Baruch Spinoza

«Ordo et connexio idearum idem est ordo et connexio rerum» (B. Spinoza)

VITA E OPERE

Baruch Spinoza nacque ad Amsterdam nel 1632 da una famiglia benestante di ebrei spagnoli, rifugiatisi in Olanda dal Portogallo per sfuggire alle persecuzioni dell’inquisizione.

La sua formazione fu quella di un allievo rabbino, ma ben presto entrò in contrasto, prima latente e poi dichiarato, con la Sinagoga, da cui fu espulso in forma solenne nel 1656.

Accolto fraternamente dai «Collegianti» di Rijnsburg, una setta cristiana slegata dalle chiese ufficiali, Spinoza prese a guadagnarsi il pochissimo che gli bastava per vivere lavorando lenti per l’ottica e potè così condurre la vita quieta e ritirata dello studioso e del filosofo.

Nel 1660 si stabilì nelle vicinanze di Leida e in quell’epoca entrò in contatto con Henry Oldenburg, segretario della Royal Society di Londra. Nel 1663 si trasferì nei dintorni dell’Aia, dove, nel 1676, ricevette la visita di Leibniz.

Spinoza non occupò mai posti accademici. Nel 1673 gli fu offerta la cattedra di filosofia all’università di Heidelberg, ma la rifiutò soprattutto, non c’è dubbio, per conservare una completa libertà. Comunque non fu assolutamente uomo che cercasse di mettersi in vista.

Nel 1677, a soli 44 anni, morì di tubercolosi.

Il primo lavoro composto da Spinoza fu il Breve trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità, forse scritto attorno al 1660; ma esso restò inedito, e fu scoperto e pubblicato solo nel secolo scorso.

Del 1661 è il Trattato sull’emendazione dell’intelletto.

Il capolavoro è l’Ethica, iniziata intorno al 1661, che costituì il lavoro di tutta la vita del filosofo e uscì postuma nel 1677, insieme all’Emendazione dell’intelletto, ad un Trattato politico e alle Lettere.

L’unica opera pubblicata col proprio nome da Spinoza è costituita da una esposizione in forma geometrica dei Principi di filosofia di Cartesio, cui sono aggiunti dei Pensieri metafisici.

Fu invece pubblicato anonimo (nel 1670), il Trattato teologico-politico, che suscitò grande scalpore e roventi polemiche.

Breve trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità

I tratti che distinguono il Breve trattato dall’Ethica sono: monismo ancora incompleto, tracce di finalismo, qualifiche di buono e saggio applicate a Dio, espressioni teologiche come «Figlio di Dio», «predestinazione», eccetera, passività dell’intelletto umano, valutazione positiva dell’umiltà, disprezzo per il piacere.

La dimostrazione dell’esistenza di Dio è fondata sull’argomentazione a priori: l’esistenza di Dio si identifica con la sua essenza non essendo dovuta a cause esterne. L’esistenza di Dio può essere dimostrata anche a posteriori.

Per Cartesio il concetto di Dio è coronamento della speculazione filosofica, per Spinoza è la premessa ineludibile e il dato essenziale sin dall’inizio: ogni conoscere mediato è inconsistente se non si fonda su un’intuizione immediata dell’essere infinito. Non possiamo cogliere l’incondizionato con concetti derivati: esso stesso ci afferra e ci si rileva incondizionatamente. «L’intuizione cartesiana – nota Christoph von Sigwart – è quella matematica, quella spinoziana è mistica».

Dio è «natura naturante» e il mondo è «natura naturata»: Dio, rispetto al mondo, non può esistere «per se stesso». Dio è causa immanens e non causa transiens (transitiva): è nel rapporto dell’intelletto ai suoi concetti; Dio è i suoi effetti, piuttosto che produrli.

La natura naturata generale si compone di tutte le modificazioni universali o attributi della natura naturans. Tra i suoi infiniti attributi, noi non ne conosciamo più di due: il movimento nella materia e l’intelletto nella cosa pensante.

Nel Breve trattato conoscere è puro patire, «sentimento e godimento di un oggetto esterno», mediante il quale l’uomo è inserito nella connessione causale della natura: opinione (sentito dire), fede vera (persuasione dell’intelletto senza che le cose siano da noi viste in se stesse), chiara conoscenza (non convinzione fondata sul ragionamento, ma per sentimento e godimento della cosa stessa) sono i tre gradi di conoscenza. «Dal primo grado derivano tutte le passioni contrarie alla retta ragione, dalla seconda tutti i buoni desideri, dalla terza il vero e puro amore» (Libro II, cap. 2).

La verità manifesta se stessa e il falso: vere sono le cose più chiare di tutte, mentre la falsità non è manifestata da se stessa. Chi possiede la verità non può dubitare di possederla, mentre chi è attaccato al falso può solo illudersi di essere nella verità: chi sogna può ben immaginarsi di vegliare, ma colui che veglia giammai può pensare di sognare (lib.II, cap. 15). «Il falso consiste nel fatto che noi di un oggetto non consideriamo che una parte» (lib.II, cap. 16).

Assai discussi dalla critica sono i due dialoghi inseriti nella prima parte del Breve trattato: Avenarius, W. Sigwart – limitatamente al primo dialogo -, Kuno Fischer, li ritengono anteriori alla composizione del libro; Jacob Freudenthal li ritiene posteriori.

