Maurizio Faroni
Nel profilo che descrive il “Chi siamo” della Cooperativa Cattolico-Democratica di Cultura del sito istituzionale si richiamano i fondamenti valoriali dell’identità specificando, fra l’altro, che “l’aperta professione di fede morale e politica nella democrazia, nella costruzione di una società aperta, rende la Ccdc sempre libera da ogni dogmatismo o fanatismo politico, perché la democrazia ha bisogno prima di tutto di uomini capaci di senso critico e rettitudine morale.” Sono parole che fondano dall’inizio molte delle nostre iniziative, ma abbiamo sentito l’urgenza di promuovere questo incontro specifico perché nell’attuale contesto storico l’epressione “democrazia”, che sino a qualche tempo fa aveva una lettura univoca e si riferiva ad un’organizzazione della vita sociale basata sui principi liberal-democratici, ha mostrato una progressiva frammentazione. Ciò anche in relazione al fatto che molte autocrazie utilizzano alcuni degli strumenti formali della democrazia (ad esempio il suffragio universale) per legittimare le proprie posizioni di potere piuttosto che per verificare realmente il consenso e la capacità di partecipazione della gente ai processi decisionali. Vorrei, per prima cosa, chiedere quindi ai nostri relatori di ricostruire il percorso che ci ha portato fin qua. Dopo la caduta del muro di Berlino, molti davano per scontato che la democrazia avesse una sua naturale propagazione a livello globale; è sufficiente osservare la realtà contemporanea per concludere che non è stato così. Il 20% della popolazione mondiale fa parte di sistemi sociali qualificabili come “liberi”, il restante 80% vive in contesti politici con diversi gradi di restrizioni. Allo stesso tempo nella culla della democrazia occidentale abbiamo visto un progressivo deterioramento della qualità dell’offerta politica e della partecipazione. Questo è un tema che ci riguarda molto da vicino. In molte sue opere il professor Palano ha raccontato questa trasformazione del modello democratico: dalla democrazia dei partiti alla democrazia del pubblico, nella quale il consenso si forma intorno ai leader e gli aspetti comunicativi prevalgano su quelli dei contenuti, per arrivare – con questo libro che ha intitolato suggestivamente Bubble democracy – a mostrarci come oggi viviamo in una democrazia in cui gli elettori sono frammentati in gruppi di interesse autoreferenziali; quindi, con logiche di breve periodo e, fatalmente, con scarsa capacità di attrazione di tutti quei cittadini che non si sentono rappresentati in una delle bolle che concorre al consenso politico ed elettorale. Mi pare che vada di pari passo la consuetudine degli attori politici di cambiare continuamente posizione, con grande disinvoltura, anche su temi cruciali e identitari. Fatta questa premessa inizierei chiedendo al professor Palano di chiarirci come si è concretizzata nel tempo questa trasformazione del modello democratico e che incidenza ha avuto sul vivere civile attuale.
Damiano Palano
Vorrei fare una premessa. Che cosa intendiamo quando parliamo di democrazia? La democrazia è un ideale talmente ambizioso, che se lo confrontiamo con la realtà dei nostri sistemi politici, possiamo dire, quasi in qualsiasi momento della storia d’Italia, che non abbiamo sperimentato “realmente” una democrazia compiuta. Quando prendiamo in considerazione le difficoltà della democrazia contemporanea ci riferiamo, naturalmente, a quell’assetto che ha preso forma nelle società occidentali e nell’Europa occidentale dopo il 1945, ereditando una storia molto lunga, che è la sintesi di tanti aspetti variegati e non ha molto a che fare con ciò che i greci chiamavano democrazia, ma che riprende da quell’antico ideale solo alcuni elementi, combinandoli con altri principi e con istituzioni che hanno una storia un po’ diversa (il sistema rappresentativo, il principio liberale e quello della divisione dei poteri). Tutto questo ha assunto una stabilità in Europa dopo il 1945 a seguito della tragedia delle due guerre mondiali. Quando parliamo di democrazia ci riferiamo dunque a questa forma, ad una serie di istituzioni e ad un modo specifico di vivere la convivenza democratica. Quando la democrazia ha iniziato a dare dei segni di mutamento? Qui possiamo dare varie risposte. Nella nostra testa abbiamo delle date spartiacque, che organizzano il nostro modo di considerare il passato, una di queste è il 1989, il crollo del muro di Berlino. Altre date possono essere l’11 settembre, lo scoppio della crisi finanziaria del 2008, la pandemia. Tutto questo ha qualcosa a che vedere con le trasformazioni delle nostre democrazie. Per organizzare un po’ il discorso penso possano essere individuate quattro cause che si sono intrecciate e hanno accelerato gli eventi. Una prima causa culturale, che ha investito antropologicamente i cittadini occidentali e che precede di qualche anno la fine dei regimi socialisti. È l’effetto del successo della società dei consumi, della crescita economica post-bellica. È un fenomeno che inizia già ad affiorare negli anni 70 e che risulta visibile nelle sue conseguenze politiche a partire dagli anni 80. Quando, da un “eccesso” di partecipazione politica, si passa a qualcosa di radicalmente opposto, un allontanamento dalla politica alla crescita della disaffezione. In quel momento la sfiducia, in generale nei confronti della politica, inizia ad essere una protagonista che non scompare mai dalla scena dei nostri sistemi politici. Cresce nel tempo, ma inizia ad affiorare in quel momento. Questo evento alimenta la diminuzione di iscritti ai partiti politici. Se noi andiamo a confrontare i dati di oggi con quelli di quaranta anni fa abbiamo l’immediata percezione che qualcosa è cambiato; ma se andiamo anche a considerare la qualità della partecipazione alle organizzazioni politiche ci rendiamo conto che molto è cambiato. Possiamo dare la colpa alla classe politica ed ai partiti che non sono stati in grado di riformarsi, ma un dato che non possiamo di certo dimenticare è che tutto questo ha a che fare con un processo di individualizzazione, con la sfiducia che qualsiasi cittadino occidentale nutre nei confronti delle leadership di qualsiasi organizzazione. Elemento che è quasi antropologico e, in parte, spiega il cambiamento a cui sono sottoposte le nostre democrazie. Ma si aggiungono altre ragioni che sono cause concorrenti di questo fenomeno ed è difficile dire se ve ne siano di prevalenti. Una secondo elemento che non possiamo dimenticare è il grande mutamento geopolitico, che dopo il 1989 diventa eclatante, ma che inizia prima a maturare, e cioè la fine del bipolarismo, la fine della guerra fredda, la quale segna un cambiamento di clima e un mutamento in quelle che sono le esigenze delle leadership occidentali. Le priorità di tutte le democrazie occidentali si modificano perché il rischio di un conflitto viene meno. Una terza causa può essere individuata nella grande trasformazione economica che accompagna, non soltanto la trasformazione degli assetti produttivi, ma anche il cambiamento radicale delle economie dei paesi industrializzati avanzati, con il declino della classe operaia, del suo ruolo politico. La creazione di nuovi rapporti di potere, con la definizione di nuovi criteri operativi a cui le stesse autorità politiche devono uniformarsi. Una trasformazione che ha assunto tanti nomi, da rivoluzione liberale a neoliberismo, ed è stata inaugurata da Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Una trasformazione che cambia gli assetti economici e va a ridurre il peso che alcune logiche avevano in precedenza. Tutte queste cause procedono in gran parte in modo parallelo, ma probabilmente un momento in cui tutte queste tre dinamiche vanno ad intrecciarsi e in qualche misura ad esplodere è la crisi finanziaria globale. A partire dal 2008 lo scenario delle nostre democrazie e il loro cambiamento inizia a subire un’accelerazione radicale, perché da quel momento gli elettori insoddisfatti, che fino a quel momento si erano limitati a non andare a votare e a disertare le urne, iniziano a volgersi verso un nuovo tipo di attore politico, che abbiamo genericamente indicato come populista e che per tutto il decennio successivo andrà a cambiare radicalmente la grammatica della politica. Il populismo amplia la sfera di quello che si può dire e cambia la logica della competizione politica. Fino agli anni 90 il voto si conquistava al centro, temperando le proprie posizioni, cercando di apparire seri e responsabili agli occhi degli elettori più moderati, che sembravano poter decidere la competizione, ad un certo punto la logica diventa centrifuga e i leader politici iniziano ad utilizzare degli slogan e delle promesse, molto più radicali, che ovviamente cambiano molto la nostra democrazia. Ciò è legato all’insofferenza dell’elettorato nei confronti della classe politica, ma anche ad una trasformazione tecnologica e riguarda un oggetto tutto sommato piccolo, che ha avuto enormi implicazioni sulla vita di ciascuno di noi: l’ingresso dei telefoni cellulari di nuova generazione, per molti un oggetto da cui difficilmente ci si può separare, e che hanno cambiato profondamente il modo di informarsi, di socializzare e il modo di vivere e di partecipare alla politica. Questo è un elemento senza il quale la polarizzazione contemporanea, cioè la nascita di leader politici che riescono a conquistare consensi non guardando al centro, ma spostando la competizione politica verso l’estremità, non sarebbe esistito. Tutto questo ci presenta un quadro da un certo punto di vista allarmante, perché tutti questi elementi non sono destinati ad abbandonarci, ma sono qualcosa che possiamo considerare come strutturale. Condizioni strutturali con le quali dobbiamo convivere e dinanzi alle quali dobbiamo forse trovare strumenti nuovi con cui poter rispondere alle novità.
