Nel dibattito storiografico si sono succedute, e più spesso si sono intersecate, tre diverse posizioni sulla resistenza delle chiese cristiane al nazismo. C’è una linea apologetica che raccoglie notizie, documenti su quell’epoca e sui martiri della persecuzione, celebrando l’opera svolta dalle chiese cristiane, così altamente apprezzata all’indomani del conflitto. Di segno opposto è la corrente che polemicamente nega o svaluta l’apporto dei cattolici e dei protestanti alla resistenza antinazista.
Il dibattito storico.
L’affermarsi, per alcuni clamoroso, di quest’atteggiamento contestativo si spiega, almeno in parte, nell’Ovest per l’interferire nel dibattito storico delle battaglie politiche e ideologiche che si andavano combattendo e, nell’Est, per il tipo di dottrina e di propaganda della potenza dominante. Esiste pure, ed oggi appare ormai prevalente, una terza corrente caratterizzata da un giudizio più oggettivo, reso possibile sia dalla conoscenza di nuovi documenti che illuminano da più angolazioni l’intreccio reale dei rapporti tra stato e chiesa, sia dalla valorizzazione di quei gruppi e movimenti che operano in profondità, nella società civile, e che meglio attestano l’ampiezza della rivolta morale e religiosa dell’altra Germania a Hitler e al suo regime. In Italia il contributo più organico allo studio di quest’affascinante capitolo della resistenza europea rimane la Germania religiosa. Nel Terzo Reich di Mario Bendiscioli. La prima parte sugli anni 1933-1945 è opera di testimonianza oltre che di rigorosa ricerca; la seconda, di enorme rilevanza e attualità, riguarda il dibattito storiografico svoltosi nell’arco del trentennio 1946-1976. L’Editrice Morcelliana ha inoltre fatto conoscere nel nostro Paese tre grandi figure della resistenza tedesca al nazismo: Bernhard Lichtenberg, prevosto del Duomo di Berlino (Otto Ogiermann, Contro il nazismo un martire cristiano, 1974); Helmut James von Moltke, animatore del cosiddetto «Kreisauer Kreis», protestante unito nella lotta e nel martirio a tanti amici cattolici (Futuro e resistenza. Dalle lettere degli anni 1926-1945, 1985) e Friedrich Muckermann, gesuita, che ci ha lasciato una sobria, lucida testimonianza della battaglia combattuta ne La via tedesca, opportunamente riedita nel 1985. La via tedesca, scritta al concludersi d’una lotta eroica, nasce dall’intelligenza e dal cuore di un uomo in cui l’acuta diagnosi della crisi dell’anima contemporanea si accompagna, sin dal 1917, cioè dall’esperienza fatta della rivoluzione comunista, all’intuizione della forza perversa d’attrazione esercitata dal totalitarismo su masse disorientate, minacciate nei loro bisogni più elementari, ateizzate selvaggiamente e perciò, senza saperlo, alla ricerca di una religione secolare di ricambio. Lo scritto di Muckermann, vero classico della resistenza europea, soddisfa l’esigenza giusta presente in ognuno dei tre indirizzi storiografici. Vi è in esso una testimonianza di prima mano del più combattivo tra i movimenti di resistenza dei cattolici tedeschi al nazismo, quello che precedette ogni altro e operò ininterrottamente dal 1930 al 1945. Quelle pagine scarne ed infuocate non nascondono affatto, però, equivoci e illusioni, attendismi e collusioni che la storiografia celebrativa lascia accuratamente in ombra. Infine Muckermann fa emergere dai fatti narrati un giudizio valutativo d’insieme, che corregge ante litteram le unilateralità della storiografia radicale e anticipa le conclusioni a cui è pervenuta, negli ultimi lustri, la ricerca storica più documentata e meno inficiata da preoccupazioni giustificazionistiche o da denigrazioni sistematiche.
La difficile e inevitabile convivenza tra chiese cristiane e potere nazista in una nazione come la Germania – dove l’autoritarismo, il nazionalismo esclusivista e il primato del sociale avevano da sempre plasmato la vita politica e la mentalità del popolo – ingenerò prima di tutto all’interno delle stesse comunità religiose tensioni drammatiche (la più sconcertante, in campo protestante, è quella originata dall’adesione aperta al nazismo dei cosiddetti «tedesco-cristiani») o per lo meno posizioni differenziate, da cui si dipartivano poi scelte operative e atteggiamenti pratici che potevano apparire e persino essere divergenti.