Interlocutori del primo sono: l’Intelletto, l’Amore, la Ragione, la Cupiditas. Quest’ultima, secondo Sigwart, esprime il punto di vista cartesiano delle due sostanze, ma esprime altresì la negazione di quel bene eterno che l’Amore ricerca, dato che il possesso dei beni finiti genera l’odio in chi ne resta escluso, e in chi ne fruisce il pentimento e l’oblio (che è la mortalità a cui l’anima è soggetta quando non scelga come oggetto di contemplazione e d’amore l’essere infinito ed eterno).

L’Intelletto e, più ancora, la Ragione confutano la pretesa di aggiungere l’unità (Dio) alla diversità (mondo) e la raccomandazione fatta dall’Amore di tenersi pago delle cose finite.

Il secondo dialogo sviluppa la conclusione del primo: Dio è causa immanente che resta tutto nel suo effetto. L’intelletto è l’organo di quella rivelazione naturale che non cessa mai. L’unione con Dio è un compito da realizzare più che un fatto naturale. Interlocutori: Erasmo, che cerca la verità, e Teofilo.

Energica è la presa di posizione contro l’arbitrarismo teologico di Cartesio: «Noi neghiamo che Dio possa non fare ciò che fa». Dire che il bene è bene solo perché Dio l’ha voluto e che perciò Dio può ben fare che il male diventi bene «è proprio come se io dicessi che Dio vuol essere Dio e perciò è Dio e, di conseguenza, può non essere Dio»; «Ma potrebbe la giustizia rinunciare ad essere giusta? No, poiché essa non sarebbe più giustizia» (I, 4). Nel Breve trattato sono posti gli stessi problemi che nell’Ethica troveranno più ampio e decisivo svolgimento.

Trattato sull’emendazione dell’intelletto

L’inizio ha l’andamento cartesiano autobiografico del Discorso sul metodo; ma l’intento è morale. La correzione dell’intelligenza deve servire di base a una sorta di instauratio magna in cui tutto cospiri al perfezionamento dell’uomo: dalla medicina, per migliorare la salute, alla meccanica, per rendere più comoda la vita, dalla filosofia morale alla pedagogia alla costituzione civile e politica della società. Aiutare l’uomo a conoscere la sua unione con la natura intera: questa la meta.

Dopo il preludio, il Trattato enumera quattro forme di conoscenza:

– la perceptio ex auditu;

– l’experientia vaga;

– la ragione dimostrativa o deduzione razionale;

– l’intuizione dell’intelletto.

La distinzione dei gradi di conoscenza ha qui un nuovo significato. Con la deduzione razionale l’oggetto singolo è subordinato a una legge universale. La connexio rerum si è risolta in un sistema di atti necessari del pensiero. La causa e la ratio, la ragione reale e la ragione conoscitiva vengono a coincidere; la connessione verace dei concetti porta in sé immediatamente la garanzia della realtà assoluta degli oggetti.

Posseduta che sia un’idea vera, questa ci fa sceverare le idee adeguate dalle inadeguate: ciò rappresenta la prima regola del metodo.

Le idee inadeguate o sono finte o false o dubbie: le prime due categorie sono fugate dall’analisi attenta delle conoscenze negli elementi semplici noti o ignoti che le compongono. Le idee dubbie nascono dall’investigare le cose senz’ordine: se le esaminassimo ordinatamente vedremmo che ogni causa produce necessariamente un effetto e non avremmo più di che dubitare.

La seconda parte del Trattato passa a stabilire le condizioni di una buona definizione. La causa sui viene definita in base alla sua intima essenza; ciò che è causato da altro in base alla causa prossima che lo produce è definizione genetica. Ad esempio: non basta dire che la circonferenza è quella figura in cui tutti i punti sono equidistanti dal centro; è essenziale, invece, fornire la regola della costruzione: la circonferenza è originata dal movimento di un segmento intorno ad uno dei suoi termini supposto come fisso.

L’ordine dell’indagine dovrà far capo a quell’idea che sia causa di tutte le nostre idee: ma per dirigere ad essa i nostri pensieri è necessario conoscere l’essenza della verità e dell’intelletto che costituisce la forma stessa della verità.

L’intelletto forma idee positive e non negative, concepisce le cose non come sottoposte al tempo ma sub specie aeternitatis; le idee chiare e distinte sono fornite di intrinseca necessità ed esprimono la necessità della nostra natura.

La terza parte del Trattato doveva indicare un ordine tra le idee che consentisse alla mente di non stancarsi nella ricerca di cose inutili; ma non fu mai scritta, o almeno non ci è pervenuta.

Pensieri metafisici

Constano di due parti, una metafisica, l’altra teologica.

Molti enti creduti reali sono enti di ragione e modi di pensare: non esistono fuori dell’intelletto anche il numero, la misura, la durata, l’ordine ecc., e lo stesso concetto universale di ente e di fine. La stessa cosa dicasi dei trascendentali: in sé nulla è vero, buono ecc. Bene e male non sono né cose né azioni: dunque non sono nella natura.

Se il bene supremo è la conoscenza dell’unità, che collega la mente con la natura universale, il vero mezzo per raggiungere quella conoscenza ci è dato dalla geometria, la quale ci libera da ogni antropomorfismo e ci solleva all’intuizione dell’ordinamento assoluto della realtà.

Nella parte teologica Spinoza nega la realtà di Dio (omnis determinatio negatio est – ogni definizione è una negazione); la creazione non è dal nulla né posta nel tempo; la punizione dei peccati sta solo nelle conseguenze naturali degli atti.

