«Tutto ciò che esiste e non è persona, è relativo ad una persona» (A. Rosmini)
IL COMPITO FILOSOFICO DI ROSMINI
Una delle menti più universali, Rosmini fu teologo, pedagogista, filosofo della vita morale, metafisico, psicologo, filosofo della vita politica e del diritto. Nacque a Rovereto il 24 marzo 1797; nel 1816 si trasferì a Padova per gli studi universitari, dove si laureò in teologia. Qui conobbe Nicolò Tommaseo, che gli rimase amico per tutta la vita. Al giovane Rosmini Tommaseo espresse il seguente monito: «Attendete alla restaurazione di questa filosofia diroccata. Credete a me, il vostro libro di politica, senza la preparazione della filosofia, giungerebbe immaturo. I fatti, di cui siamo per essere testimoni, potrebbero modificare, in parte almeno, il tono dell’opera vostra». Rosmini gli replicava: «Ne sono così convinto che ho in animo di seguire interamente il vostro consiglio. Pubblicherò prima dei trattati filosofici».
A partire dal 1826 si recò a Milano e divenne amicissimo di Alessandro Manzoni; dopo il 1848 ebbe la stima di Vincenzo Gioberti, suo aspro critico nell’opera Degli errori filosofici di Antonio Rosmini. Nel 1828 dà inizio all’Istituto della Carità a Domodossola (Novara) e scrive per i suoi figli spirituali opere di direzione spirituale. Nel 1830 viene pubblicato il Nuovo saggio sull’origine delle idee, uscito anonimo.
Le opere successive più importanti sono:
1831 – Principi di scienza morale
1837 – Storia critica e comparativa dei sistemi intorno al principio della morale
1839 – Filosofia della politica
1841/1845 – Filosofia del diritto
1850 – Psicologia
1854 – Logica
Postuma esce l’opera Teosofia.
Nel 1848 – 1849 è in missione a Roma per il governo piemontese, con l’incarico di negoziare un concordato con la Santa Sede. Dopo l’assassinio di Pellegrino Rossi e la fuga di Pio IX a Gaeta, fu isolato e tenuto lontano dal papa, cui pure fece conoscere il suo giudizio di dissenso dal nuovo corso della politica pontificia. Fu espulso da Gaeta nel 1849 per un sopruso della polizia borbonica. Poi si ritirò a Stresa. Notevole e vasta è la produzione pedagogica e religiosa. Celebri sono Le cinque piaghe della Chiesa (pubblicata nel 1848) e La costituzione secondo giustizia sociale. Ha scritto 11.000 lettere che documentano un’attività prodigiosa.
La filosofia per Rosmini è la scienza delle ragioni ultime. Le ragioni ultime sono le risposte soddisfacenti che l’uomo dà alle domande ultime con le quali la mente interroga se stessa. Le ragioni ultime di tutto lo scibile sono le sole veramente ultime e costituiscono lo scopo della filosofia generale. Le ragioni ultime di certe determinate parti del sapere sono ultime solo rispetto ad esse e costituiscono lo scopo delle filosofie speciali: filosofia della storia, filosofia delle scienze, ecc.
«L’uomo che si mette in cammino ad investigare le ragioni ultime e soddisfare ai perché, interrogazioni spontanee della sua mente, non può non cominciare dal riconoscere lo stato delle sue cognizioni e delle sue persuasioni, e quindi muovere all’opera di renderle compiute, a tale che soddisfacciano al bisogno dell’intelligenza che non si appaga se non rendendosi ragione di tutto ciò che sa; se non rendendosi una ragione così evidente che non abbiamo bisogno di un’altra, ma ella stessa sia quella in cui la mente trova la sua quiete. La filosofia conduce a trovare questo riposo scientifico della mente» (Sistema, n. 1, 2, 3, 4).
Secondo Rosmini, dopo lo svolgimento del pensiero da Cartesio a Kant, non si può prescindere dalla pregiudiziale gnoseologica. Rosmini accetta l’impostazione critica del problema della conoscenza e per essa opera il recupero della metafisica spiritualistica e teistica. Il punto di partenza della ricerca filosofica non può non essere gnoseologico, il punto di arrivo metafisico: la pregiudiziale gnoseologica reca, infatti, in sé il problema metafisico della giustificazione del valore oggettivo del conoscere stesso. Nell’opus rosminiano l’introduzione gnoseologica ci è data dal Nuovo saggio sull’origine delle idee (1830), la metafisica nella Teosofia, sì che – dal punto di vista teoretico – è l’ultimo capolavoro di Rosmini, uscito postumo, che illumina il primo e gli conferisce nell’unità del sistema un valore di grande originalità.
IL PROBLEMA GNOSEOLOGICO
Il punto di partenza della filosofia è il conoscere immediato, senza supposizione di sorta. L’osservazione del fatto gnoseologico ci fa toccare con mano le difficoltà del problema, ma non autorizza l’evasione nell’approssimativo e nell’arbitrario, non legittima le soluzioni per eccesso (razionalismo) o per difetto (empirismo) e neppure la contrapposizione agnostica tra fenomeno e noumeno che non permette di dare un fondamento oggettivo al pensiero umano.
I razionalisti peccano per eccesso perché ammettono di più di quanto è necessario per spiegare l’universalità dell’idea, presupponendo una conoscenza innata – anche se obnubilata – di tutte le idee universali. Così il Platone dei dialoghi centrali (tutte le idee sono innate e si danno idee di cose, relazioni, principi, valori), Cartesio (le idee sono innate nei loro postulati essenziali, le idee-quadri), Leibniz (sono innate come germi o virtualità in cui è precontenuto lo sviluppo successivo). Le tesi razionalistiche vanno respinte perché dommatiche e perché affette da un fenomenismo ideistico, incapace di giustificare il mondo dell’esperienza e la conoscenza effettiva delle cose reali.
L’empirismo è incapace di fondare un sapere oggettivo perché confonde sensazione e intellezione (attività intellettiva) e la sensazione è sempre relativa al soggetto, è una modificazione del senziente: pecca quindi per difetto. L’empirismo con Étienne Bonnot de Condillac misconosce che soggetto e oggetto sono due poli di una stessa capacità conoscitiva e che l’atto con cui l’uomo coglie se stesso in quanto principio di questa attività non è separato dall’atto con cui conosce la realtà distinta da sé. Allora l’empirismo cade inevitabilmente nel sensismo, il cui presupposto fondamentale consiste nel ritenere che non solo il contenuto di coscienza, ma anche la facoltà o le attività dell’anima non siano che «sensations transformeés» (Condillac).
L’alternativa coerente all’empirismo sta nel congiunto rifiuto di ogni conoscenza che superi l’evidenza sensibile della percezione immediata e di ogni conoscenza oggettiva. David Hume conclude alla soggettività di tutta la nostra conoscenza, spegnendo l’esigenza di concretezza dell’empirismo in uno scetticismo radicale. Dopo Francesco Bacone, il cui empirismo è geniale e saldamente orientato verso il reale, la gnoseologia dell’empirismo segna per un verso la reazione, per l’altro un proseguimento della teoria cartesiana. Un proseguimento perché accetta il presupposto cartesiano che noi conosciamo solo idee, una reazione, perché nega che vi siano idee innate e mette tutte le idee sullo stesso piano. Negare le idee innate, partendo dal presupposto che noi conosciamo solo idee, voleva dire concludere alla soggettività di tutta la nostra conoscenza.
Per Antonio Rosmini, la nostra conoscenza passa da un oggetto all’altro, ma questo passaggio è sostenuto da una presenza incessante dell’io a sé stesso perché l’oggetto specifica la nostra capacità di conoscere, non la produce. I filosofi di maggior rilievo hanno ammesso che la conoscenza non deriva soltanto dall’esperienza sensibile, ma richiede anche l’intervento della mente. Non si può non partire dall’esperienza sensibile, ma la conoscenza oltrepassa la sensazione e non è spiegata senza l’attività della mente (per Aristotele i principi logici, per Kant le forme o funzioni a priori non derivabili dall’esperienza).
