definisce, per via negativa. L’Uno non è il colmo dell’indigenza o il vuoto, ma l’Incondizionato, l’Atto puro, la vivente coscienza di sé come Bene. Tuttavia la concezione di Plotino è forte di ambiguità per la costitutiva oscillazione tra l’esasperata trascendenza dell’Uno e l’immanenza richiesta da una spiegazione emanatistica dell’universo. Questa è l’aporia centrale del sistema ed è impossibile voler ricondurre il pensiero di Plotino a uno solo dei due poli, in cui esso realmente oscilla senza trovare una composizione armonica e soddisfacente. Il tentativo disperato di dispensare il Primo Principio dall’essere creatore a titolo immediato e il modo orfico-platonico di considerare il corpo, attestano, peraltro, una non superata, persistente mentalità dualistica anche nel pensatore che più di ogni altro aveva radicalmente affermato l’esigenza unitaria.

Plotino ha esercitato un influsso immenso nella concezione della vita e dell’educazione, come maestro e indagatore finissimo di quella «storia dell’anima», di quell’auto-biografia spirituale che ogni uomo, in qualsiasi temperie storica, va scrivendo con le sue viltà e le sue conquiste. Sua è la formula che meglio esprime l’ansia di liberazione spirituale e la volontà di autoperfezionamento di tutta la paideia ellenistica. «Orsù ritorna a te stesso e guarda; e se non ancora ti vedi bello, imita lo scultore di una statua che deve riuscire bella; quegli in parte scalpella, in parte appiana; qui leviga, lì affina, sino a quando avrà espresso un bel volto nella statua. Similmente anche tu togli il soperchio, raddrizza ciò che è storto, e, a furia di purificare ciò che è oscuro, fa che diventi lucido e non cessare dal tormentare la tua statua fino a quando il divino splendore della virtù ti brilli dinnanzi» (Enneadi, I, 6, 41-42, trad. Vincenzo Cilento, Laterza, Bari 1947). La storia dell’anima è essenzialmente presa di coscienza della condizione umana e insieme dramma morale e religioso. Collocata fra due limiti ugualmente indefinibili, fra l’Infinito e lo zero metafisico, fra l’Uno e la materia, l’anima umana è il punto di sutura tra i diversi piani della realtà, il compendio dell’universo, l’autentico protagonista nel quadro della vita universale. Impasto di necessità biologiche, attività conoscitiva e libertà, essa tende a vivere passionalmente secondo la spinta degli istinti, ma sa anche elevarsi al Bello, al Vero, al Bene. È facile lasciarsi andare, ma nel groviglio dell’inconscio dei sensi e dei desideri smodati l’anima si perde. È difficile affrontare il travaglio della riflessione e della volontà, ma attraverso quella fatica l’anima si risveglia, si ritrova e si instaura nell’Essere.

L’anima avvinta alle cose, diventa dimentica di se stessa e di Dio: «spregia il proprio essere e la sua origine» (Enneadi, V, 1). Ma l’anima il cui pensiero vince l’irrazionale, si fa veramente libera scegliendo per guida la ragione: «in ciò consiste la vera azione umana, quella che non scaturisce da estranea sorgente, ma rampolla dall’intimo, da un principio primordiale ch’è guida e signore» (Enneadi, III, 1).

Questa presa di possesso dell’anima mediante la ragione – l’eterno messaggio di Socrate! – è la prima condizione che ci permette di elevarci e che sola rende fruttuose le vie idonee a ricondurci alla «Casa del Padre». L’arte, l’amore, la virtù – le vie del ritorno – conducono all’Uno, ma solo se accompagnate e portate a compimento dalla presenza del pensiero. Senza il pensiero razionale, i mezzi espressivi annuncerebbero se stessi e mancherebbe all’arte la funzione catartica così come la feconda tensione fra idea ed espressione, contenuto e forma; l’amore degenererebbe in fariseismo ed egoismo; la virtù in mera disposizione naturale o convenienza sociale, priva di quella luce e verità che ne fanno un valore. La via liberatrice per eccellenza, la dialettica o arte e metodo di elevazione al Bene, è lo stesso ritmo interiore della vita spirituale nel suo moto ascendente. Se la schiavitù dell’anima è nell’esasperazione del contingente, del passionale, del banale, da cui si lascia occupare la nostra memoria empirica (mneme) ottenebrando la reminiscenza metafisica (anamnesis), il ritorno all’interiorità dell’io e a Dio è un riaccendersi dell’anamnesis e un conseguente affievolirsi della mneme. «Il rapporto fra le due memorie – ha osservato Giuseppe Faggin – è inversamente proporzionale, come la relazione fra i due oblii: l’anamnesis dell’Eterno è l’oblio dell’effimero, la memoria dell’effimero è l’oblio dell’Eterno. In questo ritmo è la vita dell’anima, ma anche il suo dramma interiore, che impegna tutto il gioco dei suoi affetti e delle sue sofferenze. L’oblio è più che una sospensione teoretica: è un atto eroico con cui l’anima taglia via ogni legame con la terra e annulla ricordi cari, dolcezze mondane, speranze vagheggiate, tutto ciò che costituisce la sua empirica individualità. All’acme del processo dialettico l’anima non ha più bisogno né di riflessione né di memoria né di mediazioni logiche: ha raggiunto la visione immediata dell’Essere che è insieme visone di sé: qui la si placa» («I neoplatonici» in Storia della filosofia, a cura di Cornelio Fabro, Coletti, Roma 1954, p. 107).