La libertà umana è ammessa a parole; di fatto negata in quanto Spinoza afferma che Dio, come causa della mente umana, fa sì che noi vogliamo questo e quello. Spinoza rimprovera a Cartesio la distinzione tra avvenimenti necessari della natura e azioni libere dell’uomo: non si può più considerare l’uomo nella natura come uno Stato nello Stato. «L’anima è automa spirituale che agisce secondo le regole che vi sono insite» (Emendazione dell’intelletto 85).

Anche l’immortalità dell’anima è affermata apparentemente e negata di fatto: in quanto sostanza pensante l’anima è immortale, ma nella prefazione Spinoza aveva fatto precisare che l’anima non è sostanza pensante, ma solo un suo modo.

Le questioni teologiche dei Pensieri metafisici vengono illuminate dal carteggio di Spinoza con Willem van Blyenbergh, un mercante di biade che si occupava di filosofia. Il Blyenbergh muove spesso obiezioni che non tengono conto del punto di vista del suo interlocutore; assai acuto è però nell’osservare che quando si dice che il male è privazione di uno stato più perfetto si suppone la distinzione tra bene e male e che in un sistema dove tutto avviene necessariamente non si vede che cosa significhi il «venir privati» di uno stato.

Quando Spinoza afferma che l’astenersi dal male per paura della pena non è virtuoso e che egli si astiene perché il male gli ripugna, Blyenbergh obietta che se un altro non provasse tale ripugnanza nulla potrebbe trattenerlo dal concepire il male. E Spinoza nasconde con l’ironia la sua effettiva incapacità di rispondere.

Trattato teologico-politico e Trattato politico

a) Rapporto tra filosofia e religione in termini bruniani: libero esame della Bibbia; dissoluzione della fede nell’ambito della filosofia a cui pure si contrappone come l’obbedienza alla libera ricerca del vero. La rivelazione è coeterna con il mondo, anche se «la verità era nel mondo e il mondo non la conobbe». Il Verbo non si fece carne, ma è vero che in nessun uomo rifulse più che in Gesù Cristo.

b) Giorgio Del Vecchio (Lezioni di filosofia del diritto, Giuffrè, Milano 1950) osserva che, essendo identificato diritto naturale e potenza fisica, tale identificazione equivale alla pura e semplice negazione di quel diritto. Per ritrovare il principio della valutazione giuridica, lo Spinoza deve supporre la cessazione dello stato naturale per l’accordo reciproco di tutti gli uomini di operare solo rationis dictamine. In realtà l’accordo si fonda sul presupposto del vantaggio che ognuno avrebbe nell’osservarlo, ammettendosi il diritto che ognuno avrebbe di romperlo sempreché ciò gli sembrasse utile. Tale riserva toglie validità obiettiva al patto e riduce il diritto a relazioni di fatto, a situazioni arbitrarie delimitate solo dalla potenza di ciascun individuo. L’autorità statale è legittima in quanto ha la forza di farsi valere; lo Stato detiene non solo il potere civile, ma anche il sacro, nonché la facoltà di determinare che cosa debba considerarsi giusta e pia, che cosa ingiusta e empia. Tale diritto lo Stato lo esercita legittimamente, ma vi è impossibilità materiale a imporre limiti alla coscienza. Il pensiero è per sua natura incoercibile: quindi si ha libertà per impossibilità di violarla. Questo tentativo di fondare la libertà di pensiero è insufficiente e non tiene conto che se il pensiero non si colpisce in se stesso, si può colpirlo nelle sue manifestazioni, nella vita stessa del soggetto pensante.

c) Il Trattato politico, incompiuto, tiene presente il mutamento di regime in Olanda (la caduta di Johan De Witt, amicissimo della Spagna, e l’avvento degli Orange) e delinea un ordinamento capace di imbrigliare al servizio dello Stato l’ambizione individuale: tre assemblee aristocratiche (patrizi: 1 su 50 cittadini; sindaci: 1 su 50 patrizi; senatori: 1 su 12 sindaci) e una corte di esperti attorno al re. Spinoza ripropone il problema dell’origine dello Stato, che affronta anche nell’Ethica, libro IV. Sono le mere passioni della paura e dell’istinto di autoconservazione che fanno convenire gli uomini in società e conservano le società stesse per un meccanismo automatico, oppure lo Stato nasce dallo stesso principio che poi lo conserva e lo rinsalda, cioè da un’attiva disposizione fraterna tra gli uomini dettata dalla ragione? La logica del sistema esige la prima risposta, ma Spinoza accenna in più punti a far propria la seconda.

L’Ethica

Scritta presumibilmente tra il 1661 e il 1665, è suddivisa in cinque parti. La forma geometrica dell’esposizione serve a mettere in evidenza la concatenazione logica interiore del sistema e la sua coerenza ai principi, espressi in definizioni (che fissano le essenze delle cose) e in assiomi (che esprimono le leggi eterne della realtà).

L’aridità schematica, la non evidenza dei principi fondamentali presupposti e l’imposizione di un ordine che non è l’ordine naturale del pensiero (così Piero Martinetti) sono difetti che rendono oscura e faticosa la lettura dell’opera; un opportuno correttivo si trova negli «scolii», dove Spinoza riassume e commenta il suo pensiero.

