Ciò che più colpisce in Pascal è la giovinezza del pensiero, privilegio di quegli spiriti per i quali vivere è cercare la verità con tutta l’anima. Son passati trecent’anni dalla sua dipartita, ma per coloro che lo avvicinano e lo comprendono nella grandezza del suo genio multiforme e nella verità della sua parola Pascal rimane un incomparabile maestro di vita.
Egli odiava «les mots d’enflure», gli artifici dialettici e le formule soddisfatte che gonfiano di vento le teste; allo spirito di sistema, alla certezza, all’assetto matematico di ogni conoscenza – aspetti dominanti nell’età cartesiana – Pascal preferì le verità difficili e l’inquietudine feconda della ricerca. Questo è il senso profondo delle riflessioni sull’esprit de géométrie e sull’esprit de finesse. Per evitare il pericolo di adulterare la realtà con precostituite simmetrie di concetti, è sempre bene esaminare una qualunque realtà da differenti punti di vista e cercare il significato di essa nella convergenza dei risultati a cui si è pervenuti attraverso molteplici prospettive. Dinanzi al sempre rinascente fascino dell’esclusivismo, della matrice unica e dell’unica causa delle più diverse manifestazioni della natura e dello spirito, contro l’apparente «scientificità» dei monismi distruttivi, la lezione di Pascal è attuale oggi come e più che al tempo di Cartesio.
Per conto suo Pascal, prima di muovere un passo verso un’affermazione, prende tutte le possibili precauzioni, esamina il pro e il contro di ogni tesi, fedele al presupposto della sua metodologia sia che tratti di scienza, sia che tratti della dialettica delle passioni umane o delle verità cristiane: non i fatti devono essere sottoposti alla nostra possibilità di concepirli, ma la ragione deve guardare ai fatti, penetrarli nel loro significato e, quando sia necessario, riconoscere che ve ne sono di quelli che oltrepassano la sua capacità di spiegazione. Così nelle indagini sul mondo umano e sul significato ultimo dell’esistenza, come nelle ricerche matematiche e fisiche, ogni possibile alternativa è presa in esame, ma, una volta afferrato il nodo vitale della sola effettiva soluzione, Pascal dispiega un’audacia estrema nel tirarne le conclusioni congiungendo, con un’attitudine sbalorditiva e tipicamente moderna, al massimo di chiarezza il massimo di fecondità.
Da un’intelligenza sovrana e da un cuore ardentemente assetato di verità, dal cuore e dalla mente di Pascal sgorgò la più bella e profonda apologia moderna del Cristianesimo; e, si badi, apologia non nel senso di difesa, ma in quanto discorso introduttivo, protreptico, illuminante.
L’apologia pascaliana è scienza della creatura, perché muove dall’esame dell’effettuale condizione umana: è il «Novum Organum del mondo umano», com’è stato detto felicemente. In essa l’uomo si fa problema a sè stesso, problema i cui dati innegabili, miseria e grandezza, sono indistinguibili pur nella loro opposizione. Reale è la duplicità dell’uomo e vera è solo quella concezione che dà ragione di essa e la supera in una verità assoluta e pure partecipabile e interiore all’uomo. Sul filo conduttore dell’esistenza umana, ricostruita secondo piani diversi e indagata nel significato metafisico dei suoi atteggiamenti fondamentali, Pascal delinea la scoperta del Cristianesimo come verità, in quanto soluzione reale dell’enigma della vita.
I “Pensieri” di Pascal non costituiscono un’opera sistematica, ma non sono un’accozzaglia di frammenti; vi è una profonda unità tra i temi essenziali della meditazione pascaliana così disillusa, grandiosa, realisticamente pessimistica: finitismo tragico e dignità dello spirito, miseria e grandezza dell’uomo, orgoglio stoico e disperazione scettica, ateismo e deismo, opposti riconciliati – per la verità che contengono – in Cristo, nel quale «si risolvono tutte le contraddizioni» (fr. 684), perché «in Lui troviamo Dio e la nostra miseria», avendo Egli insegnato agli uomini un’umiltà senza illusioni ed un nuovo senso della loro grandezza.