Di Plotino, al quale tanto deve Agostino, il più grande dei padri latini e, con lui, la Chiesa universale, s’è potuto scrivere che «pur non essendosi mai avvicinato al cristianesimo, fu un valido testimone dei suoi ideali spirituali e morali» (Frederick Copleston, Grecia e Roma, Paideia, Brescia 1967, p. 628). Egli esercitò un forte influsso nel pensiero cristiano, sollecitando il cristianesimo a rivelarsi filosoficamente a se stesso. Il pensiero cristiano non dipende da Plotino quanto al fondo autonomo della sua Weltanschauung, ma da lui prenderà a prestito temi e formule non meno che da Platone e Aristotele – e saranno prestiti filosoficamente giudicati – perché di tutte le istituzioni religiose solo il cristianesimo è in rapporto storico, anteriore e posteriore al suo apparire, con la filosofia delle epoche colte. E come ha raccolto l’eredità dei tempi antichi, così presiederà ben presto alla nascita delle nuove civiltà.

  1. Luci e ombre della prassi scolastica

Nell’età ellenistica la scuola si afferma come istituzione e soppianta, a poco a poco, l’ambiente naturale e sociale dei ginnasi dell’età classica, con la loro varietà di rapporto tra adolescenti e adulti. L’educazione, avvertita come un servizio d’interesse generale, non è più lasciata alle iniziative dei privati, ma è sottoposta a un regolamento ufficiale. Lo Stato richiama le città, i municipi al loro dovere nel campo dell’istruzione, fissando obblighi a cui non ci si deve sottrarre, ma non intende sostituirsi a esse, né assumere in proprio la direzione e il mantenimento delle scuole. Il carattere municipale delle istituzioni educative spiega anche la loro diversità e l’affermarsi di un sistema di finanziamento, l’evergetismo, cioè il ricorso alla generosità dell’evergétes, del mecenate, del benefattore per assicurare un servizio di interesse generale come appunto le scuole, le fondazioni culturali, la costruzione ed il mantenimento dei monumenti pubblici. Le scuole più diffuse continuano a essere, comunque, le scuole private, mantenute dalle quote pagate dagli alunni al maestro. Di tutte le istituzioni educative greche l’efebia era la sola pubblica e obbligatoria, corrispondeva al servizio militare di oggi e durava due anni; con la perdita dell’indipendenza ellenica, cessò di funzionare, essendo venuta meno la sua ragion d’essere. Trapiantata nei paesi ellenizzati, attraverso trasformazioni radicali e non più obbligatoria, fu riservata a una minoranza aristocratica. La finalità militare scomparve, mentre si perfezionò quella ginnico-sportiva; l’istruzione mirò a dare una certa infarinatura letteraria e filosofica e alle lezioni furono affiancate conferenze ed audizioni. La pratica dell’autogoverno – con assemblee, magistrati elettivi, mozioni e votazioni – fu spesso molto sviluppata ed accrebbe i rapporti di amicizia tra i giovani nobili, che si ritrovano a distanza di anni raggruppati in associazioni di ex alunni.

A quali trasformazioni andarono incontro le altre istituzioni educative, dalla scuola primaria alle scuole di filosofia?

I pregi e i difetti dell’educazione classica vengono assunti, gli uni e gli altri, ed evidenziati, per così dire stilizzati, nell’ellenismo, tutto proteso ad affermare la continuità storica con la Grecia classica, pur nel mutare del quadro politico, degli ideali di cultura e del costume morale. D’altra parte, uno sguardo alla prassi scolastica e all’evoluzione delle istituzioni culturali, serve anche a misurare l’intervallo esistente fra la matura, raffinata forma di educazione umana delineata da Platone, da Isocrate o da Aristotele – quella forma che è espressione di uno dei più alti gradi di consapevolezza che l’umanità abbia raggiunto nella sua storia millenaria e che sussiste intatta nella sua originalità nonostante l’evoluzione ulteriore – e la paideia ellenistica.