La coscienza religiosa.
Le chiese vissero il dramma della nazione tedesca e della sua seduzione politica – il totalitarismo contemporaneo poggia sempre sul consenso delle masse – «fra tentazione e grazia» (zwischen Versuchung und Gnade), avendo di fronte un regime che sapeva collegare, mediante l’arte della menzogna, le pulsioni più basse di un popolo con le sue autentiche e legittime aspirazioni. La martellante propaganda nazista, i successi conseguiti dal regime in campo economico-sociale e poi in campo militare, il continuo ricatto nei confronti del lealismo politico a oltranza accrebbero le difficoltà con cui si cimentò la coscienza religiosa in Germania, sottoposta implacabilmente a un apparato repressivo, pari solo a quello instaurato in Russia dalla rivoluzione leninista, che spezzava col terrore di Stato ogni forma di dissenso. «Chi non ha vissuto – scrisse nel 1946 l’arcivescovo di Monaco, cardinale Michael von Faulhaber, nell’introdurre la raccolta di documenti dal titolo Croce e croce uncinata – la lotta delle idee dei due ultimi decenni sulla linea del fuoco solo con difficoltà può farsi un’idea della carica di menzogna e di odio con cui venne condotta la lotta contro le istituzioni ecclesiastiche dal movimento e dal partito nazista».
Soprattutto agli inizi dell’ascesa nazista al potere non mancarono errori di ottica, ingenuità e speranze illusorie, così come dieci anni prima in Italia, quando Mussolini si presentava come l’unico in grado di garantire l’uscita del paese dalla crisi e la normalizzazione nella legalità, nell’atto stesso in cui minacciava di scatenare le squadre armate contro chi gli osasse resistere. Tuttavia la Chiesa cattolica tedesca nel suo complesso affrontò la terribile prova con un senso di responsabilità ed una fermezza, con un altissimo costo di sofferenze e di sangue a cui ancora oggi non sempre si rende il riconoscimento dovuto. Obbligata a non disarmare e insieme ad agire con cautela, la chiesa cattolica non lasciò cadere nessuna possibilità – neppure quella del tanto discusso concordato del 20 luglio 1933, con tutti i rischi che esso comportava – per infrenare l’arbitrio della dittatura e per non abbandonare in balia d’un avversario così spietato milioni di credenti e di cittadini.
Un’implacabile persecuzione.
L’unità dei vescovi con Roma servì a preservare cattolici tedeschi da defezioni e manovre accerchiatrici. Chi legge le Lettere di Pio XIl ai vescovi tedeschi 1939-1944 (Città del Vaticano, 1966, pp. XXIV-453) tocca con mano la vitalità del cattolicesimo tedesco, attestata in primo luogo proprio dall’implacabile persecuzione, ed è aiutato a capire la personalità del mittente, che è, sì, un diplomatico che vuole giovare agli oppressi operando in silentio et spe, ma non cessa di difenderli a cospetto del governo nazista, con denunce circostanziate. Dai documenti Pio XII ci viene incontro con la delicata sollecitudine del pastore che non soltanto testimonia la solidarietà piena della chiesa universale e della sua stessa persona con i cattolici tedeschi, ma riconosce che la prova a cui era sottoposta la chiesa tedesca aveva un alto significato per tutto il cattolicesimo e per il futuro del cristianesimo. Roma sorresse la resistenza dei cattolici tedeschi e della loro chiesa.
Il calvario della deportazione.
