Giornale di Brescia, 12 novembre 1996
Chi vuol incontrare Socrate deve leggere e rileggere la breve opera prima di Platone, “Apologia di Socrate”. Quello scritto, con cui Platone esordisce due o tre anni dopo la tragedia, e dunque nel 397-96 a. C., non solo inaugura un tema che sarà molto sfruttato dai contemporanei e dai posteri, ma consegna per sempre all’umanità il ritratto inconfondibile del maestro. L’ “Apologia” è, infatti, la verità socratica per così dire stilizzata e proprio per questo è uno dei libri più virili della letteratura mondiale, il breviario degli spiriti liberi e forti di ogni tempo. Eccezionale, pertanto, è il suo interesse storico, essendo stato composto e diffuso immediatamente a ridosso di un evento pubblico su cui Atene si era divisa e che, dunque, era ben vivo nella coscienza sia degli amici, sia degli avversari di Socrate. Di più: l’ autore dello scritto si è premurato di dirci in due punti (34a e 38b), a garanzia della sua veridicità, di aver assistito di persona all’ autodifesa di Socrate.
Chi sono coloro che portano Socrate, ormai settantenne, in tribunale e con accuse che, se accolte dai giudici, comportano la pena di morte? L’ effettivo istigatore di tutto l’affare è Ànito, uno dei più seguiti capi della restaurata democrazia ateniese. Non era, come si potrebbe credere, un uomo dominato dal fanatismo pseudo-religioso, ma era un conservatore gretto. Ricco conciatore di pelli, era un politico calcolatore molto influente. Socrate era ai suoi occhi un tipo sospetto della peggior specie proprio perché del tutto indipendente da ogni fazione, implacabile nel sottoporre ogni interlocutore e ogni idea alla verifica del dialogo, deciso a rivendicare in ogni occasione per i singoli sia per la polis una nuova misura di valori e una nuova morale determinata da questa misura. Per Ànito Socrate era, dunque, l’uomo che poteva erodere, come nessun altro, il consenso al potere e scuotere in tal modo, quella democrazia conservatrice di cui egli era uno dei maggiori rappresentanti. Il fatto poi che il filosofo avesse enorme successo tra i giovani faceva di lui il «corruttore» più temibile. Insomma, per il politico Ànito, che si era assunto il compito di «salvatore» della patria e della democrazia, stava la maggioranza degli anziani, mentre Socrate aveva dalla sua i giovani e ciò costituiva per la destra al potere un’intollerabile minaccia. Ànito, però, è personaggio ripugnante non solo e non tanto per l’angustia della sua concezione politica, ma soprattutto perché si serve di un accusatore di comodo a cui fa recitare la parte principale nell’ accusa. Si serve appunto di un uomo che certo disprezzava, un certo Melèto, un poetastro fanatico di poca intelligenza e, dunque, facilmente manipolabile. Il terzo accusatore è tal Licòne, un retore chiamato a coprire l’area degli intellettuali asserviti ai politici. I fatti descritti nell’”Apologia” si svolgono davanti a un tribunale composto di 500 giudici sorteggiati. Parla per primo il portavoce degli accusatori. I capi di imputazione contro Socrate sono due: empietà e corruzione dei giovani. Socrate per gli accusatori è reo di irreligione, “non venera gli dei ufficiali della città” e “indaga con animo empio le cose del cielo e della terra”; corrompe i giovani, perché “fa prevalere la causa cattiva , sulla buona e insegna agli altri a fare altrettanto”.