Il fanciullo, come nell’Ellade, fino a sette anni vive e si sviluppa in un clima di grande spontaneità La famiglia è l’ambiente naturale che fa da sfondo e da cornice alla prima educazione. In quegli anni il piccolo acquisisce il linguaggio con una capacità mirabile, non raggiunta da altre età; fa del gioco la sua principale attività (e i suoi giochi sono quelli di sempre, così come i suoi giocattoli: bambole, ninnoli, carrettini, minuscole stoviglie, attrezzi per imitare il lavoro degli adulti, palle, ecc.); le favole, con personaggi animaleschi e, purtroppo, con streghe terrificanti, popolano la sua fantasia; le ninne nanne e poi le brevi canzoncine lo rasserenano e lo rallegrano, iniziandolo al mondo della musica. La scuola comincia a sette anni e l’insegnamento è collettivo (solo i figli dei re hanno precettori particolari). Le scuole primarie erano tenute in locali non predisposti all’uso scolastico: una qualsiasi stanza con una cattedra e un seggiolone con spalliera e con piedi ricurvi per il maestro, sgabelli di legno e tavolette rigide individuali che permettono di scrivere sulle ginocchia, senza tavolini per gli alunni; le pareti decorate dalle immagini delle Muse e da maschere sceniche. Non esiste la lavagna. Al maestro elementare si domanda solo una qualifica morale, non una vera e propria competenza pedagogica: chiunque avesse imparato a leggere era considerato idoneo a insegnare. La sua personalità è troppo sbiadita, il suo mestiere è disprezzato e mal pagato. Epicuro è diseredato perché il padre era maestro di scuola (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, X, 4): mestiere di gente fallita o sradicata, «dalla miseria ridotta a insegnare» (Atenagora, Apologia, IV, 184 c). Non esiste il riposo settimanale, né si conoscono periodi continuativi di vacanza; vi sono soltanto giorni di festa, talora numerosi, ma comunque distribuiti senza preoccupazioni pedagogiche.

Nei primi anni del Novecento sono stati ricostruiti programmi e metodi della scuola elementare in età ellenistica, facendo «parlare» i papiri e le tavolette di origine scolastica: testi, manuali, quaderni di appunti e di esercizi. L’apprendimento del leggere e dello scrivere è particolarmente ingrato. Delle lettere dell’alfabeto si continua a insegnare il nome (alfa, beta, gamma…) e non il suono. Esse servono a notare anche i numeri e le note musicali e ciò aumenta le difficoltà per gli scolari. Non si conosce la lettura silenziosa, si legge ad alta voce anche da soli (la qual cosa, malgrado qualche inconveniente, non è un male, se obbliga il lettore a essere più presente a se stesso). Si imparavano a memoria brani poetici scelti e raccolti in antologie. La recitazione collettiva non può evitare la cantilena in cui le sillabe succedono alle sillabe, in una stacco innaturale.

Nella prassi scolastica non si pone ancora il problema dell’adeguazione psicologica a coloro che apprendono: di qui la grave insufficienza dei metodi, il carattere nettamente recettivo della scuola, il ricorso a castighi corporali e, in ultima analisi, la modestia e la lentezza dei risultati8.

Il maestro elementare ha lo scopo di istruire, ma non gli si affida l’educazione del ragazzo, sulla quale, invece, ha un’influenza assai più diretta e determinante il «pedagogo», lo schiavo che le terrecotte ci mostrano nell’atto di portare il bagaglio del suo piccolo padrone o la lanterna per rischiarargli il cammino (la giornata cominciava molto presto, allo spuntar del giorno), e perfino il ragazzo stesso se è stanco. Il pedagogo si fa a casa ripetitore ed è maestro di buone maniere e di vita morale per il suo ragazzo. Da schiavo accompagnatore si trasforma in precettore e con il suo ufficio acquista in dignità e considerazione presso la borghesia ellenistica.

Dopo la scuola elementare – che nei paesi veramente greci possiamo pensare frequentata da tutti i ragazzi e le ragazze di condizione libera, secondo quanto ci attestano le leggi scolastiche di Mileto e Teo (Wilhelm Dittenberger, Sylloge Inscriptionum Graecarum, 577-578) – un’esigua minoranza passa agli studi secondari. Al maestro elementare succede il «grammatico», il cui insegnamento ha per oggetto specifico i poeti e gli scrittori classici. Di ognuno dei grandi classici, ufficialmente riconosciuti tali in una specie di «canone» (come quello fissato nell’ambiente universitario di Pergamo verso la metà del II secolo a.C. che indicava i dieci storici, i dieci filosofi, i dieci oratori…), furono selezionate le opere ritenute degne di entrare nei programmi scolastici. Queste scelte influenzarono la nostra tradizione manoscritta. Su quaranta o quarantaquattro commedie di Aristofane, ne possediamo le undici pubblicate da un grammatico verso il 100 d.C. come «teatro per le scuole». Di Eschilo e di Sofocle conserviamo solo le sette tragedie usate nell’insegnamento. Euripide fu ben più fortunato, perché oltre le dieci opere comprese nel teatro scelto edito sotto Adriano (117-138 d.C.), ne sono state conservate altre nove. E le semplificazioni potrebbero continuare. Degli autori minori si curavano florilegi e antologie. La scuola ellenistica accoglie anche autori recenti come Callimaco e i migliori tra gli epigrammisti, ma i «quattro grandi», gli «autori» per eccellenza sono Omero per l’epica, Euripide per la tragedia, Menandro tra i comici e Demostene tra gli oratori.