La filosofia rosminiana si configura come «idealismo oggettivo», secondo la definizione di Piero Martinetti e di Michele Federico Sciacca, in quanto la verità è oggetto della mente, sì che l’intuito fondamentale dell’essere è forma dell’intelligenza, atto costitutivo di essa e lume della ragione. Idealismo, dunque, non nel senso di esclusione dall’esistenza di una realtà distinta dal pensiero, non nel senso di immanenza di tutto il mondo empirico nell’attività creatrice del soggetto pensante, ma nel senso del platonismo agostiniano, in quanto il fondamento della validità del conoscere è cercato nell’essere che si rivela alla coscienza, nell’idea dell’essere che è per un verso forma universale della cognizione e per un altro oggetto che dà oggettività al giudizio conoscitivo. «Ragione prima del conoscere è l’essere presente alla coscienza».
L’idea dell’essere, oggetto intuito dalla mente, è l’a-priori che spiega la conoscenza intellettiva, ma rende altresì possibile fondare razionalmente la metafisica come scienza della realtà spirituale e la universalità oggettiva della legge morale.
Interiorità metafisica e oggettività dell’essere ideale: queste le radici platoniche del rosminianesimo (si tratta però non di innatismo platonico, non di reminiscenza, ma di presenza in noi, di intuizione dell’oggetto ideale e non di una conoscenza particolare). Carattere sintetico del conoscere e attività del soggetto nel processo conoscitivo, significato anche funzionale dell’idea dell’essere: questi gli aspetti kantiani dell’idealismo oggettivo del roveretano (anche se l’a-priori rosminiano non è l’a-priori di Kant, per il suo valore ontologico e quindi per le congiunte possibilità di costruire una metafisica e una morale ancorate all’oggettività).
L’originale sintesi di platonismo agostiniano e di kantismo trova un’espressione che le compendia nelle due proposizioni che riassumono le tesi della gnoseologia e della metafisica rosminiana: «pensare è giudicare», «pensare è vedere e non produrre». La prima indica l’attività dello spirito, l’altra nega che questa attività sia produttiva dell’essere.
La percezione intellettiva rosminiana è l’atto nel quale confluiscono tutte le varie parti della speculazione gnoseologica. Come percezione, coglie sensibilmente l’ente che è sentito; come intellettiva, lo coglie come determinazione particolare e concreta dell’essere ideale. Alla domanda «donde l’universalità delle idee?», Rosmini risponde respingendo il nominalismo delle correnti empiriche, l’innatismo dei sistemi razionalistici e il soggettivismo kantiano e, positivamente, facendola derivare non dal soggetto, ma dal primo oggetto che l’intelletto intuisce, l’idea dell’essere, e dalla sua congiunzione al dato della sensazione.
Kant ebbe il merito di distinguere nettamente il sentire e l’intendere, forgiò le chiavi d’oro di tutta la filosofia dello spirito umano con la riduzione di tutte le operazioni della nostra mente a giudizi («pensare è giudicare») e vide il carattere sintetico a priori di ogni giudizio.
Le differenze tra Kant e Rosmini
– Differenza quantitativa: per Kant le forme sono 14 (due della sensibilità e dodici dell’intelletto), mentre per Rosmini la forma è solo una, l’idea dell’essere.
– La differenza è anche qualitativa: le forme kantiane sono a priori, cioè né cronologicamente né logicamente prima dell’esperienza, e quindi esse sono funzioni della mente, sue modificazioni e suoi prodotti. L’idea dell’essere rosminiana è innata, è oggettiva, è data al soggetto, non è un suo prodotto.
– Per Rosmini, Kant cade nel soggettivismo. «L’errore fondamentale del criticismo consiste nell’aver fatto subiettivi gli oggetti del pensiero». Kant giustifica una universalità soggettiva, ma è incapace di pervenire al piano dell’oggettività (inconoscibilità di ogni realtà noumenica).
Kant non può sfuggire al dilemma: o il nostro spirito è produttore delle forme del conoscere, e allora non può spiegare l’universalità e la necessità delle forme stesse e la nostra conoscenza è inevitabilmente soggettiva; oppure lo spirito può produrre l’universale e necessaria condizione del conoscere oggettivo, e in tal caso non si tratterebbe più dello spirito umano quale l’esperienza psicologica ci attesta che sia.
Per Kant:
– l’intelligibilità è creazione del soggetto pensante;
– pensare è applicare ad un insieme di sensazioni soggettive le forme quali determinazioni necessarie e universali del soggetto pensante;
– la sostanzialità è una categoria della mente la cui applicazione al sentito fa dell’oggetto conosciuto una produzione del soggetto;
– è l’azione del soggetto che costruisce l’oggetto intelligibile, obiettivando con le proprie forme e la propria energia il complesso delle sensazioni.
Per Rosmini:
– il giudizio è sintesi a priori, ma la forma del giudizio è unica ed è l’essere ideale, le cui determinazioni sono fornite dai sensi;
– l’intelligibilità non è produzione del soggetto pensante, sua produzione, non viene dal soggetto pensante, ma dall’essere ideale;
– è l’azione del soggetto che illumina il complesso delle sensazioni, ma con un’energia non sua;
– quanto di intelligibile è nel concetto di una realtà è dovuto alla forma costitutiva e al lume dell’intelletto stesso; la mente considera come da sé distinte e in sé sussistenti ed agenti (sostanza e causa) le cose pensate grazie alla virtù illuminativa e obiettivante dell’essere ideale;
– il soggetto pensante non produce l’oggetto pensato, ma pensa intelligibilmente l’oggetto per l’illuminazione dell’idea dell’essere presente alla mente.
Del kantismo si deve respingere la pretesa incapacità dello spirito umano ad affermare la realtà sostanziale del soggetto pensante e la scissione tra fenomeno e noumeno. Sul rapporto fenomeno-noumeno occorre sostenere alcune osservazioni atte a superare la scissione:
LA TEORIA DELL’ESSERE
La mente come apertura all’essere e l’intuizione dell’idea dell’essere
«Quando io dico a me stesso che esiste un dato ente qualunque particolare e reale, io non intenderei me stesso, non intenderei ciò che dico, se non sapessi già cosa è essere. La notizia dunque dell’essere in universale debb’essere in me e precede tutti quei giudizi coi quali dico che qualche ente particolare e reale esiste» (Sistema filosofico, n.15). Non si dà conoscenza se non mediante un atto con il quale si afferma qualche cosa. L’atto con il quale pronunciamo l’esistenza di un essere è il giudizio e ogni atto conoscitivo si esprime mediante un giudizio.
Per dare una risposta al problema gnoseologico e poi al problema metafisico occorre quindi analizzare il giudizio. L’analisi del giudizio ci attesta che in esso è presente un elemento variabile, materia o contenuto, che ci dà la determinazione dell’essere; vi è però anche un elemento invariabile, o forma del giudizio, ciò per cui una cognizione è tale. Se le conoscenze sono innumerevoli, una sola è la loro essenza, ciò per cui tutte vengono ad essere cognizioni. Le determinazioni dell’essere sono molteplici, ma tutte implicano riferimento all’essere. Non si può pronunciare nessun giudizio che non sia presente al pensiero come essere, ogni concreta e reale conoscenza include il riferimento all’essere.
La forma del giudizio, il predicato, ciò per cui tutte le cognizioni sono determinazioni dell’essere, l’elemento invariabile del giudizio, tutto questo implica l’intuizione dell’idea dell’essere. L’essere è oggetto formale della nostra mente, intrinseca specificazione di ogni capacità intellettiva, ciò verso cui è orientata costitutivamente la nostra intelligenza; è formale in quanto costituente la nostra capacità intellettiva.
