Giornale di Brescia, 6 marzo 1995.
All’inizio del 1945 l’americano Mark Wayne Clark sostituisce al comando in Italia l’inglese Alexander a torto considerato ostile ai partigiani. Da parte alleata cominciano i grandi lanci di viveri, armi e munizioni. Sul finire dell’inverno il grosso dei partigiani riguadagna la montagna. Si torna a combattere, ma con una superiore organizzazione, spesso con genialità strategica (come nella prima e nella seconda battaglia del Mortirolo, tra la Valtellina e la Valcamonica, il 22-27 febbraio e il 10-26 aprile). Il plenipotenziario tedesco in Italia, K. Wolff, avvia trattative per la resa separata delle truppe tedesche del fronte sud-occidentale e, come prova di buona volontà, il 7 marzo consegna Parri. A Caserta, in Campania, Cadorna e Parri discutono con il Comando alleato in Italia le disposizioni per la resa dei nazifascisti, la difesa de gli impianti industriali del Nord, la situazione della Val d’Aosta. Ma la zona in cui la situazione sembra senza una via d’uscita è quella del confine orientale, essendo scoperte le mire annessionistiche di Tito, sostanzialmente condivise dai garibaldini della «Natisone».
I comunisti abbandonano il Cln per aderire al fronte sloveno, poi propongono un comitato esecutivo destinato ad assumere l’amministrazione di Trieste. La verità è che in questo settore sono in collisione gli interessi nazionali e la subordinazione a interessi ideologici molto evidenti, e «l’alleanza tra gli slavi e i garibaldini è un fatto reale» (Giorgio Bocca).
Lo sciopero «preinsurrezionale» del 28 marzo parte dalla Lombardia e si estende ad altre zone dell’Alta Italia. Il 5 aprile riprende l’avanzata degli alleati sul fronte tirrenico e su quello adriatico. Il 21 aprile Bologna è libera, il 23 gli alleati raggiungono il Po, il 24 il Clnai lancia l’appello all’insurrezione e quel giorno stesso Genova è vittoriosa sulle forze tedesche. Il 25 insorgono Milano e Torino.
«La mobilitazione della classe operaia e il convergere delle unità partigiane sui grandi centri sono i due momenti culminanti della battaglia insurrezionale» (Massimo Legnani). Mussolini, dopo un fallito tentativo con gli anglo-americani, cerca disperatamente i 25 aprile a Milano, in Vescovado, un accordo con il Cln. Ma questa strada gli è sbarrata. Egli allora abbandona Milano già insorta e si accoda ad una colonna tedesca diretta a Como. In fuga verso la Svizzera, Mussolini è riconosciuto, e in esecuzione della condanna a morte già emanata dal Clnai, è fucilato a Dongo. La resistenza, dopo 18 mesi di martirio e di lotta, si conclude. Pochi giorni dopo si arrenda la Germania e termina il secondo conflitto mondiale.
La resistenza fu popolare, unitaria pluralistica
La nostra resistenza ebbe un carattere unitario e insieme pluralistico. «Farne un blocco unitario significa porre un ostacolo insuperabile alla sua individuazione storica», ha ammonito Guido Quazza in un suo importante contributo: significa allontanarsi dal terreno della storia per collocarsi nella sfera del mito. Il movimento partigiano, ben lontano dal realizzarsi come monopolio esclusivo di una classe, come blocco appunto, trovò aderenti sostenitori in ogni ceto.
E in realtà la resistenza poté affermarsi come movimento di massa per il convergere di più fattori, tutti decisivi. Essi sono: il risveglio civile del mondo contadino, la massiccia presenza cattolica, la partecipazione attiva della donna al moto resistenziale, la lotta degli operai nei luoghi di lavoro, il «no» al nazifascismo degl’internati militari italiani nei lager nazisti.
La resistenza italiana ebbe l’appoggio del ceto contadino. Non mancarono, certo, malumori e isolati episodi di ostilità fra i partigiani e le popolazioni delle campagne. Non si capisce, però, la lotta partigiana senza la solidarietà operante e rischiosa dei contadini. I quali fecero di più, presero essi stessi le armi contro i nazifascisti. La partecipazione diretta dei contadini alla guerra partigiana è stato, secondo Gaetano Salvemini, «il fatto più importante della resistenza»: per la prima volta la gente di campagna rompeva con una tradizione reazionaria e antirisorgimentale. L’ingresso dei contadini nella storia del nostro «secondo risorgimento» divenne possibile e fecondo grazie alla partecipazione cattolica alla resistenza e al sostanziale appoggio che i sacerdoti diedero ai partigiani, che ai loro occhi erano, in un modo del tutto evidente, e addirittura fisico, dei perseguitati e quindi delle persone da proteggere e da aiutare. I cattolici italiani – e in primo luogo coloro che militavano nella Federazione universitaria cattolici italiani (Fuci) e nel Movimento laureati di Azione cattolica, da una parte, e dall’altra le élites operaie del sindacalismo cristiano e dell’antifascismo di origine popolare – giudicarono di non potersi tenere in disparte in una lotta che impegnava così drammaticamente la coscienza morale.
La resistenza italiana oltre la particolare organizzazione unitaria che seppe darsi, ebbe un altro carattere distintivo tutto suo: la lotta di grandi masse sui luoghi di lavoro. Nell’Italia del Nord, nelle sue città industriali e nelle campagne emiliane, cioè in un ambiente economicamente sviluppato, le forze della resistenza non avrebbero potuto concentrarsi tutte sui monti, abbandonando le fabbriche e gli altri luoghi di lavoro al nemico. Occorreva sostenere la lotta anche su posti di lavoro, facendo leva in primo luogo sul movimento operaio, e in modo speciale sulle «Squadre di azione patriottica» (Sap) e sui «Gruppi di azione patriottica» (Gap), forza ausiliaria dei partigiani. «In nessuno dei Paesi occupati dai nazisti, il movimento operaio ebbe un’importanza analoga all’Italia del Nord» (Giampiero Carocci). Va ascritto in massima parte alle Sap e ai Gap l’aver impedito ai tedeschi nel 1944 di asportare in Germania i macchinari delle fabbriche e nel 1945 di distruggerli, garantendo così una rapida ripresa in alcuni settori-chiave della economia nazionale all’indomani del 25 aprile.
Resistenza non solo nei territori occupati dai nazisti ma anche nei lager
Infine non va dimenticato che il primo eloquente referendum, con esisto plebiscitario in senso antifascista, fu per così dire tenuto proprio nei campi di internamento in Germania, nei lager tedeschi, in cui finì tanta parte di un esercito senza capi e senza un qualsiasi piano d’azione. La «non collaborazione» fu perseguita con fermezza dalla quasi totalità dei 650 mila prigionieri di cui solo l’uno per cento aderì al risorto fascismo della Repubblica di Salò. Piuttosto che servire il nazismo e i suoi complici, si preferì andare incontro alla fame, al freddo, alle pestilenze, a tutti gli orrori dei campi di concentramento, rinunciando all’agognata prospettiva del ritorno in patria. Il no dei deportati al nazifascismo fu atto che si rinnovò ogni giorno, vincendo la tentazione degli affetti e l’urlo dei bisogni più elementari ferocemente compressi. E dietro ognuno dei 650mila internati ci sono altrettante famiglie ostili all’oppressore e ai suoi sgherri, sì che la continuità tra la resistenza disarmata nei lager e quella armata in patria appare effettiva e ricca di conseguenze.
L’eredità della resistenza
La ricerca storica più spassionata ha accertato, insieme a tante luci, talune ombre. Si pensi, ad esempio, ad uno dei più amari episodi della guerra di liberazione: il 7.2.45, nelle malghe di Porzus, in Friuli, un intero commando delle divisioni Osoppo, le formazioni partigiane facenti capo alla Democrazia cristiana e al Partito d’azione, fu catturato e barbaramente passato per le armi, non dai nazifascisti, ma «da mano fraterna nemica», come si legge nel registro dei Caduti dell’Anpi di Udine, da un commando gappista di 100 garibaldini. Ma il giudizio su quel periodo tremendo ed eroico è già acquisito: esso fu la primavera della nostra patria ed ebbe un significato umano e nazionale altissimo. La resistenza fu una grande speranza per tutto quel complesso di programmi e orientamenti che accompagnarono la lotta armata. Certo si deve sceverare il grano dal loglio, i vagheggiamenti utopistici e le formule mitiche dai propositi concreti e dalle oggettive possibilità. Ma quella speranza non fu un vaneggiamento di illusi.
L’eredità della resistenza è attestata dall’avvento della Repubblica e dalla Costituzione: nell’aprile del 1945 la libertà fu riconquistata. La resistenza significò l’acquisizione da parte dei ceti popolari di quella patria che prima appariva loro estranea e nemica. Fu un bene che al centro delle elaborazioni politiche della resistenza fosse il problema di «quali dovevano essere le condizioni e le forme dell’esercizio popolare del potere in una società moderna» e che l’equazione tra democrazia e pluralismo sovrastasse ogni mistificazione totalitaria. Max Salvadori nell’«Avvertenza» alla sua Breve storia della Resistenza italiana (Vallecchi, Firenze 1947) scrive: «Oggi più che mai sono convinto che la peggiore delle trentasette o trentotto democrazie in cui vi è sufficiente libertà per agire al fine di avere meno oppressione, meno disuguaglianza, meno conformismo, è preferibile alla migliore delle cento e più dittature in cui vive il più dell’umanità e in cui, non essendosi libertà, non è possibile lottare né per l’uguaglianza, né per la giustizia».