Il metodo di studio si articolava in quattro momenti: correzione del testo, lettura dialogo e recitazione a memoria, spiegazione letterale, critica letteraria. I manoscritti di un’opera moltiplicano, inevitabilmente, incertezze ed errori, e si può dire che non esistessero due copie identiche. Di qui l’obbligo preliminare per il docente di confrontare quelle che avevano tra le mani i suoi alunni per correggerle e accordarle tra loro. L’assenza della punteggiatura e della separazione tra le parole rendeva la lettura assai difficile e perciò era necessario uno studio attento del testo per distinguere sillabe e parole, per dare il tono appropriato alle frasi, per scandire i versi secondo le regole della prosodia e della metrica. Gli alunni dialogizzavano le opere di teatro e l’epopea. La recitazione a memoria seguiva alla lettura espressiva del testo. La esegesi letterale del testo finì per fare la parte del leone. Alla giusta esigenza di intendere le parole difficili e comunque il linguaggio proprio d’un autore e i riferimenti contenuti nel testo, proprio per poter meglio cogliere i sentimenti, le idee, le suggestioni d’una pagina fin nelle sue sfumature, si sovrappose, asfissiante, la mania erudita per cui la persona colta è quella che conosce ogni particolare, anche il più insignificante sulle persone, i luoghi, e tempi e gli avvenimenti di un’opera, proprio come negli odierni quiz televisivi. Nelle mani dei pedanti professionali tutto diventa una questione di onomastica, di genealogia, di divisioni e suddivisioni moltiplicate all’infinito. L’erudizione vuota e verbosa, cavillosa e superficiale, soffocava il soffio della poesia e del pensiero. Le degenerazioni dello pseudo-umanesimo, del formalismo letterario, che Erasmo, il più grande umanista, fustigherà nel Ciceronianus (1528), erano già presenti nella scuola dei grammatici ellenistici. Se la esegesi letterale del testo era praticata con boriosa angustia mentale, che cosa poteva edificare sopra di essa la critica letteraria? Assente ogni finalità estetica, si sconfina nel moralismo spicciolo, non immune da puerilità grossolane, forzature ingenue e risultati inevitabilmente mediocri9. È doveroso, però, ricordare che nel secolo I a.C. l’insegnamento letterario registra un notevole sforzo per portarsi su un piano molto più elevato, quello della «tecnica» come fu detto lo studio metodico degli elementi del linguaggio o grammatica. Crisippo (ca. 280-207 a.C.) dette un notevole apporto in questo campo, già arato dai sofisti e da Platone, ma la scienza grammaticale ebbe il suo maestro in Dioniso Trace, che al principio del secolo I a.C., a Rodi, redasse un celebre manuale in cui insegna a scomporre col metodo dell’analisi astratta la lingua greca in elementi semplici accuratamente classificati e definiti.

Coloro che proseguivano negli studi superiori, nella grande maggioranza, frequentavano le scuole di retorica, perché l’eloquenza rimane il coronamento di un’educazione liberale completa. Isocrate prevale su Platone e l’alta cultura nel mondo ellenistico è pur sempre quella oratoria, malgrado siano mutate le condizioni politiche e sociali che avevano favorito la prestigiosa ascesa delle scuole di retorica. Scompare quasi l’eloquenza politica e giudiziaria, mentre si sviluppa quella epidittica, cioè solenne, d’apparato, in altri termini l’arte del conferenziere. «L’eloquenza – scrive Henri-Irénée Marrou (op. cit., p. 264) – impone le sue categorie a tutte le forme dello spirito, poesia, storia e anche filosofia. La cultura ellenistica è principalmente una cultura oratoria, il cui genere letterario tipico è la conferenza pubblica10».

