Una mattina di novembre, nel 1960, un avvocato londinese viaggiava nella metropolitana per raggiungere il suo studio nel quartiere “degli affari” della capitale. Leggeva il giornale e una breve notizia attirò la sua attenzione: una coppia di studenti portoghesi era stata arrestata in un ristorante e condannata a 7 anni di prigione per aver brindato alla libertà. L’avvocato era il trentanovenne Peter Benenson, di origine ebraica, figlio di genitori anglo-russi, da due anni passato dall’anglicanesimo al cattolicesimo. Da parecchio tempo seguiva, in qualità di osservatore o come avvocato difensore, di solito a sue spese, i processi intentati contro persone a causa della razza, della fede religiosa o delle convinzioni politiche. Le discriminazioni razziali in Sudafrica e i processi politici in Ungheria dopo la repressione sovietica del novembre 1956 spinsero alcuni colleghi inglesi ad affiancarlo nel suo lavoro; ma le forze, i mezzi, l’incidenza di quei coraggiosi combattenti per la “justice” (così si chiamava la loro organizzazione) erano ben scarsi rispetto alla gravità e alla paurosa estensione dei delitti contro il diritto di appartenere ad un determinato gruppo etnico e di professare un proprio credo politico o religioso.
Come rendere più efficace, incisiva e popolare la lotta in difesa dei diritti dell’uomo? Come far capire ai dittatori di ogni colore che l’opinione pubblica conosce e condanna i loro crimini e che non può abbandonare nell’oblio quanti soffrono per motivi di coscienza? La risposta a questi tremendi interrogativi fu l’idea di una campagna internazionale per attirare l’attenzione della gente, per chiamare i crimini con i loro nomi , per erigere un potente sbarramento di proteste contro illegalità e orrori. Nacque così Amnesty International, una delle cause più belle del nostro tempo. Forse l’unica riserva da fare nei suoi confronti riguarda il termine “amnistia”, che in greco significa il passar sopra intenzionalmente a un’offesa, mentre l’essenza della sua azione è ottenere il rispetto delle norme più elementari del diritto e la liberazione di tante vittime innocenti. Vittime innocenti perché uomini a cui è spudoratamente negato quello che la Dichiarazione dei Diritti Umani, firmata da tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948, proclama solennemente: “Ognuno ha il diritto di libertà di pensiero, di coscienza, di religione, di opinione e di espressione. Questo diritto comprende la libertà di avere le proprie idee senza interferenze e di chiedere, ricevere,comunicare informazioni e opinioni attraverso ogni mezzo e indipendentemente dalle frontiere”.
Un’idea della società
La strategia di Amnesty International fu ed è fissata in poche linee essenziali pienamente coerenti con le finalità per cui quella libera associazione è sorta e si batte. Il filosofo americano John Dewey disse una volta: “Se vuoi farti un’idea di una società, vai a scoprire quelli che sono in prigione”. Principio assai giusto e tuttavia di difficile attuazione nei Paesi regime dittatoriale. Il primo lavoro di Amnesty è pertanto, raccogliere informazioni, le più precise e dettagliate possibili e – cosa non meno importante – dalle più diverse fonti. Far sapere a tutti i fatti vergognosi che si conoscono in maniera rigorosamente documentata e chiamare gli uomini di buona volontà ad agire, a unire i loro sforzi, a non dimenticare chi rischia addirittura di scomparire, ecco il compito immediatamente successivo.
Amnesty, che si ispira all’etica della “non violenza”, rifiuta categoricamente di difendere coloro che abbiano usato violenza o peggio, abbiano teorizzato l’uso della violenza: merito questo altissimo che pone di colpo questo movimento volontario mondiale al di sopra di ogni strumentalizzazione ideologica. Il suo solo scopo, infatti, è quello di lavorare non per ideologie o partiti, che hanno loro mezzi e apparati per imporre all’attenzione di tutti le loro scelte e i loro miti, ma per i prigionieri che nelle forme più diverse subiscono violenza senza avere mai essi fatto ricorso alla violenza.
Le battaglie di Amnesty International sono queste: rivendicare la libertà per i prigionieri d’opinione; chiedere il processo pubblico e le garanzie giuridiche necessarie per quelli che sono detenuti senza imputazione; adoperarsi perché i processi siano rapidi ed equi; dare in ogni modo appoggio e speranza ai perseguitati e soccorrere le loro famiglie; denunciare l’illegalità e la disumanità della tortura; lottare per l’abolizione della pena di morte, inutile e controproducente per quanto concerne la prevenzione dei delitti e del tutto inaccettabile in linea di principio; impegnarsi per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza e perché sia effettivamente garantito il diritto d’asilo a quanti sono costretti a fuggire dalla loro patria o sono da essa banditi.
Un impegno d’onore
Nel 1984 ad inaugurare il primo colloquio internazionale su “Pace, diritti dell’uomo, sviluppo dei popoli”, venne a Brescia Peter Benenson. A chi gli chiese qual era la caratteristica di Amnesty a cui più teneva, rispose: “l’oggettività è per Amnesty un impegno d’onore ed è il fondamento stesso della sua credibilità”.
Amnesty è quanto mai necessaria perché oggi le violazioni dei diritti umani ci sono ancora, sono tante e spaventose. “E’ terribilmente alto – così si legge nell’ultimo “Rapporto annuale” dell’Associazione – il numero delle persone sequestrate e fatte sparire, torturate, sottoposte a trattamenti inumani che comprendono la fustigazione, o la mutilazione. Centinaia di persone sono state decapitate, impiccate,fucilate, uccise nella camere a gas, avvelenate o mandate sulla sedia elettrica”. E se al primo posto ci sono i regimi totalitari, ovunque essi detengano il potere, non mancano preoccupanti segni di degrado anche nei Paesi democratici e persino il Italia. Ed è bene ricordare anche i nostri guai: la vergogna dell’eccessiva lunghezza della detenzione prima di essere processati e casi isolati, ma comunque intollerabili in uno Stato democratico, di accertati maltrattamenti anche gravi da parte di agenti di polizia; la tendenza a negare di fatto asilo ai profughi, e questo in un Paese che ha dovuto chiedere rifugio per tanti suoi figli perseguitati.
“Ci si può chiedere – diceva Benenson nel suo intervento a Brescia – che effetto può avere Amnesty International nella lotta in difesa dei diritti dell’uomo. La risposta è : una costante educazione dell’opinione pubblica”.
La vittoria del diritto e dell’umanità non è un obiettivo a portata di mano e noi non l’attendiamo subito e dappertutto. Non arriverà domani; ma dopo domani sì, se oggi avremo fatto, ognuno e tutti insieme, la nostra parte. Gli stoici dicevano: che la giustizia sia fatta e vada pure il mondo alla rovina; ma è ben più vera la correzione apportata da Kant al celebre detto: fa quello che devi affinché il mondo non vada in rovina. Fiat iustitia ne pereat mundus.
Giornale di Brescia 26.10.1987. Articolo scritto in occasione dell’incontro promosso dalla Ccdc con Franca Sciuto.