L’ETHICA

Libro primo: Dio

L’Ethica parte dal concetto di sostanza, definita come ciò che produce se medesima, ciò la cui essenza involge l’esistenza, l’incondizionato ponentesi per virtù propria (causa sui). Le sostanze finite cadono e, per la definizione data, non rimane che la sostanza infinita, cioè Dio, produttività infinita e prodotto infinito di se stesso. Nasce dunque il problema: se l’Uno in quanto tale non produce che se stesso, donde i molti? Se Dio, più che produrre i suoi effetti, è i suoi effetti, quale valore hanno le cose particolari? Come dev’essere intesa l’identità del mondo con Dio? Spinoza respinge la riduzione di Dio alla natura (vedi lettera 73) intesa come massa corporea, estesa. Il «Deus sive natura» di Spinoza evita lo sbocco – per sé logico – dell’ateismo naturalistico. Ernst Cassirer interpreta l’equazione spinoziana così: la natura non è somma delle singole cose, ma la loro connessione necessaria secondo lo schema astratto della necessità matematica, l’insieme dei principi eterni che sembrano reggere il corso della realtà esteriore. Piero Martinetti si avvicina a coloro che, come Hegel, hanno definito lo spinozismo una specie di acosmismo, concezione metafisica che nell’accentuazione decisa del valore assoluto dell’Uno risolve in esso totalmente la realtà dei finiti. Ma anche l’acosmismo può venire inteso in più sensi: Spinoza non nega, come gli eleati e gli indiani, la realtà delle cose particolari, che per lui sono non illusioni, ma modificazioni reali attualmente esistenti della sostanza indivisibile. «Legittimo è invece – precisa il Martinetti – il concetto di acosmismo se si applica al rapporto del mondo eterno della sostanza col mondo creato dalla nostra soggettività inquieta: mondo che per sé non esiste affatto». D’altra parte, se la produzione reale da parte di Dio è un procedere eterno, nel quale l’effetto e la causa sono simultanei, al di fuori del tempo (che è solo un «modus cogitandi seu potius immaginandi – un modo di riflessione, o piuttosto di immaginazione»), come mai le cose finite – che potrebbero dedursi da Dio come le proprietà del triangolo dalla definizione del triangolo – durano nel tempo e quale valore ha ciò che è presente, nel tempo, alla nostra esperienza?

Spinoza risponde con la dottrina degli attributi e dei modi. Infiniti sono gli attributi o aspetti reali della sostanza, sintesi viva e germinante, produttiva degli attributi stessi: l’intelletto nostro isola, tra i tanti, due attributi – pensiero ed estensione – irriducibili l’uno all’altro per noi che non vediamo come essi siano due e uno. Gli attributi non sono nella sostanza, sono la sostanza, o meglio «ciò che l’intelletto percepisce della sostanza» (def. 4). Johann Eduard Erdmann intese la molteplicità degli attributi come dovuta al rifrangersi della sostanza in sé unica nel prisma della mente umana. Kuno Fischer nega che la molteplicità possa intendersi come un «modus immaginandi» dell’uomo e sostiene che la sostanza consta in se stessa di infiniti attributi. L’interpretazione più esatta ci pare quella del Martinetti su accennata, ma la tesi dell’Erdmann serve indirettamente a rilevare l’aporia metafisica esistente tra l’unità assoluta della sostanza e l’asserita molteplicità delle sue manifestazioni. I modi finiti sono contenuti nella sostanza non come parte positiva, ma come negazione parziale o depotenziamento: donde nasce, allora, il modo finito in quanto tale? La proposizione 28 cerca di dircelo: «da una causa, finita anch’essa, e avente un’esistenza determinata; e tale causa, di nuovo, non può esistere ed essere determinata ad operare se non da un’altra attività, pure finita,… e così indefinitamente». In realtà Spinoza introduce come un presupposto la particolarità in seno all’infinità e non riesce a mostrare affatto come essa consegua alla natura della sostanza infinita. Né meno concludente è il tentativo di introdurre, tra gli attributi e i modi particolari, i «modi infiniti». La lettera 64 ce ne dà qualche esempio: per l’attributo del pensiero l’intellectus absolute infinitus (l’intelletto sicuramente infinito), per l’estensione il moto e la quiete. Esempio di modo infinito è l’aspetto del mondo, che pur variando in infiniti modi, rimane sempre lo stesso. I due modi infiniti sono detti i due «figli di Dio». Il modo infinito del pensiero abbraccia tutta la natura, contiene in sé come oggetto l’essenza formale di tutte le cose: l’intelletto infinito è – come il Nous di Plotino – l’unità già riversantesi nella molteplicità, il complesso di tutte le attività cogitanti da cui derivano le essenze eterne delle cose, le res fixae et aeternae. Le essenze delle cose sono affezioni della sostanza divina e l’insieme dei modi eterni e infiniti costituisce la natura naturata, mentre Dio, come unità e causa immanente di questi modi, è la natura naturans. C’è identità tra produzione reale e deduzione logica e tutte le cose sono rigorosamente determinate in ogni loro attività da Dio: il possibile e il contingente non fanno quindi parte della realtà, essendo dovuti soltanto ad un’imperfezione del conoscere umano. L’affermazione del contingente poggia sull’ignoranza delle cause. Lo stesso dicasi della dottrina della libertà del volere e della teleologia. La polemica violenta contro l’antropomorfismo che attribuisce a Dio finalità e attività di tipo umano chiude il primo libro. Credere che Dio operi in vista di un fine, è sottoporre Dio a una necessità esteriore, a una specie di fato; la distinzione scolastica tra finis indigentiae e finis assimilationis (desiderio di comunicare la propria perfezione) non serve a togliere al concetto di fine il carattere di un bisogno. Bisogna comprendere le cose per via meccanica, da scienziati, senza meravigliarsene come fanno gli sciocchi. Quelli che interpretano finalisticamente la natura fanno della volontà di Dio l’asilo dell’ignoranza: ma tolta l’ignoranza è tolta pure la meraviglia, «unico mezzo che essi hanno per ragionare e difendere la loro autorità».