NOTE

  1. Ad Atene sono state fondate tutte le grandi scuole filosofiche come confraternite religiose e scientifiche: l’Accademia nel 387 a.C.; il Liceo nel 335 a.C.; nel 306 a.C. Epicuro inaugura il Giardino; nel 301-300 a.C. Zenone fonda la scuola stoica. Ma anche le altre filosofie si sviluppano principalmente ad Atene. Tre delle grandi scuole, la peripatetica, l’epicurea e la stoica, avevano per fondatori degli stranieri stabilitisi in Atene, ma senza il diritto di cittadinanza. In due di esse, quelle che domineranno, sino a Plotino (205-270 d.C.) ed oltre, la cultura ellenistico-romana, i membri, a cominciare dai capi, sono per lo più stranieri. Insomma anche la filosofia, dopo Platone, non è più ateniese, e nondimeno ha per capitale Atene per effetto dell’immensa forza di una tradizione insostituibile. Atene continuerà a essere la città sacra alla cultura e alle arti, meta di studiosi e di turisti, pur nel fiorire delle città capitali dei regni ellenistici: Alessandria dei Tolomei in primo luogo, ma anche Pergamo degli Attàlidi e Antiochia dei Selèucidi
  2. Alessandria era la più greca delle città bagnate da quel Mediterraneo che era stato sempre la vocazione dei greci (non si deve dimenticare, infatti, la grande colonizzazione tra il 750 e il 550 a.C., prevalentemente pacifica e di immensa fecondità per la storia d’Europa). Alla morte di Alessandro l’Egitto cadde in potere d’un suo generale, Tolomeo (323-285 a.C.), la cui dinastia continuò a regnare per tre secoli, fino al 1° agosto del 30 a.C., quando Alessandria cadde nelle mani di Augusto e l’Egitto divenne una provincia personale dell’imperatore. La monarchia làgida sin dai primi tempi creò una tradizione in campo culturale e Alessandria divenne il centro del sapere scientifico con le grandi istituzioni del Museion e della biblioteca. Il Museo che perfino nel nome richiamava le grandi scuole greche che i fondatori si rappresentavano come tempio, tiaso, luogo sacro alle Muse – realizzava il sogno di una comunità di ricercatori esenti da ogni peso, da ogni preoccupazione materiale, sontuosamente alloggiati e nutriti a spese dello Stato, interamente liberi di dedicare tutte le loro energie ai loro studi. Annessi al Museo sono gli istituti scientifici (l’osservatorio astronomico, il giardino botanico e zoologico, un istituto di anatomia) e la famosa biblioteca, che, in successive acquisizioni sarebbe giunta a contenere tutto ciò che la letteratura – non soltanto greca – avesse prodotto fino allora (settecentomila volumi, secondo alcune fonti: cifra non esagerata se il catalogo redatto dal terzo conservatore, Callimaco, tra il 260 e il 240 a.C., comprendeva già centoventimila volumi). Gli scienziati-astronomi, geometri, medici, storici, grammatici – convennero numerosi ad Alessandria e, sebbene non obbligati, tennero corsi universitari, di alta cultura, dando origine anche a molte scuole rivali. Dal 300 a.C. al 200 d.C., per mezzo millennio insegnarono ad Alessandria i più eminenti scienziati. Euclide (ca. 330-ca. 260 a.C.), l’autore degli Elementi di geometria, dette forma a tutto il successivo insegnamento geometrico e il suo libro è, dopo la Bibbia, il più conosciuto; Erofilo, contemporaneo di Euclide, fondò l’anatomia comparata, Aristarco (310-230 ca. a.C.) il «Copernico dell’antichità» riconobbe tra l’altro che la luce della luna riflette quella solare; Eratostene (ca. 276-ca. 194 a.C.) filologo matematico astronomo e geografo, ottenne la misurazione del globo terrestre con un’operazione di stupefacente semplicità; Erone (vissuto nel I secolo a.C.) «conoscente a fondo le proprietà delle leve, degli ingranaggi e delle macchine con essi composte; l’idrostatica e tutta le più svariate applicazioni del sifone; aveva costruito apparecchi basati sulla dilatazione dei gas e sulla forza d’espansione del vapore acqueo; conosceva anche bene l’azione dei gas compressi in un cilindro da un pistone» e aveva costruito «la prima macchina a vapore che abbia funzionato» (Federigo Enriques, Giorgio de Santillana, Storia del pensiero scientifico, Zanichelli, Bologna 1932, Vol. I, p. 496). Alla scuola alessandrina si formarono anche quelli, come Archimede di Siracusa (287-212 a.C.), il fondatore della meccanica, e Galeno di Pergamo (131-201 d.C.), l’autore della più grande sintesi biologica e medica dell’antichità, che non vissero nella metropoli egiziana. La scuola alessandrina che inizialmente aveva le caratteristiche di un’accademia e poi divenne una università, fiorì per oltre due secoli, incominciò un lento declino pur mantenendo viva la sua attività scientifica fino al 400 d.C. Ancora nel IV secolo Alessandria si segnala per gli studi di medicina.