L’intelligenza è apertura felicemente obbligata all’essere nella sua infinità, in tutte le sue possibili e reali determinazioni, e comunque apertura a tutto ciò che è.
L’intuizione intellettuale è l’intuizione che la mente ha di se stessa come essenziale e naturale capacità di cogliere e dire l’essere, cognizione dunque abituale e non attuale, antecedente e concomitante ad ogni cognizione particolare.
Il giudizio ci rivela l’idea dell’essere. L’idea dell’essere nasce in noi non per il giudizio stesso, ma si forma per mezzo dell’idea dell’essere come sua specificazione; l’idea dell’essere può essere pensata per se stessa, ma nessun’altra idea può essere pensata senza di essa.
L’idea dell’essere e la mente: la sintesi ontologica primitiva
L’uomo è soggetto intelligente e razionale in quanto è costituito tale dall’idea dell’essere ontologicamente partecipata da ogni singola mente.
Anteriore quindi ad ogni sintesi conoscitiva e da essa presupposta è la sintesi ontologica primaria, in virtù della quale l’idea è «forma della mente», perché senza essa la mente non sarebbe mente. «L’essere ideale è la forma dell’anima intellettiva e per la semplice intuizione di quello l’anima intellettiva sussiste».
Questo apriori ontologico è l’atto di essere della mente; ma questo atto, in quanto ha la possibilità di essere determinato, si dice anche potenza conoscitiva o potenza attuale primitiva. La potenza è costituita da un atto primo, il quale acquista nome di potenza in quanto ha una capacità ulteriore di essere esplicata e determinata. La potenza è propria di un atto primo, a cui manca la sua ultima esplicazione, relativamente alla quale ha una potenzialità.
Si comprende meglio allora in che senso l’idea dell’essere è innata in noi. Nessuna conoscenza è innata come conoscenza del reale, e perciò l’intuito dell’essere è potenza rispetto ad ogni conoscenza come forma di ogni conoscenza determinata, ma è atto come principio di esperienza o forma costitutiva della mente.
L’idea dell’essere è dunque l’essenza attuale della mente e per essa l’uomo, soggetto finito, partecipa all’infinito. La presenza dell’idea dell’essere alla mente fa sì che la mente sia illimitata, perché illimitato e universale è l’essere che essa intuisce; il rapporto con l’idea dell’essere è costitutivo della mente, e per esso la mente è una relazione vivente, ma ciò non vuol dire che l’essere ideale sia interamente adeguato dalla nostra mente. Se l’uomo abbracciasse la mente in tutti i suoi termini infiniti sarebbe Dio, ma l’uomo non è Dio. L’illimitato, l’indefinito, lo sconfinato di cui parla l’idealismo è costituito dalla funzione trascendentale del conoscere, ma il conoscibile o reale d’esperienza (natura e storia) è sempre nell’ambito del contingente.
Per Rosmini l’idea dell’essere, in quanto partecipata dalla mente, è il nesso che unisce la mente a Dio e orienta la mente verso un’attualizzazione che trascende il reale o il conoscibile, per cogliere in essa e per essa, «punto di contatto tra finito e infinito», l’unica via di comunicazione per cui l’uomo possa non solo «ingaggiare col suo pensiero ogni cosa», ma innalzarsi sopra se stesso riconoscendo in Dio l’oggetto fondante del proprio essere e del proprio conoscere.
L’idea dell’essere è dunque trascendentale come funzione categoriale della mente (Kant) ed è trascendente come oggetto essenziale e luce di essa (Platone).
L’essere ideale, che è lume della mente, per la sua infinità fa la mente infinita, ma la trascende in quanto le determinazioni che la mente può darsi sono tutte finite.
L’uomo ritrova così nella sua interiorità ciò che lo fonda come essere spirituale e gli fa riconoscere «la sua natura quasi cognata alla divina». In tal senso l’uomo è sintesi di finito e infinito, dell’esistenza finita e dell’essere nella sua infinità in quanto idea. Di qui l’inquietudine di quell’essere dialettico per essenza che è ogni uomo, il suo tendere perennemente all’infinito, a Dio. Attraverso l’idea l’uomo partecipa dell’Infinito.
Pur essendo da essa l’atto primo della potenza conoscitiva, l’idea dell’essere, nel suo significato ideologico, è detta dal Rosmini «possibile». In quanto la mente non intuisce l’essere con tutti i suoi termini, ma solo nella sua possibilità sterminata di realizzarsi, si può dire che l’idea dell’essere è possibile. Possibilità qui vuol dire possibilità di conoscere in relazione al realizzarsi degli enti, pensabilità di tutto ciò che è. Non si creda però che l’essenza dell’ente sia essa stessa una mera possibilità: no, essa è una vera essenza e ha un valore ontologico oltre che logico e ideologico. L’essere per la mente umana è possibile, non facendoci conoscere da solo alcun ente: infatti in noi è innata solo la possibilità del conoscere mentre il conoscere concreto si realizza attraverso una serie di atti dello spirito umano, l’ultimo dei quali è la percezione intellettiva, sintesi i cui elementi non sono prodotti dall’attività del soggetto, ma che, come sintesi, è dovuta all’attività dello spirito.
Anche la definizione «essere possibile» ha quindi una valenza ontologica oltre che gnoseologica: è forma della mente perché fa essere la mente («idea manifestante») ed è la forma della cognizione («idea manifestata») perché è l’idea madre di tutte le idee, costituisce ciò che vi è di oggettivo in ogni cognizione, ed è la verità di tutte le cose, l’«esemplare».
Ogni forma e grado di essere è dialettico in quanto implica «relazione a»: Dio solo è in sé, per sé, da sé. Dialettico per essenza è l’essere ideale che implica relazione a Dio (astrazione teosofica), relazione alla mente umana (sintesi ontologica primitiva), relazione agli enti reali e alle loro idee.
L’idea è il «primo atto universale dell’essere» presente alla mente di Dio e alla mente umana; benché alla mente di Dio, insieme con quel primo atto, stanno presenti tutti i termini dell’essere e all’uomo no.
L’essere si dice virtuale e iniziale in quanto la sua idea è considerata precedente il reale: prescindere dai termini in essa nascosti (e in unione ai quali presenta al pensiero il concetto degli enti) significa pensare l’essere come virtuale.
L’essenza dell’essere ideale si dice iniziale rispetto a Dio solo in senso dialettico, in quanto costituisce, per la nostra mente, la condizione prima per poter pensare ed affermare Dio.
Ma come una stessa cosa può essere forma ad un tempo della cognizione (forma o predicato di ogni giudizio) e forma costitutiva della mente? Come è possibile il passaggio dall’essere ideale all’essere reale? Lo scettico può osservare: come possiamo uscire fuori da noi? Ovvero: qual è il ponte che forma il passaggio tra noi e le cose diverse da noi?
La pregiudiziale scettica sta e cade con la pretesa di applicare il principio della impenetrabilità dei corpi anche allo spirito; è evidente, invece, che non si dà soluzione meccanica d’un fatto puramente spirituale.
L’idea dell’essere non basta a conoscere effettivamente le cose del mondo reale: la realtà è conosciuta in concreto soltanto se alla forma (idea dell’essere) si unisce in sintesi la materia (esperienza sensibile) che offre le determinazioni dell’essere, e se si giunge a dimostrare che nell’uomo il principio che intende sia lo stesso di quello che sente. La metafisica fonda e richiama la teoria della percezione intellettiva e la psicologia del sentimento fondamentale della persona.
La prova dell’esistenza di Dio e l’astrazione teosofica
Rosmini non nega il valore delle prove tomistiche, ma pensa che quegli argomenti sono validi se si appoggiano ad un principio di ragione evidente in se stesso che sia di fondamento a quei principi logico-metafisici.
L’essere ideale, scoperto dalla mente, è oggetto della mente; ma è oggetto non prodotto dalla mente umana, finita e contingente; dunque deve esservi un Soggetto eterno, di cui l’essere ideale è oggetto eterno. L’essenza dell’essere ideale non è esaurita da quella degli enti percepiti e non lo è neppure dalla percezione che il soggetto ha di sé (o autocoscienza); ma è esigenza intrinseca al soggetto pensante nell’essere intuito che l’essere ideale abbia a realizzare tutta la sua essenza; dunque esiste l’essere assoluto come colui che è tutto l’essere eminenter e virtualiter, fonte dell’essere ideale e di ogni realtà
C’è poi una prova della legge morale. La legge morale è eterna, necessaria, assoluta; ma nulla sarebbe, se non esistesse in un essere assoluto; dunque esiste Dio, fonte della legge morale.
Ma in quale rapporto è l’essere ideale con Dio? È l’essere assoluto che fa esistere l’essere ideale per mezzo dell’astrazione teosofica, come distinzione reale tra sé e l’essere ideale creato. Nell’unità dell’essere ideale sono virtualmente compresi tutti i suoi termini reali, della cui intelligibilità esso è il principio assoluto. L’essere ideale è divino, ma non è Dio e intuire l’essere possibile non è affatto avere intuito Dio.
L’astrazione teosofica è creazione del lume che rende intelligente ogni creatura umana: per mezzo dell’essere ideale Dio crea ogni uomo come soggetto intelligente. Noi intuiamo l’essere ideale, ma non l’atto divino che lo produce e quindi senza il soggetto divino in cui quell’atto si identifica.
È evidente perciò, per il Rosmini, che la distinzione tra ciò che è divino e Dio è una distinzione necessaria, anche se relativamente alla nostra mente: in Dio l’essere ideale è visto in tutti i suoi termini reali e, nello stesso tempo, distinto come inizio e termine; in Dio l’essere ideale è la nozione divina dell’essere finito possibile e degli innumerevoli modi e gradi di partecipazione all’essere da parte delle creature. L’essere ideale, come astrazione teosofica, non è il Verbo – che è l’assoluta personalità del Logos – ma una sua appartenenza, l’essenza-luce in cui trova espressione l’unità e la molteplicità degli esseri e l’umana intelligibilità nel suo fondamento oggettivo.
Conclusioni
L’essere ideale è costitutivo della mente umana ed è lume, oggetto di essa.
Ha valore funzionale – come le categorie di Kant – e significato ontologico, come le categorie kantiane non potevano avere: è trascendentale come funzione e trascendente nella sua fondazione in Dio.
La riduzione rosminiana di tutte le categorie kantiane a quella sola dell’essere ideale ha questo significato: l’unica categoria è l’essere nella forma in cui è presente al pensiero.
Rosmini critica la conclusione a cui, partendo da Cartesio e attraverso Kant, arriva l’idealismo trascendentale, secondo la quale l’autocoscienza è tutto il reale e tutto l’essere.
Il fondamento primo di tutta la filosofia rosminiana non è dunque la coscienza, l’esperienza sensibile o intelligibile, l’io-penso, ma l’essere che si rivela in quella coscienza, l’essere che non è fuori dal conoscere, essendo immanente al conoscere nel quale si rivela.
La rosminiana idea dell’essere è un ripensamento del «lume della mente» di Agostino e della dottrina del «lumen intellectus agentis» di Tommaso d’Aquino ed è sulla linea dell’intuizione dell’essere così com’è affermata da Bonaventura.
TEORIA DELLA PERCEZIONE INTELLETTIVA
Analisi di struttura dell’atto conoscitivo
Tre sono le condizioni della conoscenza: l’unità sostanziale della persona umana, il primo sentito o primo psicologico, il primo ideologico o primo ontologico o sentimento intellettivo dell’essere.
La condizione più soggettiva ed esistenziale è il sentimento fondamentale corporeo: è un sentimento che fa tutt’uno con il nostro io, perché il nostro corpo è una dimensione costitutiva del nostro essere. Nessuno può sentirsi vivere al mio posto e ciò è la condizione fondamentale per poter sentire qualcosa di diverso da me. Il sentimento fondamentale corporeo è un «sentire-atto» di cui ogni ulteriore sentire è una specificazione; è la coscienza che ognuno ha di sé come essere corporeo e soggetto senziente. Con esso noi percepiamo immediatamente il nostro corpo «come una cosa con noi», «da noi sentito consenziente». Nel sentimento fondamentale corporeo ognuno di noi si sente vivere, ha il senso di sé come sintesi di corpo e coscienza; per mezzo di esso il nostro corpo è appreso come un fattore essenziale del nostro essere uomini (esso costituisce il campo di tutta la nostra attività sensibile, ma è anche la prima forma di coscienza di noi stessi), non come un oggetto tra altri oggetti.
Nel sentimento fondamentale corporeo avvertiamo il nostro corpo come dal di dentro, come il nostro stesso vivere. Questa esperienza originaria e ineliminabile è condizione di ogni altra esperienza sensibile. È il sentimento originario che precede ogni esperienza. Il sentimento originario corporeo è, per tutto il campo del sentire, quello che l’idea dell’essere è per il campo dell’intelligibilità, cioè la sensibilità pura, madre di tutte le sensazioni. È un sentimento sostanziale che eccede su tutti gli agenti corporei.
Primo ontologico è l’idea dell’essere, l’idea che rende possibile ogni altra cognizione: è la condizione più oggettiva e più universale.
Il giudizio di sussistenza è il giudizio su una realtà distinta dal soggetto conoscente, che pure ne coglie e ne afferma l’esistenza.
La percezione intellettiva è dunque l’atto nel quale confluiscono tutte le varie parti della speculazione gnoseologica (il sensibile offerto dalla materia e dal sentimento fondamentale corporeo, l’idea dell’essere e il giudizio di sussistenza). Come percezione coglie sensibilmente l’ente (l’essere) che è sentito, come intellettiva coglie l’ente in quanto determinazione concreta dell’essere ideale.
Non si può pensare realmente se non si pensa l’essere. Il mondo oggettivo non è la mia rappresentazione. È il soggetto pensante che pensa l’essere, ma l’essere ha una propria oggettiva esistenza.
La verità è alétheia, disvelamento, non produzione. È il pensiero che si apre all’essere e ne pronuncia l’esistenza e, in certi limiti sempre spostabili, l’essenza. Essere e pensiero non sono né estranei né identici: il pensiero è relazione sussistente e costitutiva apertura all’essere. Solo su questa base si salda l’oggettività del reale e l’attività del soggetto e si garantisce la possibilità della scienza così come della conoscenza comune.
Per giungere alla percezione intellettiva bisogna passare attraverso i tre gradi della conoscenza:
– il soggettivo e l’extrasoggettivo nella sensazione
– l’extrasoggettivo nella percezione sensoriale
– l’oggettivo nella percezione intellettiva.
Il conoscere oggettivo si esprime con un giudizio e il giudizio di sussistenza è l’atto con cui al fattore extrasoggettivo della percezione sensoriale si attribuisce il concetto di ente stesso, perché l’oggetto specifica la nostra capacità di conoscere, non la produce.
Unità della persona
Il fulcro centrale del pensiero di Rosmini è il significato dell’essere, il valore della persona. «Tutto ciò che esiste e non è persona, è relativo ad una persona»; «l’essere è personale e tutto ciò che non è personale rientra nella produttività della persona come mezzo suo di manifestazione e di comunicazione con altre persone». «Si chiama persona un individuo sostanziale intelligente, in quanto contiene in sé un principio attivo, supremo e incomunicabile» (Antropologia in servizio della scienza morale, 832).
Né angelismo (spiritualismo disincarnato) né materialismo, ma unità vivente e organica dell’io. Il soggetto umano è uno, «principio insieme dell’animalità e dell’intelligenza» (Antropologia in servizio della scienza morale, 767).
Lo statuto ontologico della persona, la sua unità radicale spiega perché è lo stesso io che sente, intende e vuole. L’io che sperimenta il suo sentirsi vivere e l’urgere del reale attraverso il suo sentire è lo stesso io che conosce e giudica, comprende e ama.
La molteplicità «quasi infinita» delle variazioni delle potenze che fanno di un essere una persona non attesta il moltiplicarsi delle potenze stesse e anzi i loro principi finalmente si riducono a pochi e questi a uno solo: quello di un soggetto, di una potenza che deve svolgersi e perfezionarsi; «una potenza, l’ultimo atto della quale è congiungesi all’Essere senza limiti per conoscimento amativo» (Teosofia, I, 35). La persona è soggetto indipendente, soggetto in senso proprio, rispettivamente a sé causa prima delle sue azioni.
Oggetto sta a significare un ente che esiste a sé: non si intende qui l’a-sé nel significato di da sé, ma nel senso di sibi. Esistere a sé vuol dire esistere pienamente, perché è incompleta l’esistenza di ciò che esiste solo per gli altri. Ma per esistere a sé bisogna essere intelligenti e volitivi: vero soggetto è quindi solo l’ente intellettivo nel quale soltanto si attua in pieno il reale.
Esistere significa per la persona non solo sentire (ciò che fa anche l’animale), ma riferire a sé le mutazioni e riconoscere intellettivamente l’oggetto e il «sé» come soggetto principio di correlatività. Il reale che non sente di esistere intellettivamente non è soggetto, non è persona, ma trae il suo valore dal rapporto con la persona.
La coscienza è possesso consapevole del proprio spirito, è il ritrovarsi della persona nell’ordine della consapevolezza (conoscenza diretta e conoscenza riflessa).
La logica
Una logica puramente formale non è una logica complessiva: è necessaria una logica formale che ammetta i suoi limiti e che sia completata da una logica concreta, relativa alla natura dell’oggetto e all’attività complessiva del soggetto che giudica e ragiona. La nettezza e la coerenza formale è cosa essenziale alla filosofia, ma per evitare «l’abuso della forma nuda», si deve ricordare – assai più energicamente di quanto fece Aristotele – che la verità risulta non dall’esclusivismo formale, ma anzitutto dall’adeguazione della forma logica alla materia a cui viene applicata. Così non basta limitarci a dare solo regole universali, ma occorre aggiungervi delle «regole medie», regole particolaririzzate sul loro oggetto.
A differenza di Aristotele, il Rosmini dà la priorità logica al principio di cognizione «l’oggetto del pensiero è l’essere». Di qui derivano logicamente il principio di non contraddizione («non si può pensare ad un tempo l’essere e il non essere»), di identità e così via. Il principio di cognizione si fonda sull’essere ideale o intuito dell’essere.
Meritatamente famosa è la teoria del circolo solido. Per la teoria del circolo solido (Logica 485, 701, 707) ogni scienza inizia da una definizione sintetica sufficiente a far intendere la cosa di cui si vuole trattare, e finisce con una definizione della cosa sommamente analizzata, che riassume in sé tutta la scienza di quella cosa.
Il movimento della mente si riduce a questa formula: passare alla cognizione attuale del particolare mediante la notizia virtuale del tutto e ritornare dall’attuale cognizione del particolare alla notizia attuale del tutto medesimo.
Le obiezioni alla concezione della dialettica di Hegel sono diverse. L’idealismo tedesco scrive come pensa, cioè romanticamente, senza un ragionare concatenato onde si possa cogliere la dimostrazione di ciò che si dice. In tal modo fu estremamente facile ad Hegel, per l’avversione sistematica alla scienza del ragionare, sostituire alla logica una teoria metafisica della ragione come attività che produce ogni cosa (cfr. Idealismo, I, 2). Hegel non rispetta l’ordine intrinseco del pensiero. Alcuni pensieri non si concepiscono senza averne concepiti altri nei quali quelli sono virtualmente contenti: ciò posto, è chiaro che non si può negare il valore di un pensiero anteriore, senza negare il valore dei pensieri posteriori che ne derivano; ammettere il valore di questi ultimi per argomentare la distruzione del valore di ciò che logicamente li prepara è un manifesto paralogismo. Com’è formulato da Hegel, il concetto di divenire non è un concetto filosofico, ma un’immaginazione che supplisce ciò che il vero concetto del divenire non può dare: «Un ente passa dal non essere all’essere; un ente diventa un altro ente». Se un ente cessa, è finito e non può passare in un altro ente. La contraddizione è stimolo al pensiero ma non sua legge essenziale.
LA MORALE
Opere:
1831 – Principi della scienza morale
1837 – Storia comparativa e critica dei sistemi intorno al principio della morale
1838 – L’antropologia in servizio della morale
1839 – Trattato della coscienza morale
Postumo il Compendio di etica.
Analisi di struttura dell’atto morale
La filosofia ha per oggetto il problema e il senso della vita; la filosofia morale non crea, ma spiega la vita morale, ne indaga i caratteri specifici e il principio supremo, conferendo saldezza, chiarezza ed elasticità di giudizio alla coscienza desiderosa di lumi per l’azione. Per questo una dottrina morale non dev’essere un intricato rebus, ma integrarsi felicemente con la vita, giustificare razionalmente i suoi principi, riducendoli all’evidenza; essa dev’essere universale, cioè applicabile a tutte le situazioni in cui l’uomo si possa trovare e valore per risolvere tutti i problemi morali e non soltanto alcuni di essi. Tra il conoscere e l’agire consapevolmente non ci può essere opposizione, ma distinzione e connessione. Non vi può essere moralità senza criterio di verità. La filosofia deve bandire ogni fideismo morale: il comando della ragion pratica non è un factum, un «tu devi» teoricamente inesplicabile. Il primato della ragion pratica non si fonda sulla impossibilità della ragione teoretica, ma sul carattere dell’agire morale, perfezione conclusiva dell’uomo, sua attività originale, personale, creatrice di ciò che prima del suo fiat non era. L’uomo è realmente concreatore senza essere creatore.
Quando si afferma l’esistenza di un essere, di una realtà per mezzo della percezione intellettiva, si dà un «giudizio esistenziale». Ogni giudizio esistenziale è implicitamente un giudizio valutativo teorico, un giudizio speculativo. Per ciò che non è non si pone nemmeno il problema del suo valore: solo ciò che esiste è oggetto di valutazione. Il giudizio che afferma l’esistenza di un essere implicitamente tende a coglierne il valore emergente da esso. Ciò che esiste ha un grado di realtà che costituisce la sua natura, la sua perfezione, il suo valore.
Quando un soggetto umano è in procinto di agire praticamente e di determinare la sua condotta rispetto agli oggetti e alle azioni, «non può operare come essere razionale se non a condizione ch’egli si sia formata una stima delle cose, a cui appoggiare le proprie affezioni».
In questo primo atto valutativo gli oggetti in concorrenza sono presentati come possibili oggetti di un ulteriore atto di volizione. Fino a quando questo atto di volizione non si compia, non si ha un giudizio pratico, né azione vera e propria.
Il giudizio pratico è sempre un giudizio sul valore di ciò che sollecita il nostro atto di scelta, ma è qualcosa di più: ha carattere operativo, precede immediatamente e accompagna l’azione. Il giudizio pratico è quello con cui il soggetto, con un salto di auto-determinazione, determina quale tra le possibili volizioni è quella che diventa reale. Il giudizio pratico ci fa scegliere tra i termini che costituiscono il bivio morale.
Secondo quale criterio noi formuliamo giudizi speculativi e secondo quale criterio noi prendiamo posizione scegliendo nel giudizio pratico?
Il modo di vedere le cose (giudizio speculativo), fuori e prima di un esplicito e reale atto di scelta, e il modo di prendere posizione scegliendo hic et nunc (giudizio pratico) si rapportano ambedue a due stime o criteri.
Stima soggettiva:
– dà primato a un bene soggettivo (il mio maggior vantaggio o il maggior vantaggio del mio gruppo);
– il valore delle azioni e degli esseri dipende dalla loro capacità di soddisfare le proprie tendenze, il piacere, l’interesse individuale del soggetto;
– il grado di attrattiva e di impulso degli oggetti di desiderio è ingigantito da inclinazioni e passioni soggettive quali l’utile, il piacevole, il comodo, il successo, la volontà di affermazione, la pressione sociale, ecc.
Stima oggettiva:
– tende al bene oggettivo (il maggior valore intrinseco);
– obbedisce al «bisogno infinitamente prezioso… che si fa sentire a un certo grado di sviluppo dell’umana intelligenza» di giudicare le cose e gli eventi per quel che sono e dunque per quel che oggettivamente valgono.
Felicità e benessere soggettivi non sono per sé mali, ma beni, qualora siano voluti nell’ordine di valore delle cose. I due criteri, il soggettivo e l’oggettivo, sono non solo diversi, ma eterogenei e incommensurabili, cioè privi di un denominatore comune: «non hanno tra sé niente di simile, niente di analogo, non possono essere messi a confronto». La libertà «bilaterale» del soggetto sceglie tra una volizione che ha per oggetto un bene ontologico e un’altra che ha per oggetto un sentimento soggettivo.
Il principio supremo della vita morale
È di assoluta evidenza e può essere così formulato: «Riconosci praticamente l’essere nell’ordine suo» e cioè «agisci in modo da trattare ogni essere in rapporto al suo effettivo valore», «riconosci l’essere tal quale egli è».
«La volontà per essere buona dee amare tutto e amarlo nell’ordine suo naturale». Operare in tal modo significa seguire praticamente il lume della ragione (per Rosmini l’idea dell’essere), cioè l’illuminazione dataci dalla conoscenza razionale (intellettiva) per cogliere il grado di perfezione o valore degli esseri. «Segui il lume della ragione» è, pertanto, una formulazione del principio supremo della vita morale che corrisponde perfettamente alle altre.
Ci si chiede: la legge morale per Rosmini ha carattere formale oppure no?
Rosmini rileva innanzitutto la vacuità di cercare di dedurre tutto il contenuto della morale da un unico principio. La legge morale ha carattere formale in quanto esprime il principio, il criterio secondo cui si deve volere perché un’azione sia moralmente buona, in quanto esprime in modo puro e semplice l’essenza dell’obbligazione, la forma stessa dell’agire.
Ma è evidente, per Rosmini, che il principio secondo cui si deve volere ha un’intrinseca, necessaria relazione con gli oggetti della obbligazione. La legge morale non può non essere che incondizionata, universale e dunque formale; ma essa supera il formalismo perché non è indeterminata e astratta in se stessa, e infatti comanda alla volontà del soggetto di riconoscere, in ogni momento, praticamente tutti gli essere a cui si rapporta per quello che sono. La legge morale ha carattere formale, ma la modalità razionale interiore, universale dell’atto morale ha un fondamento oggettivo, ontologico.
La natura profonda del nostro volere è inclinata a volere gli enti secondo il loro valore oggettivo; ma non sempre l’uomo è fedele all’interiore comando della volontà razionale. La libertà di scelta decide per l’una o l’altra volizione e aderisce a un bene soggettivo, trascurando il bene oggettivo, o aderisce al bene oggettivo, trascurando quello soggettivo.
Rosmini precisa che la libertà di scelta non consiste nella libertà di decidersi tra un male e un bene (perché è evidente che l’uomo non sceglierebbe mai il suo male), ma tra due o più oggetti di volizione che gli si presentano ambedue come beni. Tutti gli esseri, infatti, sono beni: tutti hanno un certo valore, che tuttavia non è uguale per ogni essere.
Il male morale, nella sua essenza, sta nel giudizio pratico soggettivo, nel rifiuto d’una norma oggettiva e, dunque, del criterio di verità.
La libertà si esercita nella scelta tra un bene oggettivo e un bene soggettivo, il primo infinitamente più pregevole, tutto intimo alla coscienza e senza immediati vantaggi; il secondo, finito e imperfetto, ma di più immediata efficacia pratica.
Il male consiste nella diserzione del bene oggettivo, nel preferire ciò che ha un prezzo a ciò che ha dignità, nel conferire una pretesa assolutezza a ciò che ha un valore limitato e, spesso, strumentale. Come è possibile tale «desertio meliorum»?
Per un atto di auto-inganno. Nel giudizio speculativo un valore è conosciuto e affermato come tale, ma poi praticamente è calpestato e offeso. Io so che la salute, la vita, i diritti d’una persona umana al suo sviluppo perfettivo valgono assai più dei miei comodi e del lusso costoso; tuttavia agisco come se tutto ciò non valesse per me. Nella pratica agisco pensando: non me ne importa.
Questa difformità tra giudizio speculativo e giudizio pratico nasce dalla «terribile forza di dire falso al vero, male al bene, disconoscendo quello che si conosce». Qui cessa il bisogno di ogni dimostrazione e l’obbligazione di fare il contrario è ridotta all’evidenza.
Tre corollari
Dal principio supremo della morale discendono tre corollari:
La legge morale è prima di tutto un dato della coscienza stessa, e l’uomo che la vive potenzia e perfeziona la propria natura; solo una riflessione posteriore sulla morale porta ad affermare che la legge e lo stesso soggetto umano hanno la loro definitiva giustificazione in Dio. Dio, dunque, non è il prius intuito nella morale e in tal senso non si può dire che la legge morale è tale in quanto appare un comando divino (condanna della morale teologica autoritaria), anche se, in ultima analisi, l’autonomia della legge morale si radica solo nell’Assoluto. L’interiore legislazione non si intende se non inquadrandola, come diceva lo stesso Kant, «in un più alto e immutabile ordine», non essendo né un fatto naturale, né un mero fenomeno psicologico.
L’uomo promulga in sé o calpesta la legge morale quando decide di orientare o no la sua vita secondo ragione; ma non può rivendicare a sé l’origine prima della legislazione interiore, inseparabilmente connessa alla creazione di un ordine morale, di cui l’uomo è reso partecipe. La volontà umana è creatrice dell’azione morale, non della legge o dei valori morali. La ragione umana non è legislatrice e, nel contempo, non è eteronoma, essendo obbligata ad agire conquistando la sua indipendenza da motivi estrinseci e inferiori, con libertà interiore e purezza d’intenzione.
Fondazione in Dio della legge morale
L’autonomia, come si è detto, è indipendenza da motivi estrinseci ed inferiori. Siamo tutti responsabili verso la nostra coscienza e la coscienza indica la presenza vigile e giudicante di noi a noi stessi in ogni momento del nostro agire, indica quel foro interiore in cui è pronunciata la prima sentenza del nostro valore di uomini.
Ma l’autonomia della coscienza umana si convalida nella teonomia: l’uomo non può rispettare la propria coscienza se non venerandola come l’altare di Dio (sit ara Tua coscientia mea). Il pensiero umano non si fa assoluto se non come pensiero dell’Assoluto; tutto può diventare arbitrario per una coscienza che non si radichi nell’Assoluto della sua origine, senza un orientamento dell’anima a Dio. Senza un rapporto personale con Dio, il bene è troppo privo di forza: esso ha ontologicamente le radici della sua forza solo nel Dio vivente.
L’interna legislazione della coscienza concresce col riconoscimento della legislazione divina che informa la natura razionale creata. Non si dà libertà di sorta per l’uomo – ammonisce il Rosmini – ove lo si consideri solo in relazione con sé e con i suoi simili e si faccia astrazione della sua relazione con Dio: dato un bene non assoluto, mai si troverà modo di spiegare il fatto di un’assoluta obbligazione senza cui la morale non è più tale. L’uomo ha prezzo assoluto a condizione che lo si consideri ordinato a un bene assoluto.
È la teonomia, è la fondazione in Dio della legge morale che consacra l’uomo, dandogli giusto titolo ad un’assolta inviolabilità. Ed è per questo che il Vangelo di Cristo pone con divina sapienza nell’amore di Dio la radice dell’amore per gli uomini, facendo seguitare questo a quello come un secondo ad un primo, un simile ad un esemplare. La morale è la perfezione conclusiva dell’essere, il carattere morale il fulcro della personalità di ogni uomo, la sua interiore unità: unità che il Rosmini mirabilmente esprime col motto epigrafico: «il vero che l’intelletto apprende, il cuore senta e l’opera manifesti».
La critica dei sistemi morali falsi o inadeguati
I sistemi che rendono impossibile il principio della morale sono quelli che eliminano uno degli elementi che formano l’essenza dell’atto morale: la legge morale, la cognizione intellettuale deve giudicare con una stima pratica oltre che speculativa, la volontà libera, l’ente assoluto che ha valore di fine.
Non si deve confondere l’ordine morale con quello conoscitivo (intellettualismo socratico) o affettivo (Shaftesbury, Adam Smith), né con l’appagamento delle tendenze naturali (Claude-Adrien Helvetius confonde l’ordine morale con l’ordine animale).
Chi pone il dovere dell’uomo nel piacere, fosse anche quello della specie più elevata, nega la morale: così gli edonisti (cirenaici ed Epicuro), gli utilitaristi e gli stessi eudemonologisti. Il piacere è estremamente soggettivo e i sistemi fondati sul piacere sono essenzialmente sistemi di egoismo. Né vale credere che parlando di utile «sociale» le cose possano cambiare di segno.
Altri sistemi colgono il vero principio della morale, ma non l’esprimono esattamente; conoscono il carattere imperativo del principio morale, ma sbagliano nel ritenere che l’imperativo morale sia una facoltà del soggetto stesso: Kant volle appunto identificare la legge morale e la volontà dell’uomo dichiarata legislatrice. Il Rosmini muove a Kant queste obiezioni:
ROSMINI NELLA STORIOGRAFIA ITALIANA
La polemica tra Gioberti e Rosmini
La polemica tra Rosmini e Gioberti giovò ad ambedue e alla storia critica del pensiero: le Postume giobertane integrano e correggono l’ontologismo; la Teosofia rosminiana supera ed integra l’ideologia del Saggio con la dottrina ontologica (che però non è mai ontologistica).
La discussione era di grande momento, toccava i primi principi della filosofia e della religione; per questo Gioberti ritenne opportuno non tacere, lanciandosi nella polemica con un foga eccessiva; per lo stesso motivo Rosmini volle tacere per lungo tempo, rimeditando, per rispondere, tutta la sua filosofia.
Per Gioberti il limite della visione intuitiva è soltanto a parte subiecti, in quanto il soggetto intuente è finito; per Rosmini la differenza tra l’intuito e l’idea di Dio è anche a parte obiecti: si tratta di due oggetti presenti all’intelligenza umana in due modi differenti (l’uno per intuito, l’altro per ragionamento integrativo) e con contenuto differente.
In sostanza, Rosmini e Gioberti fondano l’intelligibilità del mondo sull’esistenza di un oggetto primo assoluto visto intuitivamente; ma per Rosmini oggetto dell’intuito è il divino, non Dio, e d’altra parte, il Gioberti delle Postume restringe sempre di più il potere dell’intuito.
Gioberti non ebbe la possibilità di leggere la Teosofia e non poté aver presenti gli sviluppi del Rosmini in senso ontologico; cadono così le sue accuse di psicologismo, nullismo e panteismo. Ma altrettanto si può dire di gran parte delle accuse con cui il Rosmini polemicamente ritorce le affermazioni dell’avversario.
Le obiezioni che Gioberti muove a Rosmini
La risposta di Rosmini
Le vicende esterne della polemica
1830: Rosmini pubblica il Saggio.
1837: Gioberti pubblica la Teorica in cui loda Rosmini e manifesta le prime riserve sul Saggio per ciò che riguarda l’ontologia.
1839: Un articolo di Rosmini pubblicato sul Cattolico di Lugano dà l’avvio alla polemica. Gioberti, prima di conoscere l’articolo del Rosmini, scrive e pubblica la lunga nota critica verso il Rosmini nell’Introduzione alla storia della filosofia. Alle critiche Rosmini non risponde.
1842: Michele Tarditi, antico amico di Gioberti, risponde con «Lettere di un rosminiano a Vincenzo Gioberti».
1843: Gioberti lancia le sue lunghissime «lettere» che formano il primo volume dell’opera Degli errori filosofici di Antonio Rosmini: lo sfogo tocca qui la bassura del litigio. Il teologo Paolo Barone cerca di fare da paciere, ma appare al Gioberti troppo parziale verso il roveretano. Un articolo del rosminiano Gustavo Benso di Cavour trascende in apprezzamenti lesivi della dignità civile ed ecclesiastica dell’esule. Altro infausto paciere è Nicolò Tommaseo nello scritto Il Rosmini e il Gioberti (nel volume Studi critici, 1843): «Amo il Rosmini come raggio di luce più che umana, ma il Gioberti amo e rammento i colloqui dell’esilio, e gli esempi di schietta virtù». Gioberti dà alle stampe altre due lettere e la Trilogia della formola ideale e dell’ente possibile.
1844: Altri sette dialoghi sono progettati dal Gioberti e composti, ma il quarto volume Degli errori filosofici di Antonio Rosmini non appare per la sazietà generata dall’argomento nell’autore e nei lettori.
1845: Rosmini pubblica anonimo sul giornale Imparziale di Faenza un articolo «Difficoltà che l’abate Vincenzo Gioberti move alla filosofia di Antonio Rosmini ridotte a sillogismo con le loro risposte».
1846: Rosmini pubblica le «lezioni filosofiche» su Vincenzo Gioberti e il Panteismo.
1848-1849: reciproca comprensione pubblica e collaborazione alle vicende nazionali.
1850: nota del Gioberti nella ristampa della Teorica: si duole della vivacità del dettato, dovuto soprattutto al tono acre delle critiche mossegli dai discepoli del Rosmini. «Quando conobbi di persona il Rosmini cominciai anch’io a venerare con tutta Italia tanta sapienza e tanta virtù».
1851: Rosmini discute pubblicamente il pensiero di Gioberti nel Preliminare alle opere ideologiche.
1852: Gioberti muore in esilio. Rosmini celebra la messa da requiem a Stresa per l’amico-contraddittore; Manzoni è inginocchiato ai piedi dell’altare.
1859: Viene pubblicata postuma la Teosofia, opera in cui le ragioni del Gioberti sono presenti ed operanti per chiarire il problema ontologico senza peraltro inclinare verso l’ontologismo.
La controversia con Terenzio Mamiani
Nel 1834 il conte pesarese Terenzio Mamiani pubblica il Rinnovamento dell’antica filosofia italiana che nella parte II, cap. XI, critica la teoria rosminiana della conoscenza:
– non è legittimo affermare che la persona non possa a nulla senza l’idea dell’essere;
– l’idea dell’essere è concepita erroneamente come sostanza;
– l’idea dell’essere non deve necessariamente ritenersi ultimo termine dell’astrazione;
– Rosmini, come tutti quelli che partono dalle forme dell’intelletto, è soggettivista non potendo dimostrare la realtà del mondo esterno.
La risposta del Rosmini nel suo Rinnovamento della filosofia italiana fu assai vivace e severa:
– Mamiani fraintende Rosmini intendendo l’essere ideale come formato dalla nostra mente, mentre per Rosmini esso è intuito da noi naturalmente, anche se noi ci accorgiamo riflessivamente d’intuirlo solo quando giungiamo all’ultima operazione che possa fare la facoltà astrattiva
– è falso che Rosmini abbia tramutato l’idea dell’essere in sostanza, distinguendo egli a chiare note la sussistenza o realtà della sostanza e la possibilità dell’idea; egli imposta tutta l’ideologia proprio sulla distinzione tra l’idea di una cosa e il giudizio di sussistenza della medesima. Esempio manzoniano: il grano pensato e il grano venduto sono lo stesso identico essere, ma «categoricamente differenti»;
– il fatto che l’idea dell’essere non è sostanza non significa però che essa non si trovi in tutte le altre idee: le quali in lei si comprendono non a quel modo che l’accidente aderisce alla sostanza, ma in quel modo proprio onde una specie sta nel genere, una conseguenza nel principio, una idea meno universale nella più universale.
L’interpretazione di Bertrando Spaventa e di Giovanni Gentile
Per Spaventa la filosofia rosminiana si pone il problema kantiano della possibilità dell’esperienza in generale; la percezione intellettiva è uguale al giudizio sintetico a priori, l’idea dell’essere alle forme a priori. Rosmini è quindi un «kantista con maggiore coscienza del Galluppi», «Rosmini crede essere più kantista di Kant».
Secondo Gentile, Rosmini è il Kant italiano, che voleva appagare la sua sete di verità in quella tradizione religiosa dalla quale la sua filosofia era ispirata. Questa parte è di secondaria e scarsa importanza essendo estrinseca, procedente da motivi alieni alla scienza filosofica: è ciò che nel Rosmini non è consentaneo con le vedute fondamentali di Kant. Rosmini aveva accettato da Kant il concetto che pensare è giudicare, l’attribuzione dei dati della sensibilità e l’apriorità del contenuto formale del conoscere. Il suo opporsi a Kant opera una cesura illogica, ma pur utile ai suoi superiori intenti (animazione etico-religiosa del rinnovamento degli italiani).
Per Gentile persino nella morale il Rosmini è kantiano: non c’è dualità tra legge e volontà, identificandosi per il Rosmini la legge con la forma prodotta dalla volontà stessa, così come l’idea dell’essere è uguale alla categoria prodotta dall’intelletto. L’essere ideale (oggettivo intuito) è l’essere ideale soggettivo e funzionale nel senso delle categorie kantiane.
Critica all’interpretazione di Spaventa e di Gentile:
a. Rosmini accetta la pregiudiziale gnoseologica, ma imposta il problema della conoscenza su basi metafisiche;
b. l’a-priori di Rosmini non è l’a-priori di Kant in quanto quello del Rosmini non rende inane la metafisica; e quando mai Rosmini, critico implacabile e a volte eccessivo del «sofista di Kønisberg» si è vantato di essere più kantista di Kant?
c. si può consentire che l’idea dell’essere ha anche un significato funzionale ma è assolutamente arbitrario rifiutarne «con un sorriso», come fa e dice Gentile, il significato ontologico;
d. non è vero che Rosmini intenda male il soggetto dell’etica kantiana, scambiandolo col soggetto contingente, ma è che Rosmini nega l’esistenza di un soggetto come lo pensava Kant, e come poi se lo forgiarono con sfarzosa fantasia gli idealisti. Per Rosmini la legge morale è oggettiva, eterna e necessaria, e la volontà non crea, ma applica la legge. La ragione umana è legislatrice per Kant, promulgatrice per Rosmini: un soggetto che fosse creatore della legge non sarebbe più un uomo, ma un Dio.
Le osservazioni di Bernardino Varisco
Cfr. Tra Kant e Rosmini, «Rivista di Filosofia», Anno I (1909), n.1.
Se la verità è indipendente dal soggetto e la cognizione è sempre di un determinato soggetto, come può l’uomo uscir fuori di sé?
Il problema è mal posto e perciò insolubile, non essendovi le cose da una parte e il pensiero umano dall’altra, ma tra le une e l’altro una fondamentale identità: l’essere ideale, incluso nella coscienza, la rende pensante; incluso nelle cose, le fa essere. Le leggi della mia attività pensante sono sempre soggettive; il ponte tra l’io e il non io è costituito soltanto da qualcosa che sia in me in modo tale che io non possa nemmeno supporlo esistente soltanto in me, senza contraddire a quello che so avendolo in me. Allora soltanto dovrò riconoscere nelle leggi del mio pensiero le leggi dell’essere, una realtà che mi oltrepassa.
Malgrado le acute osservazioni, Varisco non si rese conto compiutamente del valore ontologico dell’idea dell’essere.
L’interpretazione di Pantaleo Carabellese
a. La precedenza dell’intuito non è meramente logica ma cronologica, precedendo per natura e tempo il giudizio che genera la percezione.
b. Rosmini, facendo innato l’a-priori, falsa il concetto di forma. Ma Rosmini non ha mai voluto che il suo apriorismo fosse quello di Kant, assumendo nella teorica della conoscenza una posizione tale da assolvere anche gli scopi metafisici che il Kant si vide sfuggire.
c. L’originalità del Rosmini sta nell’affermare, a suo modo, la positiva oggettività dell’umano conoscere, proclamando inscindibile dalla coscienza l’oggettività e, quindi, l’idealità dell’essere, mettendo in evidenza l’esigenza ontologica del cogito e inverando l’inseità del noumeno (pensabilità più che conoscitiva, ricchezza priva di limitazioni) nell’unicità eterna ed infinita dell’essere ideale.
Per Carabellese l’immanenza della filosofia italiana non è quella della filosofia tedesca, risolvente la realtà nell’universalità dell’unico soggetto trascendentale, ma l’immanenza dell’oggetto assolto alla coscienza dei soggetti, un ontologismo panteistico che è completamente estraneo alla lettera e allo spirito del Rosmini e della filosofia italiana, anche se Carabellese cerca nella filosofia del Roveretano una conferma alla sua tesi filosofica e insieme interpretativa della filosofia italiana.
Considerazioni generali
a. Rosmini non è il Kant italiano ma l’anti-Kant pur affrontando gli stessi problemi di Kant; e sotto molti aspetti segna un passo avanti rispetto a Kant.
b. Il genio di Rosmini fece sue le esigenze del razionalismo, dell’empirismo, del kantismo e dell’idealismo, rigettandone le pericolose conseguenze: con l’idea dell’essere diede una soluzione adeguata del problema conoscitivo, salvaguardando l’interiorità del vero e la sua oggettività ontologica; con l’essere nella sua forma morale restituisce la filosofia al problema dell’uomo e della sua attività come attuazione della legge di Dio, interiore alla sua coscienza, che è legge d’amore universale.
c. Le interpretazioni kantiste, idealistiche, ontologistiche di Rosmini hanno nociuto non poco all’intelligenza del Rosmini e alla sua fama, specialmente fuori dell’Italia: col passaporto falso o non si varcano i confini della propria terra o, se vi si riesce, bisogna vivere in incognito (Michele Federico Sciacca).
d. Tradizione e modernità nel pensiero rosminiano. Rifacendosi alla speculazione tradizionale dei Padri e dei dottori della Chiesa, egli rispose, dentro lo spirito del pensiero tradizionale, alle nuove istanze e ai nuovi problemi posti dal pensiero moderno. Un pensiero vitale e vero non teme di farsi più scaltrito, più robusto al contatto con le tendenze diverse ed opposte del pensiero moderno, dei suoi errori e dei suoi avanzamenti. Quando si è criticamente certi del vero bisogna accettare gli avversari sul terreno da loro stessi scelto. Rosmini riporta in seno al pensiero moderno, di cui condivide l’esigenza d’interiorità e la concezione della filosofia come esperienza di vita spirituale, il senso autentico dell’interiorità stessa sulla base dell’idealismo oggettivo: non immanenza della verità al pensiero, ma presenza in noi della verità che ci fonda e ci trascende.
NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate.