Giornale di Brescia, 8 febbraio 2002
Nelle pagine conclusive della sua monumentale Storia di Roma, Theodor Mommsen scriveva: “Agostino è il più moderno degli antichi, perché ha risentito di meno delle limitazioni proprie della sua epoca”. Certo non in tutto si può e si deve essere con Agostino, perché anche il genio è un faro e non un termine, non blocca il cammino dell’umanità ma lo illumina; ma chi potrebbe fare a meno dell’apporto filosofico, teologico, psicologico, mistico del grande africano? Lo Harnack, a sua volta, ha osservato felicemente: “Nelle pagine di Agostino ciò che si offre a noi, nel suo stile inimitabile, è lui stesso, è una persona vivente; e tuttavia il lettore capisce che l’umanità di Agostino è di gran lunga superiore ai suoi stessi scritti”. Anche sulle vette più pure della speculazione (si pensi alle indagini sul problema del male, sulla memoria e sul tempo, all’arditezza critica e all’inventiva di tante pagine delle Confessioni, del De Trinitate o del De civitate Dei), il lettore attento riconosce in Agostino il genio che abita nel cuore dell’umano.
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Ciò che colpisce di più nella personalità dell’africano è forse quel “dono di universale simpatia” (G. Bardy) che egli possiede in grado eminente, sicché Agostino sa comprendere chi gli è vicino con una larghezza di cuore tale da permettergli di raggiungere la loro vita più intima. Di qui la sua straordinaria capacità di avvertire la bellezza, l’incanto, la libertà che caratterizzano ogni vera amicizia. Agostino fu, infatti, quello che i greci chiamavano mastropós, cioè un grande suscitatore di amicizia.
Nel libro IV delle Confessioni, dopo aver rievocato la morte di un carissimo compagno, Agostino delinea in una pagina indimenticabile l’identikit di ogni autentica amicizia. Eccone la parte conclusiva: “I colloqui, le risa in compagnia, lo scambio di cortesie affettuose, le comuni letture di libri ameni; i comuni passatempi ora frivoli, ora decorosi; i dissensi occasionali, senza rancore, come di ogni uomo con se stesso, e i più frequenti consensi, insaporiti dai medesimi, rarissimi dissensi; l’essere ognuno dell’altro ora maestro, ora discepolo; la nostalgia impaziente di chi è lontano, le accoglienze festose di chi ritorna: questi e altri simili segni di cuori innamorati l’uno dell’altro, espressi dalla bocca, dalla lingua, dagli occhi e da mille gesti gradevolissimi accendevano come scintille le anime e di molte ne facevano una sola (IV, 8, 13). Questo è quello che si ama negli amici e si ama al punto che la nostra coscienza si sente colpevole, se non risponde sempre con amore ad amore, null’altro chiedendo all’essere amato che prove di affetto” (IV, 9, 14).
Ovunque vada, Agostino è in breve tempo raggiunto dagli amici: a Cartagine, a Roma, a Milano e poi di nuovo in Africa, a Tagaste e a Ippona. Agostino non è mai solo: nel momento della decisione suprema della conversione egli è nel giardino della casa dell’ex allievo e carissimo amico Alipio, che è lì in silenzio, poco distante. La preparazione al battesimo, a Cassiciàco, si svolge nella villa messa a sua disposizione da un amico, e lì Agostino prega e scrive, discutendo con giovani amici ed ex discepoli, nonché con la madre Monica e il figlio Adeodato. Una volta sacerdote e vescovo, Agostino precede di oltre un secolo il nostro san Benedetto e inaugura l’amicizia cenobitica, cioè la convivenza con i fratelli direttamente impegnati al servizio di Dio e del popolo. A dirla francamente per Agostino “non vi è al mondo nulla di gradito senza la presenza di una persona amica” (Lettera 130). Di più: egli ha potuto scrivere che “nessuno è veramente conosciuto e nessuno si conosce se non mediante l’aperto confronto quotidiano che il tirocinio dell’amicizia esige” (De diversis quaestionibus).
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Agostino scrisse le Confessioni a quarantatré anni, dodici dopo la conversione. In quel libro – uno dei pochi, grandi capolavori dell’umanità – Agostino non racconta come fu forzato dal popolo ad abbandonare il suo progetto di “vivere dolcemente in compagnia dell’intelletto” (Lettera 10, 1), dedicandosi interamente alla riflessione filosofica e religiosa. Agostino dice solamente: “Avevo ventilato in cuor mio e meditato una fuga nella solitudine. Tu, Signore, me lo impedisti” (Conf. 10, 43, 70). Agostino fu chiamato dal popolo al sacerdozio senza che lui lo volesse per nulla: ne fu sorpreso e contrariato e pianse, ma accettò. Fu un grande sacrificio il suo e Romano Guardini definisce quella rinuncia di Agostino la sua “seconda conversione”. Ma quel sacrificio fu di una fecondità mirabile. Agostino non riposò in Dio, ma il suo genio speculativo e la contemplazione amante della verità furono trasfigurati proprio dall’accettazione di un servizio generoso. I libri vennero lo stesso, e furono tanti, ma scritti nelle ore sottratte al sonno, dopo giornate di duro servizio e di totale dedizione.
Un ultimo punto. Una certa tradizione illuminista è arrivata a presentare Agostino come “prince et patriarche des persécuteurs”. La risposta più corretta a questo tipo di giudizi crediamo di darla invitando a leggere la Lettera 133, indirizzata da Agostino al commissario imperiale in Africa, Marcellino. L’Africa era da un decennio devastata da bande di terroristi, che cercavano una copertura ideologica nell’eresia donatista. Quando gli assassini dei preti cattolici Restituto e Innocenzo furono arrestati, Agostino manifestò la sua più viva ansietà. “Io temo che l’Eccellenza tua – scrive a Marcellino – pensi di dover punire i colpevoli applicando le leggi in modo così rigoroso da far subire loro i supplizi che essi fecero soffrire alle loro vittime. Ti scrivo per scongiurarti nel nome di Cristo in cui tu credi di non fare una simile cosa, né permettere in nessun modo che sia fatta da altri… Non vogliamo che le torture e la morte dei servi di Dio siano vendicate secondo la legge del taglione”.