  3. Uno dei più importanti e vitali centri dell’ellenismo fu Pergamo, ove si insediò la dinastia degli Attàlidi. Il re Eumene II (197-159 a.C.) fondò la celebre biblioteca che giunse a contare duecentomila volumi, e inaugurò quella politica di evergetismo culturale a vantaggio di altre città (Atene, Delfi, Rodi, ecc.), che fece degli Attàlidi gli alfieri dell’ellenismo. Della rivalità tra Alessandria e Pergamo è rimasta una traccia curiosa nelle lingue moderne. I libri alessandrini erano scritti su rotoli ricavati dalle foglie di papiro, da cui vengono le parole come paper e papier che in inglese e francese significano carta. Per impedire a Pergamo l’acquisto di copie dei loro tesori letterari, i Tolomei posero l’embargo sulla esportazione del papiro. I re di Pergamo, allora, privi di quel prezioso materiale d’importazione, cercarono di risolvere il problema con la preparazione di pelli di animali, che costituivano il materiale di scrittura usato in quel tempo da ebrei e persiani. Ebbe così origine la produzione su vasta scala della pergamena (membrana).
  4. Costretta dalla presenza romana ad abbandonare ogni mira egemonica, Rodi divenne celebre proprio come sede di studi superiori: scuole di grammatica (Dionisio Trace insegna a Rodi), di filosofia (Panenzio 185-109 a.C., familiari e consiglieri di Scipione Emiliano) e l’enciclopedico Posidonio (ca. 35-50 a.C.). A Rodi vengono, nel I° secolo a.C., i romani come Cicerone, Cesare e Tiberio, per apprendere i segreti dell’arte oratoria.
  5. Nei sistemi dello stoicismo e dell’epicureismo i pensatori sono innanzi tutto dei «dottori della vita felice», come osserva Jacques Maritain (La filosofia morale, Morcelliana, Brescia 1971, p. 72 e seguenti). Lo stoicismo è «un’ascesi della tensione e dell’azione», l’epicureismo «una specie d’ascesi della distensione e del riposo». Nello stoicismo si ha la contraddizione di un’etica dell’obbligazione morale e della vita morale eroica fondata su una metafisica materialistica e sul determinismo assoluto. Nell’epicureismo, per quanto «spiritualizzato dall’intelligenza, dall’immaginazione e dalla memoria», non esiste che il piacere sensibile: non vi è più un bene in sé e per sé e il valore è totalmente relativizzato, ridotto com’è a un’abile metretica, a un’arte di misurazione dei piaceri e dei dolori, capace di congiungere al massimo del piacere il minimo della pena. Il valore della virtù è commisurato al suo potere di causare il piacere. Nel sistema epicureo è impossibile una discriminazione tra piaceri che sia fondata su differenze di valore morale. E la ragione è semplice: «Il piacere è essenzialmente individuale; perciò i sistemi fondati sul principio del piacere, sono essenzialmente sistemi di egoismo» scriverà con forza epigrafica Antonio Rosmini nella sua Storia critica e comparativa dei sistemi intorno al principio della morale (1837, riedita da Paravia, Torino 1928, vol. I, p. 54). Certamente il giudizio pratico morale di Epicuro è più penetrante dei fondamenti teorici della sua etica, come ha dimostrato André-Jean Festugière nel suo Epicuro e i suoi dei ( Morcelliana, Brescia 1952), ma in filosofia non si può prescindere da questi. Se gli epicurei correggevano l’orgoglio e l’astrattezza rigoristica della saggezza storica, eroica e disumana, gli stoici avevano buon gioco contro gli epicurei a dimostrare l’assurdo di costruire un sistema di morale nel quale ogni elemento morale per l’appunto era escluso. Vi sono, però, strane affinità tra i due sistemi antagonisti. Ci limitiamo a segnalarne alcune. In primo luogo il determinismo materialistico rigoroso rende ambedue le dottrine incapaci di spiegare come l’uomo possa vincere la sua natura contingente per l’affermazione di una volontà razionale non deducibile dalle sue inclinazioni e debolezze. È stato acutamente detto che nessun determinista è, né può, essere coerente e i deterministi ellenistici non fanno eccezione alla regola. In secondo luogo se l’atarassia e l’apatia assurgono a espressioni tipiche della saggezza, questa saggezza – sia essa epicurea che stoica – è inficiata di egoismo. Infatti qualora il nulla emotivo e l’imperturbabilità fossero il fine in sé, in quanto libertà da ogni genere di agitazione e di apprensione, porterebbe a fuggire le lotte inevitabili e doverose per l’attuazione degli ideali morali. Il saggio stoico non meno del saggio epicureo tende in realtà a isolarsi dal mondo e a considerarne le vicende con animo non solo distaccato, ma indifferente. In terzo luogo, sia nello stoicismo che nell’epicureismo – e persino là dove i due sistemi toccano il loro punto più alto