Le prese di posizione antinaziste dei vescovi divennero pubbliche e sempre più energiche. Ebbe grande risonanza la denuncia del Cardinale von Galen contro la politica eugenetica nazista nel 1941, così come la dichiarazione dei vescovi renani del ‘42 contro gli arresti arbitrari, le uccisioni degl’innocenti, le continue violazioni dei diritti naturali di vita, libertà e proprietà. Con evidente riferimento al calvario deportati – e in particolare al genocidio di ebrei e polacchi – Pio XII nel messaggio natalizio del ‘42 richiamava l’attenzione del mondo sul crimine orrendo perpetrato a danno di «centinaia di migliaia di persone senza colpe personali, solo per le origini, condannate a morte o una lenta distruzione». Nell’agosto del ‘43 l’episcopato tedesco ricordava in una lettera pastorale che l’uccisione di ostaggi innocenti, di prigionieri di guerra disarmati era un crimine, un peccato di cui i cristiani non dovevano macchiarsi, «anche se l’assassinio veniva compiuto per comando dalle autorità costituite e con la pretesa che fosse richiesto dal bene comune». I vescovi tedeschi ammonivano inoltre che non si doveva odiare il nemico e invocavano apertamente amore e solidarietà effettiva «per quegli esseri umani innocenti che non sono del nostro sangue e non appartengono al nostro popolo, per coloro che sono costretti all’esilio». E dietro i vescovi c’era il popolo cristiano a condividere questi sentimenti, a opporre ogni giorno nelle forme più diverse, la loro coscienza alle disumanità erette a sistema di uno Stato senza diritto. Ci furono la resistenza passiva e la resistenza culturale, la condanna del totalitarismo per motivi etico religiosi e per motivi ideologici e politici, la cospirazione attiva. L’altra Germania è esistita e la sua resistenza è stata la più rischiosa, di gran lunga più difficile e rispetto a quella dei paesi occupati. L’altra Germania ha coinvolto nella resistenza al disumanesimo totalitario milioni di tedeschi (lo ribadisce energicamente Muckermann più volte), tanti «militi ignoti» della lunga lotta, e l’anima di quella resistenza furono le chiese cristiane, le sole capaci di suscitare intorno a quel movimento un’adesione popolare. Alla luce dei fatti, dell’enorme costo di sofferenze e di sangue del popolo cristiano, appare da ogni punto di vista ingiustificabile la pretesa di Carl Amery (pseudonimo di Christian Mayer). secondo cui gli eroi e i martiri delle chiese cristiane sono stati «di gran lunga non abbastanza».
Un inaudito massacro.
Né vale di più l’affermazione di Heinrich Böll (che si legge nello «Epilogo» al libro del Meyer-Amery, La capitolazione, Morcelliana, 1967) «la resistenza era una causa privata». Certamente si può e si deve parlare di una «resistenza ufficiale» da parte delle gerarchie ecclesiastiche e di una «resistenza profetica» delle pattuglie di avanguardia; le linee operative e le responsabilità erano diverse, ma uno stesso era il nemico e identici i principi morali e religiosi in nome dei quali si combatteva. Le due resistenze non solo erano solidali tra loro, ma si alimentarono a vicenda e spesso rifluirono l’una nell’altra. Assai diffusa, ma non meno inconsistente, è l’obiezione a cui ha dato voce, candidamente, anche una studiosa cattolica americana, Mother Mary Alice Gallin, la quale riconosce apertamente i grandi meriti dei leaders delle chiese cristiane, ma rimprovera loro di «non aver promosso un putsch da parte di forze anti-Hitler» (Ethical and Religious Factors in the German Resistance to Hitler, Washington: Catholic University of America Press, 1961). Coloro che non esitano ad accusare le chiese tedesche per la mancanza di una opposizione armata al nazismo dovrebbero innanzitutto avere una più chiara conoscenza del ruolo specifico di una confessione religiosa. Se poi l’obiezione è mossa al popolo tedesco in quanto tale, essa può avere un senso solo se la conoscenza esatta della situazione in cui è costretto ad operare chi vive da dissidente in uno stato totalitario autorizzi ad affermare la possibilità effettiva riuscita di una rivolta armata. Muckermann, dal canto suo, s’era posto il problema e valutava assurdo e ineseguibile un simile programma: «esso avrebbe condotto a un inaudito massacro Questa semplice riflessione è sfuggita a molti polemisti, i cui giudizi vorrebbero essere «duri» perché dettati da severa intransigenza morale, ma si rivelano, a un attento esame, solo infondati e qualche volta provocatori.
Voce del Popolo, 3 luglio 1987