Giornale di Brescia, 19 febbraio 2003
Quando Bergson si era formato e negli anni del suo insegnamento liceale, dal 1881 al 1897, il positivismo trionfava. Era ormai opinione diffusa che l’unico sapere “positivo” possi-bile fosse quello scientifico. Comte nella prima metà dell’Ottocento aveva impresso nella cul-tura e nell’opinione pubblica un vigoroso impulso a quell’orientamento che, nella seconda metà del secolo, si era trasformato in una sorta di idolatria della scienza fisico-matematica e del meccanicismo, a cui si attribuivano carattere di assolutezza ed estensione universale. Una siffatta mentalità divenne pervasiva di tutto, ma si fondava su un dogmatismo presupposto e sulla enfatizzazione fanatica della scienza che portava a esiti che erano a un tempo pseudo-scientifici e pseudo-filosofici. Ma a provarlo nel modo più rigoroso – fin dalle prime sue grandi opere come il “Saggio sui dati immediati della coscienza” del 1889 e “Materia e memoria-Saggio sulla relazione del corpo allo spirito” del 1896 – sarebbe stato Henri Bergson.
Nella seconda parte della “introduzione” a “Pensiero e movimento” Bergson scrive: “Tutta la nostra attività filosofica fu una protesta”. Protesta contro che cosa? Contro ogni vi-sione riduttiva della realtà, contro ogni monismo metodologico, contro le soluzioni meramente verbali, i giochi dialettici, il deduttivismo matematico trasposto sistematicamente sul terreno filosofico. Ciò che prepara e accompagna la ricostruzione filosofica intrapresa dal pensatore francese rimane l’esperienza, sempre presente nella sua coscienza e incessantemente appro-fondita, di ciò che era negato, o semplicemente ignorato, dalle correnti filosofiche e culturali che occupavano quasi per intero la scena. Il sentimento più costante e profondo che Bergson provava era precisamente quello della novità permanente della realtà, che per lui dava a tutte le cose, a cominciare dalle più familiari, una giovinezza continuamente risuscitata. A ognuno di noi è data, in un arcobaleno di sfumature, la presenza della “qualità” e della “diversità”, per cui ogni esistente ha qualcosa di incomparabile che fa la sua individualità. La qualità del reale è, pertanto, il suo valore ed è offerta alla sensibilità di ognuno, dell’ignorante come del dotto, del bambino, che ne accoglie spontaneamente l’incanto, e dell’artista, che tenta di captare ed e-sprimere nel suo linguaggio la commozione che essa gli apporta.
Alla mente del giovane filosofo apparve evento di straordinario significato che sul finire del secolo XIX fossero giunte a darsi uno statuto epistemologico la biologia, la psicologia e la sociologia, cioè scienze che osservano diverse forme di vita e si servono della matematica, ma senza il presupposto cartesiano che l’intelligibilità di ogni livello del reale sia esclusivamente di tipo matematico. Bergson comprese che sotto i suoi occhi si stava svolgendo la seconda ri-voluzione scientifica – dopo la prima di Galilei, Cartesio e Newton – grazie allo sviluppo impe-tuoso della biologia, della psicologia e della sociologia. Sviluppo che metteva in evidenza le idee di probabilità e di discontinuità, nonché l’irriducibilità di ogni tipo di fenomeni vitali a ciò che sembra prepararli. Infatti più un fenomeno è complesso e si presenta sotto un aspetto preciso e determinato, meno è soggetto a un’astratta inderogabile necessità. A mano a mano che saliamo nella scala delle scienze, dalla logica e dalla matematica fino alla psicologia, noi troviamo più libertà: la ripetizione dell’identico, l’omogeneo e il necessario regnano incontra-stati solo nell’astratto. Le nuove scienze fanno, dunque, scricchiolare il presupposto meccani-cistico, cioè lo schema arbitrariamente esteso da una parte della fisica, la meccanica, dove as-solve una sua funzione, a tutto il reale e a ogni conoscenza scientifica di esso, compreso l’uomo nelle molteplici forme della sua attività.
Ebbene no, pensare non significa eseguire un progetto delineato sin dall’inizio, come se si trattasse di un mosaico o di un puzzle da comporre mediante tessere già esistenti; non vi so-no catene di concetti da “dedurre”, né verità precostituite alla ricerca stessa, né sistemi che possano darci l’intero della vita. Alla esaltante ebbrezza delle costruzioni meccaniche o dialet-tiche, bisogna finalmente opporre con lucida sobrietà lo sforzo di stare ai fatti e ragionare sui fatti. Se perverremo ad afferrare qualcosa del tutto, ciò non sarà possibile che attraverso la progressiva messa a fuoco e il continuo approfondimento di un problema, e di un solo pro-blema per volta. Questa è la sollecitazione che viene alla filosofia proprio dalle scienze della vita, le quali sono lì a provare, con la loro stessa esistenza, che all’evidenza di tipo matematico si aggiunge adesso quella dei fatti esattamente stabiliti. Chi voglia comprendere qual è, se-condo Bergson, il radicale mutamento di prospettive che la seconda rivoluzione scientifica e-sige sia nelle scienze, sia in filosofia, deve riflettere sulle grandi pagine di Pensiero e movi-mento, ora in traduzione italiana presso Bompiani, che costituisce l’opera in cui il pensatore francese ci ha dato il suo “discorso sul metodo”.
Bisogna fare, osserva Bergson, non quello che Cartesio fece nel suo tempo, ma ciò che avrebbe fatto nel nostro “dinanzi ad una scienza più flessibile, nutrita di un’esperienza più va-sta e disposta ad ammettere nei fenomeni della natura una complessità di organizzazione che non si può ridurre senza disagio al meccanicismo matematico”.
Di qui l’ardita scelta di Bergson: “Occorre rompere i quadri matematici, tener conto del-le scienze biologiche, psicologiche e sociologiche, e su questa più vasta base edificare una metafisica capace di salire sempre più in alto mediante lo sforzo continuo, progressivo, orga-nizzato, di tutti i filosofi associati nello stesso rispetto dell’esperienza”. Questa è una di quelle idee di fondo che illuminano il significato storico del bergsonismo.