nelle dottrine del cosmopolitismo e dell’amicizia – si opera il tentativo di estrarre, per così dire, dall’egoismo l’altruismo, cercando di derivare tutta la morale dall’istinto di conservazione del proprio essere materialisticamente concepito. Il cosmopolitismo stoico, per cui l’uomo saggio è un cittadino non di questo o quello Stato ma del mondo, trae il suo presupposto dalla tendenza fondamentale all’autoconservazione. In un primo momento questa tendenza si mostra nella forma dell’amor proprio, cioè dell’individuo per se stesso; ma poi si estende oltre, fino ad abbracciare tutto ciò che riguarda l’individuo: la famiglia, gli amici, i concittadini e, infine, l’umanità tutta. Epicuro diede molta importanza all’amicizia. «Di tutte le cose che la saggezza provvede per la felicità della vita, la più importante è l’amicizia» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 10, 148). Ma la stessa esaltazione dell’amicizia è fondata su considerazioni egoistiche: senza l’amicizia non si può vivere una vita tranquilla e inoltre l’amicizia procura piacere. L’amicizia viene quindi fondata su basi egoistiche, avendo per scopo il vantaggio personale, sebbene nel corso dell’amicizia possa sorgere un’affezione disinteressata, per cui il saggio ama l’amico come se stesso.Com’è noto, in pieno Ottocento John Stuart Mill cercherà di legittimare su un fondamento egoistico l’altruismo come un fenomeno di associazione psicologica, ricorrendo all’apologo dell’avaro. L’avaro che dapprima faceva oggetto del suo amore il denaro, solo come mezzo per il possesso di beni che veramente gli stavano a cuore, finisce con l’amare il denaro per se stesso. Così la felicità altrui, cercata dapprima in quanto si rifletta sulla nostra o la condizioni, finisce per l’essere procurata per se stessa. Immanuel Kant prima, poi Antonio Rosmini e anche Alessandro Manzoni in un significativo scritto del 1855 Del sistema che fonda la morale sull’utilità, che è l’appendice al Capitolo III delle Osservazioni sulla morale cattolica (da leggersi nell’edizione curata da Romano Amerio, Ricciardi, Napoli 1966, vol. II, pp. 323-410), hanno criticato limpidamente le illusioni e le contraddizioni di ogni sistema utilitaristico.
  6. Gli autori del Nuovo Testamento – non solo stranieri, ma estranei al mondo greco – non sono scrittori, e meno ancora letterati. I letterati – e sono tanti, in questo periodo! – si occupano di retorica, come Dionigi di Alicarnasso, e delle avventure di innamorati come Caritone. E tutti scrivono «bene» secondo i precetti della retorica e della lingua ornata. «Ma questi – scrive Raffaele Cantarella – non hanno da raccontar favole o da studiare e applicare regole di bello scrivere: hanno da proclamare qualche cosa che ha rinnovato il mondo. Hanno, soprattutto, un empito nuovo di fede, di rinuncia, di amore, di umanità; una potenza nuova di passioni: ex abundantia cordis os loquitur dice Matteo (12, 34). E come dicono sovente essi stessi, sanno che questo vino nuovo farebbe scoppiare i vecchi otri. Così, dovendo portare a tutti, ma soprattutto agli umili e ai “poveri nello spirito” il messaggio nuovo, rinnovano anche l’espressione letteraria. Adoperano la lingua che si parla intorno a loro, che essi stessi parlano: una lingua viva, sciolta, duttile, efficace. La lingua e le iscrizioni e i papiri rivelano essere la lingua del loro tempo: e di cui la vitalità è dimostrata, fra l’altro, dal fatto di essere così vicina al greco ancora oggi parlato: del quale solo in tal modo si comprende l’origine e il senso, come hanno mostrato acuti studi distruggendo il preconcetto della lingua “barbara”. Certo, troviamo in questa lingua parole e locuzioni e costrutti e schemi che non sono greci: ma solo perché non appaiono in alcun testo letterario del tempo. E non sempre e tutti “ebraismi”: che non mancano, invero, ma non sono quelli che danno il tono alla lingua. Che è greca: non soltanto nell’impianto linguistico, ma soprattutto in questa capacità di adattarsi a dire le cose che più sembrano lontane da tutto ciò che siamo abituati (e giustamente, in parte) a considerare come greco. Che cosa, di questa lingua, abbiano saputo fare gli autori del Nuovo Testamento è noto. Pagine come le Beatitudini o il Discorso della montagna, in Matteo; in Marco, la negazione di Pietro; come il racconto della Passione in Luca e della conversione di Paolo, sono certamente tra le parole più alte che mai siano state dette, non solo per la grandezza delle cose, ma per la potenza ineguagliabile dell’espressione e l’efficacia delle parole, affidata a una semplicità disadorna e discorsiva che si impone con l’evidenza dei fatti; e la capacità di creare frasi e modi che sono entrati in tutte le lingue del mondo cristiano per la loro espressività, e che tutti ripetiamo senza nemmeno sapere, molte volte, donde vengono» (Raffaele Cantarella, La letteratura greca dell’età ellenistica e imperiale, Sansoni – Accademia, Firenze 1968, pp. 254-255).