Ferruccio De Bortoli
Noi eravamo convinti che dopo la caduta del muro di Berlino il sistema capitalisticodi mercato, e quindi anche la democrazia, avrebbe avuto una diffusione planetaria. Quello che è successo all’est e in particolare in Russia, smentisce l’idea che aprire i mercati porti inevitabilmente con sé istituzioni di carattere democratico. L’errore che fu compiuto al momento della caduta del muro di Berlino fu quello di credere che aprendo i mercati, inevitabilmente, istituzioni democratiche avrebbero seguito la liberalizzazione dei commerci. Questo non è accaduto e questo a mio modestissimo avviso è stato il più grande abbaglio dell’occidente. La forma capitalistica non porta inevitabilmente con sé forme democratiche. Tant’è vero che la globalizzazione è stata la vittoria dei regimi, non è stata la vittoria delle democrazie. Nel 2003, quando si decise una sciagurata guerra contro l’Iraq, si disse che avremmo esportato la democrazia in quei paesi e qualcuno si illuse addirittura che le truppe americane sarebbero state accolte come vennero accolte a Roma nel 1944. Oggi c’è qualcuno che parla di esportazione della democrazia? No, ed è passato poco più di un ventennio. La costatazione che dobbiamo fare, e che spesso non facciamo purtroppo, è che le democrazie sono una minoranza in ritirata. Lei prima citava che il 20% della popolazione mondiale vive in sistemi democratici o presunti tali: questa percentuale era intorno al 3% all’inizio del 900, arrivò quasi al 50% nell’immediato dopoguerra, gli anni del miracolo economico, anche per ragioni demografiche (negli anni 50 l’Italia era una potenza demografica, aveva più abitanti della Nigeria). Oggi le democrazie sono in minoranza, ma anche il sistema occidentale è una minoranza della globalità; solo che ritiene di non esserlo. Questo è il tema di fondo. Noi abbiamo l’idea di occupare il centro, ma non occupiamo più il centro: quando si riuniscono i sette paesi più grandi del mondo sono tutte democrazie, quando si riunisce il G20 la maggioranza sono regimi autoritari o comunque nei quali non prevale un sistema democratico con la divisione dei poteri. È curioso che i leader autoritari abbiano un grande successo popolare nei regimi democratici. A me colpisce moltissimo che la figura di Putin sia una figura mediamente apprezzata dall’estrema destra e dall’estrema sinistra, secondo percentuali diverse. Durante la pandemia abbiamo addirittura passato dei momenti in cui ritenevamo che i regimi autoritari fossero più forti e bravi nello sconfiggere una malattia e, quindi, che, tutto sommato, tutelassero di più la salute pubblica. La realtà poi ha smentito ciò, perché l’Europa democratica è stata in grado, di fronte ad una crisi così grave, di dare una risposta certamente positiva. E la risposta non poteva che essere una risposta dell’Europa intera; ogni paese singolarmente non ce l’avrebbe fatta, nemmeno il paese più forte qul’è la Germania. L’altro aspetto che volevo sottolineare è che con la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda, nei sistemi democratici, è finita anche una politica governata dai partiti storici, dalle ideologie e che quindi esprimeva sostanzialmente dei recinti all’interno dei quali il voto aveva una scarsissima mobilità. Se voi guardate nei principali paesi democratici, anche europei, vedrete che la volatilità dei partiti nuovi o vecchi è elevatissima, volatilità che prima non c’era; abbiamo vissuto un periodo lunghissimo di stabilità, una sorta di democrazia bloccata, che cambiava governi ogni anno, ma sostanzialmente erano sempre gli stessi. C’è una maggiore volatilità del voto, ma nello stesso tempo c’è una sensazione diffusa di inutilità del voto stesso. Questo è dovuto anche al fatto che alcuni poteri sono stati devoluti a livello europeo e all’idea, che di fronte alle forze della globalizzazione, il voto di un singolo paese fosse del tutto inutile. Questa condizione poi ha fatto crescere l’idea che i mercati governino le democrazie ed esistano multinazionali che hanno ricchezze e poteri superiori allo stato. Ciò ha reso meno forti gli stati e ha un po’ diluito il valore singolo del voto e infatti la partecipazione al voto è scesa ovunque. Nel 1979 quando andammo per la prima volta al voto delle europee, votammo in Italia all’84%, adesso, se superiamo il 50% nel prossimo giugno possiamo ritenerci soddisfatti. Qui c’è un problema che vorrei sottoporvi: nella nostra costituzione c’è il diritto di voto, ma anche un dovere di voto; infatti fino a pochi anni fa, l’astensione dal voto veniva sanzionata, seppur in via amministrativa. La mia provocazione è questa: io penso che ad un certo momento dovremmo smettere di considerare che la gente voti astenendosi; la gente che vota astenendosi va contro la società, perché secondo me la libertà di disinteressarsi del bene comune è comunque qualcosa che non può essere apprezzabile. Penso che le democrazie qualche ragionamento di questo tipo lo debbano fare. Non è una tua libertà, è anche un tuo dovere quello di occuparti del bene pubblico, di informarti, di esprimere la tua opinione. Capisco che la mia è una provocazione, ma è un discorso che prima o poi bisognerà fare, perché quello che noi stiamo vedendo è una perdita di peso dell’importanza dei diritti e delle libertà che una democrazia porta con sé e che dobbiamo porci il problema di difendere in qualche modo. La mia ultima considerazione è che noi stiamo perdendo la memoria dei sacrifici che sono stati fatti, delle vite che sono state perdute, per ottenere la libertà, l’indipendenza, un sistema democratico. Dobbiamo combattere con l’arma dell’educazione civica, con la formazione consapevole, dobbiamo combattere per evitare si diffonda nella nostra società la convinzione che il diritto di voto, la libertà di espressione, la divisione dei poteri, siano qualcosa di acquisito per sempre, perché non lo è. Chi perde la memoria, non dà più valore ai diritti che sono stati conquistati. C’è un tema di memoria, di educazione civica e di informazione consapevole.
Maurizio Faroni
Dopo questa ricca analisi “diagnostica” vorrei ora stimolarvi sulla identificazione della “terapia”, partendo dalle nostre democrazie occidentali e poi cercando di dare uno aguardo anche ai temi globali. Vorrei anzitutto chiedervi: come possiamo rianimare una passione civile che sembra smarrita, anche attraverso una riforma dei modi in cui oggi gestiamo i processi politici nelle democrazie occidentali? E contemporaneamente come giudicate quel punto di vista che si vede spesso affermato all’interno del dibattito politico, è cioè che se in una determinata fase elettorale, anche passata, ho avuto la maggioranza del consenso, questo mi legittima a fare quello che voglio, prescindendo dall’opinione delle minoranze e soprattutto dalla necessità anche solo di argomentare per quale motivo si vuole andare in una certa direzione. Io questo lo trovo veramente insopportabile, ma è un comportamento molto praticato. Quali potrebbero essere allora gli interventi che ci possono portare a rianimare queste democrazie un po’ affaticate?
Damiano Palano
In questo caso il mio discorso è molto centrato sull’Italia, perché è più difficile fare un discorso generale, anche se alcuni punti vanno oltre il nostro paese. Il caso italiano è particolarmente eclatante per la difficoltà che abbiamo sperimentato nell’adottare una serie di riforme istituzionali, che riescano a contemperare il principio della divisione dei poteri; di conseguenza, abbiamo per lo più assistito allo svuotamento dei poteri del Parlamento. Il Parlamento si limita, sostanzialmente, a dare la fiducia ai governi o a sfiduciarli, ma poi la gran parte dell’attività legislativa è in capo agli esecutivi e questo rappresenta un po’ una risposta alla forte personalizzazione della politica; è un’esigenza di cui è difficile non tener conto, ma dall’altra parte ha sicuramente squilibrato gran parte del gioco politico. L’assenza di riforme istituzionali ha lasciato correre in direzioni che non sono state di fatto regolamentate. Io non sono sicuro che la riforma di cui si discute in questo momento sia in grado di risolvere il problema in modo adeguato; questo rimane un problema a cui bisogna in qualche modo rispondere e che non è solo legato alla stabilità e durata degli esecutivi. Riguarda piuttosto la definizione del ruolo dei diversi organi. Il caso italiano penso dimostria in maniera eclatante la scarsa qualità della classe politica, quali siano le motivazioni non lo so dire esattamente; non è una soltanto, possiamo dire che la classe politica è la fotografia di un paese che si è modificato, se siamo pessimisti. Qualcosa di tutto questo ha a che vedere con la trasformazione dei partiti, con l’incapacità dei partiti di formare una classe politica. Il reclutamento oggi avviene per meccanismi in gran parte informali, che privilegiano le cordate che sono più vicine, più fedeli al leader di turno. Il problema è quindi come si riformano i partiti: i partiti non sono stati in grado di autoriformarsi e questo è un segno della loro scarsa salute. Io penso che un punto da affrontare sia quello legato al finanziamento pubblico dei partiti, tema che in Italia è stato abbandonato, come quello relativo all’organizzazione interna degli stessi. Di fatto disattendendo un’indicazione che era prevista nella Costituzione. L’idea di reintrodurre forme di finanziamento pubblico, legate alla democraticità interna dei partiti, penso che potrebbe essere un modo per rivitalizzare, almeno in parte, i meccanismi partecipativi. Il problema più grande con cui tutte le democrazie occidentali devono fare i conti è però legato alla scarsa attitudine dei cittadini a partecipare, in generale, alla vita politica, alla vita civica. Questo non riguarda soltanto i partiti, ma riguarda in generale la vita organizzata, a cominciare dalla propria città. Come si può incentivare la partecipazione è un tema di cui si discute da tanto, senza trovare una soluzione. De Tocqueville diceva che il successo dell’esperimento amricano non andva cercato nella forma dei partiti politici, che già allora mostravano dei limiti, ma nel grande spirito associazionistico che spingeva gli americania ad associarsi per qualsiasi aspetto della vita sociale e culturale. È probabilmente qualcosa di questo tipo il tessuto sul quale si possono fondare istituzioni democratiche solide. Come si può quindi incentivare la partecipazione dei cittadini è un tema su cui gli stessi studiosi si confrontano da tempo senza trovare una chiara soluzione. Io rimango convinto che la dimensione locale sia la dimensione da cui partire. Noi pensiamo che i problemi della democrazia si risolvano con delle riforme che cambiano i meccanismi con cui si decide chi governa, ma dovremmo iniziare a chiederci come si può incentivare la partecipazione dei cittadini alle decisioni che riguardano anche le cose più semplici della vita collettiva. È così che si costruisce un tessuto sociale che è in grado di rappresentare un anticorpo nei confronti di tentazioni autoritarie, presenti anche oggi nell’opinione pubblica. Molti di noi, piuttosto che uscire la sera a partecipare ad un incontro pubblico in cui si discute del bene comune, preferisce tutta una serie di opzioni più o meno sterminate, che lo tengono a casa o lo portano in situazioni più divertenti. La democrazia si è invece sempre basata su un tipo di partecipazione di questo genere, tutti gli esperimenti democratici della storia hanno avuto questo come riferimento e dobbiamo prenderne atto. Oscar Wilde, con uno dei suoi famosi aforismi, parlando del socialismo, diceva che il socialismo sarebbe una bella cosa, però richiederebbe troppe serate e non sarebbe troppo divertente.In effetti anche la democrazia richiede molte serate e molto impegno e questo è qualcosa di cui forse non siamo del tutto consapevoli, ma questo ci dice ancora una volta che la democrazia è un insieme di diritti, ma non può che essere anche una serie di doveri a cui tenere fede.
Ferruccio De Bortoli
Sottoscrivo quello che ha detto il professor. Palano e aggiungo che, una democrazia si salva se ha un’opinione pubblica avvertita e responsabile. Se si caratterizza per un insieme di “curve dei tifosi” l’esito è già scritto. Purtroppo, devo dire, che un certo tipo di diffusione dei social network con l’esasperata dimensione dell’anonimato nella dimensione digitale presentano chiare criticità. Nel difendere il prinicipio l’anonimato è sempre stato considerato come una forma che assicurava il diritto di espressione alla parte più debole, che attraverso forme anonime, poteva criticare il potere. Io sono convinto che l’anonimato nei social network sia invece una malattia senile della democrazia digitale e che non sia accettabile che, attraverso l’anonimato, anche forze straniere, non democratiche, possano incidere profondamente sulla qualità del dibattito democratico, che poi porta alle scelte dell’opinione pubblica. Giovanni Sartori, il più grande politologo italiano, diceva che l’opinione pubblica è l’architrave di un sistema democratico. Purtroppo, nel nostro paese, l’informazione è considerata, spesso anche dalle classi dirigenti, in modo trasversale, una sorta di male necessario, anche da parte della borghesia più illuminata. Pesa il fatto di essere costretti a rendere conto, la fatica di essere trasparenti. Si pensa: “ma se l’informazione fosse meno aggressiva, parlasse meno di quel problema, probabilmente ci consentirebbe di risolverlo” – si pensa non di rado. Guardate, noi discutiamo spesso e giustamente sui costi di un eccesso di informazione e di una cattiva informazione, e questi costi ci sono; ma non ragioniamo mai sui costi della non informazione. Laddove non c’è trasparenza, non c’è riconoscimento del merito, non c’è mercato, non c’è concorrenza, c’è sopraffazione, c’è nepotismo e poi si arriva alla criminalità: di questi costi non parliamo mai. Anzi, da parte del potere nelle sue varie espressioni c’è stata, sempre e comunque, l’ansia di controllare le notizie e rendere l’informazione la prosecuzione della comunicazione del potere e del governo, o la prosecuzione della comunicazione dell’impresa e del mondo economico. Così una democrazia muore; una dimostrazione l’abbiamo nella democrazia americana, nella quale l’informazione è diventata ormai parte del dibattito politico. Se le opinioni sono così distanti, non c’è più un incontro, non c’è moderazione, è chiaro che l’informazione che va alla ricerca del proprio pubblico diventa polarizzata, mentre dovrebbe favorire l’incontro di persone che la pensano in maniera diversa, ma si ascoltano l’una con l’altra. Purtroppo, non si ascoltano più e questa semplificazione eccessiva è enfatizzata nel mondo digitale dell’informazione, che porta i contendenti politici ad essere il più radicali possibili, perché soltanto in questo modo riusciranno ad emergere, a farsi ascoltare e poi a farsi votare. I colori pastello sono completamente finiti. Se pensiamo alle “alchimie” della prima Repubblica, della quale forse per ragioni anagrafiche comincio ad avere una certa nostalgia – senza ignorarne tutti i suoi difetti naturalmente, c’era l’incontro fra ideologie diverse, contrapposte, che sapevano però dialogare forse perché avevano un terreno culturale comune e quindi sapevano trovare forme di incontro. Qui siamo in un ambito cattolico e penso di poter dire che il declino del cristianesimo porti con sé anche il declino delle democrazie. Un’altra cosa che vorrei sottolineare è che una democrazia si salva se c’è anche un’etica pubblica, che è contornata da un’informazione consapevole, attenta e responsabile. Il consenso non è legittimità di fare tutto ciò che si vuole, mentre purtroppo la polarizzazione del dibattito democratico porta a dire: “mi hai votato e quindi faccio quello che voglio”. Qual è la dimostrazione di questa tendenza? Si cita la costituzione dicendo che la sovranità appartiene al popolo, ma non si cita la seconda parte ovvero, che lo esercita nei limiti e nelle forme previste dalla costituzione: “limiti e forme”, perché sennò a questo punto io sono legittimato ad occupare le istituzioni solo perché mi avete votato io faccio quindi tutto quello che voglio. Un altro aspetto è l’intolleranza nei confronti delle authority, delle istituzioni terze, le istituzioni di garanzia che esistono in ogni democrazia e senza le quali il declino è assicurato. Noi abbiamo avuto una costituzione che voleva essere più rappresentativa possibile, perché si usciva da una dittatura;, oggi ovviamente si tende a preferire la stabilità di governo, ma se la stabilità di governo è con l’elezione diretta del premier, e quando non ci sono stanze di compensazione, è chiaro che il consenso lo posso raggiungere promettendo quello che non posso mantenere. Se sono onesto nelle mie promesse non mi vota più nessuno. Vorrei quindi concludere questo mio intervento con qualche considerazione relativa alla malattia del semplicismo, che si accompagna al diffondersi di formule populiste. Il populismo è una risposta sbagliata a domande legittime della gente. La risposta non solo è sbagliata, ma porta, grazie anche alla diffusione di una personalizzazione della politica e all’espressione radicalizzata, che è propria del mondo digitale, a quel semplicismo che ti fa credere che esistano soluzioni semplici per problemi complessi. Purtroppo, soluzioni semplici per problemi complessi non ci sono. Confondere le idee al pubblico, che pensa che esistano delle scorciatoie, per prendere i voti sulle scorciatoie, è la strada che porta all’inferno della democrazia. Ecco però, volendo chiudere con una nota positiva, io trovo che se guardiamo al capitale sociale del nostro paese costituito dalle comunità, vediamo che le comunità, come le famiglie, sono più responsabili dello stato e sono molto più prudenti e attente. Noi consideriamo lo stato come qualcosa che non ci appartiene, però la forza delle comunità rimane un elemento positivo.
Maurizio Faroni
Vorrei ora riprendere tema dei processi di globalizzazione: l’economia viaggia oggi a ritmi molto più rapidi della politica e delle istituzioni. Si pensi solo al fatto che i sette maggiori gruppi quotati a livello mondiale (da Apple a Microsoft e Meta, da Google ad Amazon, da Tesla a Ndivia) – tutti in modo diverso dominanti nel mondo delle tecnologie – capitalizzano complessivamente oltre 13 mila miliardi di dollari, circa 17 volte il complesso delle società quotate italiane dopo il rally dell’ultimo biennio e 6 volte il Pil italiano. Io penso che la globalizzazione abbia portato anche tanti benefici alla crescita economica, quindi alla sottrazione di grandi masse dalla condizione di povertà, ma personalmente credo anche che ci sia un grande tema di democrazia economica insieme a quello della democrazia politica, in particolare attraverso una fattuale rinuncia ad uno dei principi delle grandi democrazie occidentali, ovvero quello del presidio antimonopolistico.
Ferruccio De Bortoli
Lei ha giustamente sottolineato che esistono dei poteri economici che sfuggono totalmente alla statualità e alla tassazione. C’è sempre stato un prinicpio costitutivo delle democrazie che recitava: “No taxation without rappresentation”, a dire che se non paghi le tasse non hai diritto di essere rappresentato. Qui abbiamo invece l’eccesso opposto di grandi gruppi multinazionali, che capitalizzano, come lei ha ricordato, e che hanno una rappresentatività illimitata, senza pagare nessuna tassa nei paesi in cui fanno degli affari. Anzi, arriviamo al paradosso che gli stati fanno la corte a questi poteri, perché da questi poteri ricevono una sorta di legittimazione e una sorta di riconoscimento del fatto di essere proiettati verso il futuro, verso l’innovazione digitale. Esattamente l’opposto di quello che accadeva con le “multinazionali sporche e cattive” negli anni 60/80, con le quali nessuno voleva avere niente a che fare. In questo caso invece è come se il fatto che arriva a Roma Elon Musk sia sostanzialmente il riconoscimento, da parte di un “potere non democratico”, del fatto che un potere democratico è inserito nella modernità ed è attento all’innovazione. Questo è veramente curioso. Tra l’altro qui c’è un aspetto che riguarda anche il futuro dell’Unione Europea, che è basata, come potete immaginare, sul fatto che il mercato unico è tale perché c’è concorrenza. Oggi ci stiamo accorgendo che troppa concorrenza ci indebolisce. Gli Americani dicono: “Competition is for losers”. Tutti questi signori qui sono dei monopolisti; l’antitrust non c’è più e la stessa Europa quando si trova in questi frangenti, dove deve riflettere sull’allargamento del mercato unico, sull’ampliamente delle regole, si interroga se non sia il caso di avere meno concorrenza e più concentrazione, perché gli interessi degli europei non si fanno se gli europei non hanno dei giganti che possono fare massicci investimenti. La capitalizzazione del Nasdaq, cioè della sola borsa tecnologica americana equivale alla capitalizzazione di tutte le borse europee più la metà. Tutto questo è un cambiamento rispetto alle basi fondanti dell’Unione Europea, la competizione si farà tra giganti, con una concentrazione molto forte, ma questo porterà ad un potere che il potere statale non sarà più in grado di controllare.
Damiano Palano
Aggiungo una piccola suggestione. La situazione che abbiamo di fronte oggi è il risultato di quella stessa globalizzazione, dell’apertura dei mercati, che si confidava avrebbe condotto, non solo all’espansione della democrazia nel mondo, ma anche ad una crescita del benessere. La crescita del benessere sicuramente c’è stata, soprattutto nelle aree extra-europee rispetto a quelle occidentali che – in termini ovviamente relativi – si trovano un po’ “meno ricche” rispetto al passato. L’idea che, l’assenza di regolazione del mercato, dovesse comunque essere la via obbligata per raggiungere questo risultato è un po’ il perno su cui si fondava l’idea di un ordine liberale, internazionale, e in grado di espandersi nel mondo. Forse quella stagione si è conclusa e, da un certo punto di vista, negli ultimi anni anche le decisioni che hanno preso i leader europei, ma anche gli Stati Uniti, indicano che c’è un cambiamento di rotta. La pandemia e lo scoppio della guerra russo-ucraina hanno messo in luce la vulnerabilità dei paesi occidentali, la dipendenza per alcuni aspetti cruciali dall’estero, con aree politiche con cui un giorno potremmo essere addirittura in guerra. Il mutamento del quadro generale potrebbe ridefinire i rapporti tra stato e mercatodei prossimi decenni. Non è una “previsione positiva”, ma una valutazione legata al fatto che la “possibilità” di una guerra, di un conflitto armato, diventerà una priorità, per tutti i paesi europei e i paesi occidentali. Questo non significa naturalmente la concreta realtà di una guerra, ma significa che questa possibilità dovrà essere presa in considerazione e dunque l’idea che ci siano degli operatori stranieri, ad esempio cinesi, che hanno la libertà di investire e di operare in Europa, in settori cruciali, legati anche alle telecomunicazioni, probabilmente subirà delle limitazioni. Questo non penso ridimensionerà il potere dei grandi giganti economici, però probabilmente produrrà all’interno dei singoli blocchi un ulteriore spinta alla concentrazione, e forse anche l’introduzione di limiti politici più stringenti, forse anche per quanto concerne l’imposizione fiscale. Questa è un’ipotesi. Spesso le guerre ed i mutamenti del quadro internazionlae hanno fatto da acceleratori di alcune tendenze; non so se ce lo dobbiamo augurare naturalmente ma è una possibilità che dobbiamo considerare e con cui fare i conti.
Maurizio Faroni
L’ultima domanda che desideravo farvi è legata alla stringente attualità. Quest’anno circa due miliardi di persone andranno agli appuntamenti elettorali, in 70 paesi molto diversi tra di loro, con realtà molto diverse in termini di natura dei sistemi politici, di modelli istituzionali e di libertà nell’esercizio del voto. Certamente abbiamo due appuntamenti elettorali, al di qua e al di là dell’Atlantico, che potrebbero cambiare il percorso di tutte le urgenze e le emergenze che stiamo affrontando nel mondo. Volevo chiudere con una vostra considerazione su cosa ci possiamo attendere dopo queste elezioni.
Damiano Palano
L’appuntamento che deciderà parecchio, più delle elezioni europee, è quello di novembre, che deciderà chi sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti. Questa scelta potrà chiarirci quale direzione prenderà il mondo, anche se io non sono oggi in grado di dirvelo. Se vincesse Donald Trump ci sarebbe una virata piuttosto netta, perché Trump arriverebbe molto più preparato a quel traguardo rispetto alla precedente esperienza, e probabilmente la politica estera americana cambierebbe sensibilmente. Lo scenario dei conflitti si ridefinirebbe abbastanza rapidamente, magari conducendo ad una pacificazione abbastanza rapida sul fronte russo-ucraino, ma con una serie di ulteriori conseguenze, che in ogni caso non ci porterebbero verso un clima molto più pacifico. Secondo i dati raccolti da Freedom house, che è una delle tante organizzazioni che si occupa di misurare la diffusione della libertà nel mondo, per il diciottesimo anno consecutivo, la libertà nel mondo e le condizioni di democraticità avrebbero fatto segnare un peggioramento. Questi dati sono un po’ allarmistici e vanno presi un po’ con le pinze. Un elemento rilevante che incide sul fatto che si registri solo il 20% della popolazione mondaiale che vive in stati liberi è dovuto al fatto che,, negli ultimi sette otto anni, l’India ha subito una svolta in senso nazionalistico, con un forte ridimensionamento dei diritti delle minoranze. Sono quindi dati che vanno presi con cautela ma sicuramente la spinta nazionalistica sarà qualcosa che ci accompagnerà nei prossimi anni, soprattutto nelle aree extra-europee. Da un certo punto di vista, anche in quelle europee. Questo è un elemento rilevante e non molto tranquillizzante. Io penso che, al di là di questo, l’errore di noi che viviamo in società democratiche avanzate, sia quello di considerare il nostro futuro come segnato da una nuova guerra fredda, in cui le democrazie dovranno combattere contro un mondo non democratico. Dovremo, invece, imparare a convivere con potenze che non sono democratiche, evitando il più possibile di riprodurre un conflitto ideologico, che inevitabilmente ci vedrebbe in una posizione minoritaria, in un mondo così popolato da potenze extraeuropee, con un enorme potenziale demografico e di crescita economia nel futuro. Dovremo imparare a convivere con un mondo che non è democratico come vorremmo, che ha valori politici anche distanti dai nostri, sapendo distinguere fra vari tipi di interlocutori e imparando a convivere con modalità di concepire la democrazia molto diverse da quelle occidentali. Non è naturalmente una cosa facile, perché non siamo abituati a farlo da almeno cinque secoli.
Ferrucci De Bertoli
Finisco con un aneddoto che può essere significativo. Secondo l’indagine della qualità sui sistemi democratici fatta dall’Economist, il nostro paese non è una democrazia compiuta, ma lo è la Svizzera. Ho partecipato a un dibattito in quel paese nel quale appunto si sottolineava questo aspetto; ho chiesto allora: “quando è stato dato in Svizzera il diritto di voto alle donne?” La risposta è nel 1971, mentre in Italia nel 1946, quindi forse qualche passo avanti prima di loro lo abbiamo fatto anche noi. Pensando però al modello svizzero ci siamo chiesti: “È giusto chiamare al voto, su tutto, i cittadini?” Si pensi addirittura che la Svizzera ha ancora due Cantoni (Clarona e Appenzell) nei quali non c’è il consiglio comunale, ma c’è l’assemblea comunale, cioè per decidere che cosa deve fare il comune, non c’è il consiglio comunale, ma c’è l’assemblea di tutti i cittadini. Anche se, quando ho chiesto se la partecipazione fosse veramente estesa mi è stato risposto che coincideva solo con i temi della tassazione. Ma anche in un sistema come quello svizzero, che io trovo straordinario, la preoccupazione è che i giovani non votano più, i giovani non ci credono più. I giovani si lamentano che vengono chiamati a votare su questioni relativamente piccole, come per esempio sui sentieri di montagna, ma sui grandi temi che riguardano la transizione energetica non vengono chiamati. Tra l’altro, proprio oggi, c’è un procedimento della corte dei diritti umani, perché per la prima volta, proprio i giovani svizzeri (e questo è frutto della sensibilità civica svizzera) contestano che il fatto che il clima peggiori incide sui diritti umani. Prima volta che viene fatta un’equivalenza di questo tipo. L’importante allora, per tutti, è che esista questa coscienza civica, questa etica pubblica, questo senso del fatto che partecipiamo a qualcosa che riguarda il bene di tutti. Purtroppo, in questi anni, l’idea di bene pubblico è passata come la sommatoria degli interessi privati, ma non è così.
Nota: Trascrizione, non rivista dagli Autori, della conferenza tenuta a Brescia il 9.4.2024 con Ferruccio De Bortoli (giornalista) e Damiano Palano (professore di filosofia politica, direttore del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università Cattolica), sollecitati da Maurizio Faroni, Vicepresidente della Ccdc