La parola passa poi a Socrate, il quale tiene così il suo primo discorso, ma a modo suo, interrogando accusatori e giudici, nel linguaggio schietto di tutti i giorni, rifiutando nel modo più assoluto di adulare i giudici, che anzi richiama al proprio ufficio: “Badate, e badate molto scrupolosamente se io dica cose giuste o no”. I pregiudizi di Ànito e Melèto contro Scorate e il suo metodo di ricerca non avrebbero portato il filosofo dinanzi ai giudici, se altri in tempi lontani non avessero sparso a piene mani nei suoi confronti analoghe, infamanti insinuazioni. Il caso limite è rappresentato dalla commedia “Nubi” di Aristofane, che aveva nutrito di menzogne tanti ateniesi. Quelle menzogne, ripetute “con deliberata malignità” per un quarto di secolo, quando ad Ànito e al suo partito è parso utile si sono tradotte in capi d’accusa. Socrate precisa che non disprezza affatto le conoscenze riguardanti il cielo e la natura e non crede affatto che esse comportino l’ateismo; però pur essendosene interessato da giovane, come dirà poi nel “Fedone”, egli ben presto decise di occuparsi d’altro. La sua ricerca riguarda solo il significato dell’esistenza, «il diventare quanto più possibile perfetti in una visione spirituale della vita» (36c); insomma, ciò che costituisce l’autentica vocazione dell’uomo, il suo vero bene. Quanto poi all’accusa di empietà, di essere seguace di una «strana religione», Socrate si limita solo a rilevare che vi è contraddizione fra il dire che egli crede in un’altra divinità, che non si identifica con quella mitico-cultuale della polis, e l’accusa di ateismo.
Melèto sosteneva il secondo capo d’accusa, secondo cui Socrate depravava i giovani. Ma a Socrate è facile replicare che i giovani si accompagnavano a lui «senza alcuna pressione da parte sua e senza pagargli compenso», non avendo egli da insegnare alcunché a chicchessia. Il suo compito, infatti, non è insegnare, ma svegliare le coscienze a se stesse, liberarle dal sonno facendo scoprire ad esse quel bisogno incoercibile di verità e quella passione per il bene senza di cui l’esistenza umana diventa belluina. Rimane comunque da spiegare come mai Socrate sia divenuto per una parte degli ateniesi il bersaglio di tanto malanimo. Interviene qui la nota storia dell’oracolo di Delfo e della sua risposta a Cherefonte, che cioè nessun uomo sulla terra era allora più sapiente di Socrate. Socrate rimase fortemente sconcertato da quella sentenza e si mise al lavoro per dimostrare che l’Apollo di Delfi era bugiardo. Cercò dappertutto un uomo più sapiente di lui. Interrogò gli uomini di Stato , gli artisti e gli intellettuali, i commercianti e gli artigiani. Ma in quella ricerca toccò con mano quanto smisurata fosse l’arroganza, la reale vuotaggine sulle questioni che più contano di coloro che pure hanno la pretesa di insegnare agli altri ad esercitare il comando. Un’illuminante conclusione, però, Socrate la trasse da quell’esperienza: che, sia pure parlando per enigmi, l’oracolo delfico intendeva dire che solo Dio è sapiente e che la sapienza umana è così poca cosa al punto che l’uomo più sapiente è uno che, come Socrate, sa di non sapere. La docta ignorantia, la professione consapevole della propria ignoranza, doveva dunque essere premessa per ogni esercizio umile e insieme rigoroso del logos. Ma le vittime dell’esperimento non erano affatto felici di riconoscersi ignoranti e presuntuosi quali erano; la loro albagìa e la loro posizione sociale rendevano le loro anime chiuse al coraggio della sincerità e incapaci di mettersi in chiaro con se stesse. Si capisce perché ad un certo momento furono d’accordo per sbarazzarsi di Socrate.
Dopo aver spiegato l’esistenza di pregiudizi a lui sfavorevoli, che risalgono a giorni lontani, e dopo aver direttamente risposto a Melèto (17a – 27e) Socrate passa ad assolvere un obbligo a cui, date le circostanze, non poteva sottrarsi: illustrare il senso stesso della sua vita, del servizio reso alla città in obbedienza a un comando divino. Ebbene, sì, la terza parte, quella conclusiva dell’”Apologia”, dovrebbe essere breviario di vita e fonte di ispirazione per ogni uomo degno di tal nome. Quelle pagine costituiscono la parola più alta che sia stata mai pronunciata prima che i Vangeli ci recassero la parola di Cristo. Non si possono riassumere, bisogna ascoltarle. Chiunque le mediti nel cuore della propria anima, ne rimarrà segnato.