  7. Su Plotino riportiamo qui due giudizi d’insieme rapidi e penetranti. «Plotino è l’ultimo uomo del mondo antico – egizio, per nascita; greco della paideia alessandrina; romano, di vita e di ambiente; ma a dir vero “patria ei non conosce altra che il cielo” – uno che si sta perplesso tra due mondi e, pur sentendosi, per dirla col Müller “uno schietto germoglio ellenico”, ha, nondimeno, come un’attrazione strana verso certi gnostici abissi del pensiero, dai quali pure rilutta, razionalmente; un uomo, tuttavia, intrepidamente fermo al limite tra quella pura misura ellenica e il tumulto inquieto del nuovo mondo pervaso e percorso da un lievito e da un fremito creatore» (Vincenzo Cilento, Premessa alle Enneadi, vol. I, Laterza, Bari 1947, p. IV). «Mistico e razionalista, asceta non ignaro delle virtù civili, lontano e distaccato dal mondo, avversario tuttavia del pregiudizio gnostico, che faceva del mondo qualcosa di essenzialmente malvagio, il frutto di una decadenza cosmica, esempio di altissima libertà morale e tuttavia assertore di una necessità universale, vicinissimo al cristianesimo, sotto alcuni aspetti, e tuttavia riluttante a esso, Plotino è una complessa personalità di pensatore, che sarà sempre per lo storico un problema ricco di grande interesse umano, filosofico e filologico» (Nicola Petruzzellis, Storia del pensiero filosofico e pedagogico, Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1966, vol. I, p. 190).
  8. Le quattro operazioni, a esempio, si insegnano dopo la scuola primaria e l’uso generalizzato dei gettoni per calcolare suppone che neppure la conoscenza dell’addizione fosse sicura e diffusa tra la gente comune. In mancanza di un sistema di simboli appropriati, i greci non potevano scrivere i grandi numeri, né quelli frazionari. Platone riteneva che occorressero almeno quattro anni per imparare a leggere. Nell’età ellenistica non si riesce a far prima. Nel 234 d.C., si trova naturale, come risulta da un papiro greco-egizio, che un ragazzo di nove anni non sappia ancora scrivere il suo nome, pur appartenendo a un ambiente colto.
  9. Omero, a esempio, è letto nel modo più anti-vichiano che si possa immaginare. Gli stoici ne hanno fatto «il più saggio dei poeti», il campione della «sapienza riposta», il filosofo che nasconde la verità sotto il velame del mito (la dottrina che s’asconde sotto il velame delli versi strani, come direbbe Dante). L’allegoria permette di riscoprire la lezione, la «morale» del racconto o dell’evento. Ma applicare proprio a Omero un siffatto modulo interpretativo non si può senza cadere nel ridicolo, come capita a Plutarco nel suo tratterello Come si devono studiare i poeti.
  10. Certo, la retorica costituiva un sistema di leggi convenzionali; ma una volta assimilate, la libertà dell’artista non poteva muoversi all’interno di quel sistema secondo le proprie forze, in conformità della sua ispirazione? «Perfettamente padrone dei suoi procedimenti, il retore poteva servirsene per esprimere i suoi sentimenti, o le sue idee personali, senza che ne venisse a soffrire la sua sincerità. Lungi dall’ostacolare l’originalità o il talento, le costrizioni formali al contrario fornivano l’occasione dei più sottili e raffinati effetti. Bisogna paragonare la retorica a sistemi convenzionali, conosciuti da altre arti in altri periodi classici; si pensi alle leggi della prospettiva nella pittura, a quella dell’armonia nella musica, da Bach a Rameau a Wagner, e anche a quella della versificazione: fino al simbolismo i poeti francesi hanno accettato di sottomettersi a regole arbitrarie e rigorose come quelle della retorica, e non pare che ne abbiano sofferto» (Henri-Irénée Marrou, op. cit., p. 276).

Nota finale. I materiali riportati provengono dalle bozze di una storia del pensiero pedagogico battuta a macchina e divisa in capitoletti, che si interrompe al capitolo X: «Il realismo pedagogico dell’età moderna». I testi sono stati scritti dal prof. Matteo Perrini in data non precisata, probabilmente negli anni Ottanta del Novecento. Il capitolo qui riportato è il quarto. Il curatore Filippo Perrini è intervenuto in minima parte, modificando frasi con terminologie desuete e verificando, per quanto possibile, le citazioni. Un ringraziamento va al prof. Gian Enrico Manzoni che ha rivisto la traduzione di alcune citazioni in latino.