Piero Martinetti vede nell’indignazione di Spinoza una giustificata reazione ai vaniloqui della teodicea, ma rimprovera a Spinoza di perdere di vista una distinzione tra mondo umano – in cui vi sono pure dei fini – e processo eterno fine a sé e si chiede che differenza di valore ci sarebbe allora tra chi segue la ragione e chi non la segue. Lo spinozismo è in realtà un sistema che nega la sua pure reale ispirazione etica.

Libro secondo: natura della mente

Il secondo libro sviluppa i seguenti aspetti della concezione spinoziana: la fisica, la costituzione psicologica dell’uomo, il parallelismo psico-fisico, i gradi del conoscere.

La fisica: Kuno Fischer (e con lui Ernst Cassirer) interpreta lo spinozismo come matematizzazione senza residui della metafisica e vede nell’essere causato un «sequi» perfettamente analogo a quello che s’incontra in geometria: in tal senso tutti i particolari sono già contenuti analiticamente, con le loro individuazioni, nella sostanza divina. La sostanza corporea, in quanto attributo divino, è indivisa; in quanto è modificata, è divisa. Ciò introduce una nuova difficoltà nello spinozismo: può il modo avere proprietà opposte a quelle della sostanza di cui è modo? Se, come Spinoza afferma, solo l’immaginazione si rappresenta i modi isolati dalla loro causa, l’indivisibilità della sostanza dovrebbe portare con sé anche l’indivisibilità dei modi. Spinoza sembra, di sfuggita, far sua la conclusione che la divisione sarebbe relativa alla sola immaginazione, ma ciò implicherebbe che la fisica corpuscolare che egli elabora non riguarda la realtà. L’estensione è attributo divino: quindi non è cosa passiva e inerte che riceve da Dio il movimento. Il movimento la caratterizza e serve a differenziare i corpi. Rinasce, come al solito, l’aporia di fondo: se la sostanza è immutabile, come mai uno dei suoi attributi «reali» è l’estensione di cui il movimento è una qualità costitutiva? Per Cartesio, invece, era Dio a dare la… spintarella.Quando più elementi corporei sono tra loro collegati, così da mantenere l’unità del ritmo dei movimenti, in modo che la forma della loro composizione persista, pur mutando gli elementi, abbiamo ciò che si dice un individuo fisico. Più individui di grado inferiore compongono un individuo di grado superiore: anzi, tutta la natura non è che un grande individuo, le cui parti variano, restando essa una e identica nel suo complesso. Il corpo umano è appunto un individuo composto, i cui elementi sono in un continuo scambio d’azione con il mondo esterno o di ricambio.

Costituzione psicologica dell’uomo e parallelismo psico-fisico.

Il corpo umano è un aggregato di unità fisiche, atto ad entrare in molteplici rapporti con i corpi esterni. L’anima (mens) è un aggregato organico di idee, atto ad accogliere in sé altre idee, cioè ad avere molteplici rappresentazioni di corpi. La coscienza non è che la percezione dei successivi stati del corpo in cui è impossibile sceverare la parte dovuta al corpo efficiente da quella dovuta al corpo affetto, ché «le idee che abbiamo dei corpi esterni rivelano piuttosto la costituzione del nostro che la natura dei corpi esterni» (prop. 16). «L’oggetto dell’idea costituente la mente umana è il corpo e nient’altro» (prop. 13): l’anima è dunque l’aspetto cosciente delle affezioni del corpo, quasi la sua ombra cosciente. L’anima nostra è un sistema di idee perfettamente corrispondente al nostro sistema corporeo: essa rispecchia in sé il corpo e la serie dei suoi mutamenti. Ma come si spiega la coscienza riflessa, il fatto che l’anima ha coscienza del suo essere? La coscienza riflessa costituisce l’idea mentis, che è la mens in quanto ha coscienza di sé: è coscienza delle affezioni proprie dell’anima, ma non della natura dell’anima. Si badi che ognuna delle due serie (serie ideale dei modi di pensiero e serie dei mutamenti che avvengono nell’anima, da una parte, serie reale dei modi di essere e serie dei mutamenti che avvengono nel corpo, dall’altra) è in se stessa chiusa: tutte le attività sono l’effetto di altre attività corporee precedenti e la conoscenza verace (non l’associazione immaginativa che collega le idee secondo le affezioni del corpo) non è un effetto di azioni corporee, ma procede secondo l’ordine obiettivo delle idee per intrinseca perfezione del suo atto spirituale. Il paradosso del parallelismo è qui spinto all’assurdo sebbene i due aspetti paralleli e indipendenti della realtà siano di fatto equivalenti per il presupposto panteistico.

I gradi del conoscere.