Una fra le molte ragioni per cui l’opera di Pascal ci tocca così da vicino è il suo prender di petto l’ateismo, il suo scendere in campo aperto a misurare le ragioni del no a Dio (due secoli dopo in ciò l’umanità potrà annoverare lo scandaglio in profondità compiuto da Dostoewskj). La radicale onestà intellettuale e morale di Pascal lo rende avvertito del pericolo delle facili spiegazioni: «Io vedo per ragione e per esperienza, che nulla è più indicato delle facili spiegazioni a far nascere il disprezzo degli atei» (fr. 242). Non è affatto vero che sia facile credere: «Non posso avere che compassione per coloro che gemono sinceramente nel dubbio, che lo considerano come la suprema delle sventure e che, non risparmiando nulla per venirne fuori, fanno di questa ricerca la loro principale e più importante occupazione» (fr. 194). Ma Pascal nello stesso brano ora citato denuncia con rigore le gravissime insufficienze umane prima ancora che logiche dell’ateismo: l’indifferenza ostentata dell’ateo per il destino eterno dell’uomo è stordimento che fa paura, è disumanità; quando poi l’ateismo è odio perverso e persecutorio, i suoi sostenitori che cos’altro sono se non gli ardenti missionari del nulla? «Sono persone prive di cuore; non ce ne faremo degli amici» (fr. 196). E conclude epigraficamente: «Ateismo, inizio di forza intellettuale, ma fino a un certo grado soltanto» (fr. 225).
Una frase – «il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce affatto» – ha acceso un focolaio di equivoci intorno alla personalità e al pensiero di Pascal. Chi non cita a sproposito quelle parole? Ma che si provi a non decapitarle arbitrariamente dal fr. 277, a cui appartengono, e allora si vedrà quanto contrario alle intenzioni profonde dell’autore sia l’abuso che di esse si è fatto. Il frammento, dopo la troppo famosa frase iniziale, prosegue: «Io dico che il cuore ama l’essere universale naturalmente e ama se stesso naturalmente, secondo a quale dei due si attacca». Qui le coeur è la facoltà di scelta dell’oggetto da amare e null’altro. In altri passi è l’organo intuitivo dello spirito, l’organo per così dire dell’esprit de finesse; la qual cosa ampiamente Pascal illustra nel fr. 282, a cui rimandiamo il lettore che voglia farla finita con un luogo comune tanto celebre, a più riprese dottamente commentato, quanto infondato e, in un certo senso, ridicolo, perché se c’è un pensatore e un uomo in cui l’abito scientifico e il rigore morale sono impermeabili alla «sensiblerie» romantica questi è proprio Pascal, a cui non si poteva recare offesa maggiore che far suonare le sue parole a giustificazione dell’incontrollabilità del sentimento e della soggettività emotiva.
Quel luogo comune serviva però ad accreditare con immediatezza magica il preteso irrazionalismo di Pascal, e questo a sua volta il fideismo, quale esito finale dell’apologia. È il caso di dire: ecco un esempio di falsa evidenza. Colui che ha scritto: «La ragione ci comanda ben più imperiosamente che un padrone: infatti chi disobbedisce a quella è uno sciocco (on est un sot)» (fr. 345) non era un sot. Pascal conosce e descrive la condizione drammatica della ragione umana, impegnata direttamente a costruire il destino temporale ed eterno di colui che pensa; egli se la ride della superstizione razionalistica della ragione, ma ha rispetto della ragione che conosce i suoi limiti, i quali altresì attestano ciò che è in suo potere. «L’ultimo passo della ragione è di riconoscere che c’è un’infinità di cose che la superano; non è che debole cosa, se non giunge fino a conoscere questo. Ma se le cose naturali la sorpassano, che dire di quelle sovrannaturali?» (fr. 267). Occorre respingere la presuntuosa autosufficienza del razionalismo e la disperazione scettica del fideismo. È quanto il Cristianesimo esige e rende possibile a coloro che l’accolgono in spirito e verità.
L’opera di Pascal è certamente discutibile in molti dettagli e in qualche importante concezione teologica, ma nell’essenziale Pascal non si è ingannato. La sua visione cristiana del mondo è sorretta dall’esperienza religiosa più intensa e insieme dalla più acuta razionalità. Pascal ci ha insegnato che l’uomo tanto conosce Dio quanto penetra nella propria condizione e che la verità trova posto in lui nella misura in cui egli, conoscendola, l’attua nella realtà dell’esistenza quotidiana. L’autore dei “Pensieri” mette in moto gli spiriti e ha l’arte di orientarli verso il loro Principio, disponendo alla riflessione che slarga la mente e apre il cuore alla grazia.
Giornale di Brescia, 1 dicembre 1962.