La vita dei singoli e dei popoli è nel tempo, e costituisce essa stessa la storia. È quindi spontaneo chiedersi: bisogna riconoscere un valore, un senso al cammino umano, ora trionfale, ora doloroso, che si svolge attraverso la durata della storia, o la storia è nient’altro che un tessuto di cose labili, che inesorabilmente svaniscono nel nulla?
A questa domanda Agostino risponde con un’opera, la “Città di Dio”, che oggi il lettore italiano può leggere nelle edizioni Rusconi, nella nuova traduzione, bella e fedele, di Luigi Alici. Agostino cominciò a scrivere la “Città di Dio” sotto l’impeto di violente emozioni: il sacco di Roma del 410 da parte dei Visigoti di Alarico, l’incontro in Africa con i profughi dall’Italia, le accuse della società pagana contro i cristiani. Gli dei sono sdegnati, si diceva, ed hanno abbandonato la custodia dell’Urbe e dell’Impero. L’opera, fu scritta lentamente, nell’arco di quasi un ventennio, interrotta spesso da altri impegni pastorali e dottrinali (le controversie con i donatisti e con i pelagiani), giungendo a compimento negli ultimi anni di vita del Santo, quando anche la sua città, Ippona, stava per essere investita ormai dalle ondate barbariche dei Vandali.
Quell’opera, «vasta e ardua» come egli stesso la chiama, meriterebbe già un posto di primo piano nella storia della cultura per il grande apporto critico di Agostino; egli, infatti, sgombra il terreno con un netto rifiuto nei confronti dei due miti che dominavano gli animi e la cultura: in primo luogo il perfettismo utopistico, e, in secondo luogo, il conservatorismo come categoria storiografica e come forma mentis. Sono miti che uccidono il senso storico, perché rendono impossibile spiegare il tempo, il cammino umano nel tempo, quella distensio humanitatis che è la storia. Quelle concezioni, che circolano ancora oggi in modi diversi, suonano come altrettante negazioni della storia, anche se nessuno dei loro sostenitori osa apertamente dissociarsi dal progetto di Erodoto di «impedire che le azioni compiute dagli uomini si cancellino con il tempo».
Energica suona in Agostino la critica di quell’illusione ricorrente per la quale il nostro Antonio Rosmini coniò la felice espressione di «perfettismo utopistico». Ai tempi di Agostino ed in altre epoche il perfettismo utopistico aveva un nome: si chiamava millenarismo. Alle sue attese di rinnovamento radicale impresse un nuovo slancio Gioacchino da Fiore (1130 circa – 1202), che teorizzò l’idea di una «terza età» a venire, che avrebbe realizzato su questa terra, nel tempo, il pieno e totale regno dello Spirito. Per un’ironia della storia un’esegesi ultramistica della Bibbia divenne, nel corso dei secoli, il principale impulso a un’interpretazione secolarizzata e immanentistica del Cristianesimo, che è poi la via più battuta per snaturare la fede, il pensiero teologico, l’azione del cristiano nel mondo, come ha dimostrato Henri De Lubac nei suoi due splendidi volumi “La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore” (ed. Jaca Book, 1981 e 1983).
Oggi il perfettismo utopistico si chiama marxismo gnosi scientismo e porta con sé una forte suggestione ipnotica, tanto più incisiva quanto più la prospettiva che propone manca di carattere definito, assomiglia al delirio e si presenta come il passe-partout che apre tutte le porte e risolve qualsiasi problema. L’essenza di ogni millenarismo è questa: prospettare una felicità terrena totale ed assoluta. Per Agostino, invece, una tesi del genere è fuori della storia ed implica una sospensione o la fine del corso storico. La storia, finché si va svolgendo, è invece progresso e regresso, è lotta, esodo, ricerca ed è assurdo confondere l’impegno perché questo mondo sia umanizzato, con il mito che fa della storia il luogo di un regno della giustizia piena e perfetta, senza errore e senza scacco, l’avvento di una società idilliaca.
L’illusione di un sapere totalizzante e definitivo genera dal suo seno non la società buona, ma lo stato totalitario, lo stato-lager, lo stato-gulag; non l’universalizzazione dei diritti degli uomini e dei valori liberali, ma la loro distruzione, la tirannia ideocratica, la pedagogia della coercizione e del terrore di stato esaltate come strumenti necessari per l’instaurazione di una macrosocietà fatta di angeli: senza divisione del lavoro, senza commercio, senza moneta, senza competenze specifiche da cui possano originarsi gerarchie, senza stato! Di che lacrime grondi e di che sangue il perfettismo utopistico, malgrado i suoi progetti di un avvenire luminoso e fraterno, l’umanità lo ha sempre sperimentato, ogni qualvolta esso ha trionfato, impadronendosi del potere. Il suo invincibile dispotismo fu formulato nel XIX secolo in questi termini: in una società perfetta non vi può essere libertà di pensiero, così come non vi è in matematica. Nella cosiddetta società perfetta non vi è posto che per un fantasma della libertà, perché questa è ridotta esclusivamente a coscienza della necessità, o a una concessione provvisoria, che può essere tollerata sola in una fase iniziale e transitoria. Se l’eterno ritorno annulla il relativo e il contingente, il perfettismo utopistico li divinizza, confondendo il fine subordinato della costruzione della città politica col fine supremo e trascendente della vita umana. Di qui il carattere inevitabilmente idolatrico, illusorio, allenante di ogni ottimismo prognostico, il suo cader preda della corrente del divenire. La storia ci attesta che non vi è mai successo perfetto all’interno della storia temporale. Ogni civiltà è sempre perfezionabile, proprio perché non esiste «in nessun luogo» (utopia), né potrà mai esistere, una civiltà perfetta.
Agostino ha anche attaccato l’assurdo conservatore, fatto proprio da Porfirio, il più affezionato discepolo di Plotino, secondo cui ogni trasformazione è trasformazione in peggio, la novità è sempre peggiore della stabilità e il presente non è mai da preferirsi al passato. «Ogni uomo sagace può constatare – scrive Agostino – la falsità di questa tesi, solo guardandosi attorno». Non per questo, però, diventa ipso facto vera la tesi opposta. In realtà occorre far riferimento a ben altre categorie, che non il vecchio e il nuovo, la stabilità e il mutamento, quando si vuol afferrare il carattere intensamente drammatico della storia. Non ogni novità è condannabile e non è vero affatto che tutto il passato sia degno di essere giudicato positivamente. Certo, ciò che è assai distante può essere idealizzato senza pericolo, ma non è lecito confondere storia e mito. La critica di Agostino a non pochi tabù della storia romana si fa spesso radicale e penetrante; a lui sembrava che fosse ormai l’ora di dire «basta con i vani schermi dell’opinione corrente», «basta con la vernice», «basta con tutte quelle millanterie». I meriti grandi di Roma e il suo effettivo contributo alla civiltà non legittimano la menzogna celebrativa, né l’occultamento dei lati negativi della sua pur straordinaria vicenda. Le qualità morali dei Romani, assai più che l’estensione delle conquiste, avevano fatto sì che il loro impero, se non lo si poteva considerare privilegiato come nessun altro e meritevole di durare all’infinito (come pretendevano i pagani), fosse almeno migliore di tutti quelli che l’avevano preceduto.
L’atteggiamento mentale per cui ci si rifiuta di considerare relativi i valori terreni realizzati nel corso di una qualsiasi epoca storica è acritico e improduttivo: chi si rinchiude nel fragile mondo che ha ereditato o che ha contribuito a costituire è costretto a idealizzarlo ad oltranza, negando la presenza di ogni male nel suo passato e la certezza della morte nel suo futuro. Tentazione del resto spiegabile, come quella antitetica del perfettismo utopistico, persino per un ingegno onesto e acuto qualora non abbia altra città da lodare che quella politica e se il suo orizzonte coincida inesorabilmente con essa. Da parte sua, il grande Africano nutre ben altri pensieri. Egli ci invita a «guardare alla nuova eredità del mondo nuovo e, pertanto, da ora, in questo nostro tempo, a camminare nella speranza, avanzando di giorno in giorno». Senza ansietà e senza inerzia.
Giornale di Brescia, 8 aprile 1986.