Sono tre. Il primo è dato dalla conoscenza inadeguata o imaginatio, distinta in conoscenza derivante dall’esperienza e dalla tradizione. L’imaginatio, per la quale la mente vede sé, il proprio corpo e le cose esterne solo nelle affezioni proprie, è in fondo la conoscenza sensibile ordinaria. Apprendendo una realtà monca e fare di essa la totalità: in ciò consiste l’errore. Spinoza dà a questo punto l’esempio preferito, su cui più volte ritorna, della illusione della libertà («Gli uomini errano in quanto si credono liberi: sono consci delle loro azioni e ignari delle cause che le determinano»). Fortunatamente vi sono idee che nemmeno la nostra radicale imperfezione può trasformare in idee inadeguate e isolare dalla concatenazione divina: le idee degli attributi e della sostanza, fondamento di tutte le idee particolari o essenze eterne particolari. Queste idee universali sono le vere idee innate o notiones communes, le quali sono a loro volta l’origine di altre idee vere: per esse l’intelligenza, mediante la riflessione attiva, può formarsi idee adeguate, tali cioè che «considerate in sé, senza relazione all’oggetto, posseggono tutte le proprietà intrinseche dell’idea vera». Queste idee non sono qualcosa di passivo, «velut pictura in tabula (come pittura su una tavolozza)», ma attività, «conceptus». (Sia ben chiaro che le notiones communes di Spinoza non sono gli universali della scolastica che Spinoza chiama notiones secundae e che giudica rappresentazioni generiche confuse. Per esempio, sono notiones communes queste: tutti i corpi concordano nell’essere modificazioni della sostanza estesa e nell’essere soggetti al movimento). Questo secondo grado di conoscenza, con cui ci impossessiamo dei principi universali contenuti in astratto, è la scienza. Ricostruire il sistema delle idee, apprendendo le cose nel loro ordine e nella loro necessità è opera della ragione, la quale contempla le cose non come contingenti, ma come necessarie. Il terzo grado di conoscenza è l’intuizione o pura contemplazione intellettuale di Dio, la cui idea – in noi innata – è necessariamente implicata in tutte le altre idee. Lettera 56: «Alla tua questione se io abbia di Dio un’idea così chiara come del triangolo, rispondo affermando. Ma se m’interroghi se io abbia un’immagine così chiara di Dio come del triangolo, risponderò negando: perché non possiamo rappresentarci Dio, ma possiamo ben pensarlo. Ed è ancora da notare che io non dico di conoscere Dio a fondo, ma di conoscere alcuni dei suoi attributi, ed è certo che l’ignoranza nella massima parte dei punti non impedisce di avere conoscenza di alcuni di essi».

Il secondo libro si conclude con la confutazione della teoria cartesiana dell’errore: non vi è una volontà che sovrasti al contenuto dell’intelletto e ne sia indipendente. Le volizioni non sono che affermazioni o negazioni di idee: intelletto e volontà sono una sola cosa. Spinoza coglie l’occasione per ritornare sul suo argomento preferito, l’illusione del libero arbitrio. «I più credono che noi operiamo liberamente solo quelle cose che desideriamo, perché il desiderio di queste cose può essere facilmente represso dalla immagine di un’altra cosa frequentemente rievocata… Io pongo la libertà non nella libera decisione, ma nella libera necessità (di Dio)… Se una pietra nella caduta divenisse cosciente, si crederebbe libera». Spinoza ricalca nel suo sistema la dottrina del calvinismo ortodosso, allora imperante in Olanda.

Libro terzo: origine e natura delle passioni

Spinoza si propone di attuare il programma dello Hobbes nel De cive di trattare le passioni geometricamente, come se fossero linee, piani o corpi: amore, odio, invidia eccetera sono proprietà della natura umana. «E per trattare di questa scienza con la stessa libertà d’animo con cui ci occupiamo di ricerche matematiche, mi impegnai a non ridere, non piangere e neppure detestare, ma solo a comprendere» (Tratt. pol. I, 4). Le affezioni del nostro essere si traducono sotto l’aspetto teorico in conoscenze inadeguate e sotto l’aspetto pratico in passioni. Le passioni sono affezioni del corpo, di cui accrescono o diminuiscono la potenza d’agire, e le idee di queste affezioni. La passione fondamentale o meglio la radice delle passioni sta nella tendenza, comune a tutti gli esseri, a perseverare nella propria esistenza: questo perseverare nel proprio essere diviene appetitus o conatus nei modi finiti che tendono alla perfezione della propria essenza più profonda: l’appetitus o cupiditas nelle forme più elaborate prende il nome di volontà. Tutte le passioni derivano da queste tre: desiderio, gioia (desiderio favorito nel suo tendere), dolore (desiderio contrariato). Quando però è impedita la nostra individualità fittizia o favorita nel suo affermarsi, allora si hanno dolori salutari o gioie funeste. Le passioni si differenziano per la natura diversa e mutevole e del soggetto e dell’oggetto. Quando il medesimo oggetto causa stati contrari che si alternano, oscillando, nell’animo nostro, allora si ha il dubbio come stato intellettuale e la fluctuatio come stato affettivo. Se la mente è stata simultaneamente affetta da due passioni, quando in seguito sarà affetta dall’una di esse, sarà affetta anche dall’altra; con ciò Spinoza spiega i fatti in apparenza così misteriosi della simpatia e dell’antipatia. Le passioni derivate sono di tre tipi.

  1. Passioni provenienti da cause esterne sono l’amore e l’odio. Amore e odio riferiti per accidens ad una cosa si chiamano propensio e adversio; riferiti ad una persona existimatio – despectus, benevolentia – ira (desiderio di far male). Se siamo amati e crediamo di meritarlo: vanitas; se siamo amati e non crediamo di meritarlo: gratitudo. L’amore e l’odio per chi fa del bene o del male a ciò che amiamo si dice favor e indignatio. Speranza e timore sono amore e odio riferiti a un evento soggettivamente incerto: eliminata l’incertezza si avrà o la sicurezza o la costernatio.
  2. Gioia e tristezza possono derivare per simpatia o per riflessione simpatica delle passioni altrui. Partecipare alla tristezza di una persona amata: commiseratio, mentre la crudelitas è la pietà soffocata dall’odio. Il dolore per l’abbandono e l’amore per la persona che ci ha preferito altri a noi costituiscono la gelosia. L’invidia è desiderio di un bene goduto da altri con la nostra esclusione.
  3. Gioia e tristezza che procedono da cause interne sono umiltà e superbia, rimorso e sereno compiacimento, nostalgia di un bene passato. Concomitante intellettuale della gioia è l’admiratio. Meraviglia più ostinazione danno la veneratio, mentre la venerazione più l’amore la devotio. Alla veneratio si oppone la dedignatio; alla devotio, la irrisio. Fortezza è il desiderio di vita razionale; generosità è il desiderio di aiutare e amare gli altri in conformità della ragione.

Le passioni sono idee inadeguate che si associano meccanicamente. L’anima è il luogo in cui esse si svolgono, non il loro operatore attivo. Si traccia (scolio della prop. 9) la premessa di una teoria somatica delle passioni: «noi non desideriamo qualche cosa perché la giudichiamo buona, ma la giudichiamo buona perché la desideriamo». Pure una scintilla di libertà s’insinua nel meccanismo delle passioni là dove Spinoza scrive (prop. 43) che «l’odio è accresciuto dal reciproco odio, ma può, per contro, venir annientato dall’amore».

Libro quarto: la potenza delle passioni

«Chiamo schiavitù l’impotenza dell’uomo a governare e moderare le sue passioni: l’uomo sottomesso alle passioni non appartiene infatti a sé (sui iuris), ma alla fortuna». La forza con cui l’uomo persevera nella sua esistenza è limitata e viene superata infinitamente da quella delle cause esterne (prop. 3). «La vera conoscenza del bene e del male, in quanto vera, non può infrenare nessuna passione» (prop. 14): l’idea adeguata potrà agire soltanto «quatenus ut affectus consideratur (nella misura in cui la passione è placata)». La schiavitù di una passione più debole può essere vinta solo dalla schiavitù di una passione più forte. La virtù consiste nel cercare in primo luogo il proprio utile (cioè tendere alla propria conservazione): virtù è sinonimo di potenza, cioè di capacità di raggiungere i propri fini, la propria utilità. Né c’è bisogno di subordinare l’utile al vero: occorre semplicemente riconoscere che il massimo utile è costituito dal vero bene, cioè da una vita vissuta «ex ductu rationis (secondo un criterio razionale)». Nel sistema dell’assoluta necessità i valori possono intendersi solo come conseguenza della stessa natura: di qui la derivazione naturalistica del bene dall’utile. Il progresso nella perfezione è progresso nell’attività, nella gioia: dall’utile egoistico, per prolungamento perfettivo e per integrazione, si ascende alla convivenza sociale e, infine, alla vita secondo ragione. Nella ricerca del bene-utile individuale, confinato all’unità fisica dell’individuo, alla loro individualità fittizia, anche gli uomini animati dalle stesse passioni sono divisi perché la passione divide. Un grado più alto è l’unificazione con i propri simili in una società: gli uomini che cercano l’utile proprio non desiderano per sé nulla che non desiderino anche per gli altri uomini. Il passaggio dallo Stato ex lege alla civitas avviene però per interesse e paura: una volta fondato, lo Stato riesce utile ai singoli e l’uomo che vive secondo ragione è più libero nello Stato sotto le leggi comuni che pongono in essere la distinzione tra giusto e ingiusto, che nella solitudine. Non vi è nulla all’uomo di più utile dell’uomo che vive secondo ragione: chi così vive si accorda sempre necessariamente con la natura di un altro uomo. L’ultima parte del IV libro esamina le regole della saggezza. Il saggio tende alla hilaritas, stato di gioia esteso a tutto il nostro essere, mentre le titillationes si riferiscono solo ad una parte del corpo. Spinoza condanna l’ascetismo non potendo trovare giustificazione nel suo sistema i concetti di rinuncia volontaria, di bene e di male, di peccato e di riparazione. Spinoza condanna, in quanto passioni dolorose: la pietà, l’umiltà, il pentimento, la vergogna, e passioni necessarie al volgo – come la paura e la speranza («Il volgo è terribile quando non tema», V, 58 scol.) – per predisporlo alla vita secondo ragione. Il saggio non fa il bene per paura, compie il suo dovere con gioia (bene agere et laetari): a lui tutto appare ragionevole, per cui egli è «al di là del bene e del male».

Libro quinto: la potenza dell’intelletto ossia la libertà umana

È un manuale di precetti pratici o massime generali da elaborare intimamente per usarne contro l’irrompere delle passioni (certa vitae dogmata). I due aspetti più discussi riguardano la nebulosa formula spinoziana dell’immortalità dell’anima e la dottrina dell’amore divino. La proposizione 23 dice: «Mens humana non potest cum corpore absolute destrui, sed eius aliquid remanet quod aeternum est (L’anima dell’uomo non può essere completamente distrutta insieme al corpo, ma di essa rimane qualcosa che è eterno)». Victor Delbos e Victor Brochard giudicano che qui Spinoza parli di immortalità personale. Senonché nello scolio 2 della prop. 34 si legge: «Gli uomini sono consci della eternità della loro mente, ma la confondono con una indefinita durata che attribuisce all’immaginazione o alla memoria, credendo che essa rimanga dopo la morte». L’anima è eterna quaggiù nella misura in cui conosce la verità: in tal senso «sentimus experimurque nos aeternos esse (sentiamo e sperimentiamo che siamo eterni)» (V, 23, scolio). Non l’uomo individuo sopravvive, ma i pensieri veri a cui l’anima ha saputo innalzarsi e che sono eternamente puntualizzati nel pensiero eterno, al di fuori di ogni temporanea appartenenza ad una individualità psichica. L’anima, avendo la capacità di rappresentarsi la necessità che regge il tutto, si riscatta nella sua particolarità e si fa eterna nella conquista della libertà morale: conquista la quale si esplica attraverso la coscienza della necessità eterna. Dio è essenza perfetta in atto perfetto, ma, essendo pura naturalità, è piuttosto una «cogitandi potentia», una forza generatrice di pensiero che è? Pensiero Assoluto. Il Deus sive natura non è quindi né autocoscienza assoluta, né amante, né personale in quanto infinito: si configura come pensiero, come amore, come persona solo in quanto «può esprimersi attraverso l’essenza dell’anima umana considerata sotto l’aspetto dell’eternità» (prop. 30). In realtà «essendo Dio costituito da ciò che è non può esservi propriamente un amore di Dio per altro» (Tratt. breve, II, 24, 3). L’uomo libero a nulla pensa di meno che alla morte; la sapienza non è meditazione della morte, ma della vita: perché anche la morte per il saggio non può essere reale negazione della vita (per lui non vi è la morte, allo stesso titolo che non vi è male, come per Epicuro). L’Ethica si conclude con la solenne affermazione che «la beatitudine non è la ricompensa della virtù, ma è la virtù stessa». In questa frase vi è la trasposizione di una verità cristiana, secondo la quale la beatitudine è omogenea alla virtù, è la virtù stessa nel suo sviluppo, quaggiù, e nel suo supremo compimento dopo la morte. Come ogni filosofia stoica, anche quella di Spinoza perviene ad un ottimismo tragico, fondato cioè sulla sublimazione sistematica del pessimismo.

GIUDIZI SU SPINOZA

Dimenticato dopo la sua morte per oltre un secolo, Spinoza fu riscoperto dal preromanticismo tedesco di fine Settecento. Ma l’influenza di Spinoza è stata subito rilevante sui maggiori pensatori del suo tempo.

Nicolas Malebranche si difese dall’accusa di spinozismo, ma la logica del sistema lo spingeva verso un esito spinozistico persino nella concezione della vita soprannaturale.

Pierre Bayle vedeva empietà nello spinozismo, considerato il sistema dell’ateismo radicale, e nobiltà di vita in Spinoza: meglio diffidare della ragione piuttosto che sofisticare con essa le convinzioni prodotte dalla fede.

Friedrich Heinrich Jacobi voleva combattere lo spinozismo, ma le sue Lettere sullo spinozismo (1785) portarono lo spinozismo al centro dell’attenzione della cultura. Johann Wolfgang Goethe ed Johann Gottfried Herder presero invece posizione in favore di Spinoza, delle cui opere cominciarono le riedizioni: lo spinozismo veniva incontro al bisogno, proprio del romanticismo, di compenetrare finito e infinito. Jacobi sperava nell’appoggio di Kant; ma Kant tacque.

Schelling trascrive in chiave idealistica Spinoza ed Hegel era solito dire che senza Spinoza non si può cominciare a filosofare, sebbene a Spinoza non ci si debba fermare: Spinoza è l’antecedente logico dell’idealismo. Il principio divino spinoziano era ancora sostanziale, immediato, naturalistico: per Hegel sarebbe stato idea, razionalità e divenire storicistico per interiore legge dialettica. Ma l’impianto immanente rimane.

Victor Delbos vi scorge una specie di dialettica dello spirito, che si origina da Dio e a lui ritorna, attraverso la liberazione delle passioni; León Brunschwicg sottolinea la tripartizione etico-gnoseologica (immaginazione, intelletto, libertà) nello svolgimento delle passioni e della loro catarsi.

Victor Cousin: «Spinoza, lungi dall’essere ateo, ha talmente il senso di Dio, che perde il senso dell’uomo»; Ernst Cassirer sottolinea l’influenza telesiana in Spinoza.

In Italia lo spinozismo fu studiato da Bertrando Spaventa, da Donato Jaia, da Walter Maturi, da Giovanni Gentile e, con intima adesione, da Piero Martinetti.

Augusto Guzzo è, in Italia, uno dei più profondi studiosi di Spinoza. A suo parere Spinoza ha qualcosa di eterno: è il profilo della mente umana vista da un lato. Si deve combatterne l’unilateralità, ma non si può prescinderne. Esso è la più radicale forma di panteismo che la storia conosca, la più potente negazione di Dio trascendente e personale: si ricollega allo stoicismo e a Plotino. L’affermato panteismo non risolve il problema del tempo, dei molti, della storia, così come rimane in esso insoddisfatta l’esigenza di conciliare spiritualismo e materialismo, idealismo (si nega che l’idea sia causata dalla cosa) e realismo (l’idea vera è quella che concorda con la cosa). Il rigore logico è solo rigoroso sforzo di deduzione da postulati dogmaticamente assunti; in realtà Spinoza non fornisce di nessuna realtà e di nessun problema spiegazione alcuna. Viene distrutta in radice la stessa possibilità della vita. Se tutto è razionale non ha senso considerare la vita secondo ragione superiore alle passioni; dal momento che le passioni si svolgono secondo l’ordine della natura, la conversione dalla schiavitù egoistica alla libertà non ha senso.

NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate.