In questa breve comunicazione vorrei tentare di offrire qualche spunto, per un’attenta riconsiderazione della figura del sacerdote padre Pavel A.Florenskij, attraverso alcuni frammenti delle sue Lettere dal gulag Non potendo estendere questa riflessione alla vastissima produzione epistolare, mi limiterò pertanto a tre aspetti: 1) alcune considerazioni preliminari riguardanti la figura di padre Florenskij; 2) la natura di questo epistolario dal lager; 3) quindi, corrispondendo all’itinerario proposto sui totalitarismi , cercherò di soffermarmi sull’intimo legame tra santità e martirio, ovvero, la testimonianza di una Verità bagnata dal sangue.
Pavel A. Florenskij viene attualmente riscoperto in gran parte d’Europa, dopo un lungo e completo oblio, come uno dei maggiori pensatori del Novecento. Pubblicazioni, convegni, seminari, corsi universitari si moltiplicano negli ultimi anni in varie parti del mondo, dando avvio ad una sorta di “Florenskij-Renaissance” dagli sviluppi ancora imprevedibili.
Florenskij è anzitutto un filosofo della scienza, fisico, matematico, ingegnere elettrotecnico, epistemologo, ma anche filosofo della religione e teologo, teorico dell’arte e di filosofia del linguaggio, studioso di estetica, di simbologia e di semiotica. A poco a poco, in questi ultimi anni, sono tornate alla luce parti considerevoli della sua vastissima produzione scientifica, filosofica e teologica, lasciando emergere la statura di vero e proprio “gigante” del pensiero e, su questa impressionante eredità culturale e spirituale sono fiorite negli ultimi quindici anni numerose e diversificate prospettive di ricerca. Già nei primi decenni di questo secolo, diversi pensatori russi lo avevano soprannominato il “Pascal russo”, la cui opera andrebbe posta a fianco a quella di Agostino; o più frequentemente il “Leonardo da Vinci della Russia” (S.Bulgakov, N.Losskij), che brilla per la sua “genialità” (P. Evdokimov) e “originalità” (A. Losev). In effetti ciò che più sorprende dell’approccio scientifico di Florenskij è «la piena assimilazione dell’oggetto di ricerca, lontana da ogni dilettantismo, unitamente all’ampiezza dei suoi interessi scientifici, la sua rara ed eccezionale personalità enciclopedica la cui grandezza non possiamo nemmeno stabilire per mancanza di capacità equivalenti» . Lo stupore non è suscitato soltanto dall’incontro con la sua opera, che attraversa le molteplici forme dello scibile con singolare competenza e padronanza dei più svariati registri formali, ma soprattutto dalla sua vita, dall’integrità umana e spirituale della sua persona. Come osservava lo stesso Bulgakov, nella sua celebre commemorazione dell’amico scomparso: «Padre Pavel non era solo un fenomeno di genialità, ma anche un’opera d’arte (…), l’attuale opera di padre Pavel non sono più i libri da lui scritti, le sue idee e parole, ma egli stesso, la sua vita» . Come dire che l’attenzione andrebbe rivolta innanzitutto all’integrità luminosa della sua persona, e che l’originalità e la genialità del suo pensiero, della sua vita e testimonianza, costituiscono un’unità indivisibile. In Florenskij la vita e l’opera, malgrado siano rimaste tragicamente incompiute (venne arrestato nel maggio del 1933 per essere fucilato l’8 dicembre del 1937, all’età di 55 anni), costituiscono un’unità indissolubile, un unico tessuto d’incomparabile finezza, che come egli stesso ebbe a dire, fa pensare piuttosto a una trama o ad un merletto dove i fili si annodano in motivi complessi e diversi. Questa metafora della tessitura esprime adeguatamente il senso dell’interazione e della connessione vitale sussistente tra l’intensità teoretica del suo pensiero, il rigore speculativo e l’integrità spirituale dell’esistenza. Nella filosofia di padre Florenskij, vita e pensiero, fede e ragione, religione e cultura, parola e azione, sentire e comprendere, analisi e intuizione, invenzione scientifica e creazione artistica, costituiscono un’unica indissolubile realtà, un’unica totalità organica. In lui, di fatto «si sono incontrate e, a loro modo unite, la cultura e la chiesa, Atene e Gerusalemme» (S.N.Bulgakov), e una tale unione rappresenta in sé un fatto di assoluta rilevanza storica ed ecclesiale.
Tutto in Florenskij è orientato verso l’unità sostanziale, l’unisostanzialità, tutto è teso a dar forma ad una “Weltanschauung integrale” (medievale, ecclesiale, trinitaria), come antidoto alla “malattia mortale del secolo”, che si manifesta nelle diverse forme di specialismo, con la frammentarietà dell’esistenza e della cultura. Forse la chiave di volta per entrare in questo complesso e variegato orizzonte speculativo potrebbe essere fruttuosamente ricercata proprio in alcune di queste lettere dal lager, a partire da quella al figlio Kirill del 21 febbraio del 1937, nella quale Florenskij, abbozzando un bilancio della sua esistenza, ormai prossima alla tragica fine, afferma: «… Che cosa ho fatto io per tutta la vita? Ho contemplato il mondo come un insieme (celoe), come un quadro e una realtà unica, ma ad ogni istante dato, o più precisamente in ogni fase della mia vita, da un determinato punto di vista (…). Le sue angolature mutavano, tuttavia l’una non annullava l’altra, ma la arricchiva, cambiando; è qui la ragione della continua dialettica del pensiero assieme al costante orientamento di guardare il mondo come un unico insieme» . L’orizzonte di “metafisica concreta” pazientemente elaborato da Florenskij si regge sulla coesistenza di queste due inscindibili istanze, solo in apparenza contraddittorie: da un lato il riconoscimento della natura dialettica del pensiero, della differenza, della discontinuità, dell’antinomia che lacera ogni realtà vivente e attraverso queste fenditure lascia percepire l’opera della Verità, che “comprende” in sé il dramma della sua consegna, della sua croce; dall’altro lato l’insopprimibile tensione verso l’unità dell’insieme, una visione unitaria e integrale della conoscenza e dell’esistenza come meta. Non si tratta tuttavia di una contraddizione interna del pensiero, in balia tra queste due opposte tendenze, ma della consapevolezza teoretica e pratica che all’unità, come alla verità, si giunge lungo un faticoso cammino ascetico, passando attraverso i contrari, fino a congiungerli insieme, nella distinzione e senza confusione: «La formula del Simbolo Perfetto (Uno e Trino), “separato e inseparabile”, si estende anche a qualsiasi simbolo relativo: a qualsiasi opera d’arte». Per Florenskij al di fuori di questa formula del simbolo trinitario non è concepibile non soltanto l’arte, ma ogni autentica esperienza conoscitiva, compresa quella scientifica. Il simbolo in generale, e il simbolo trinitario in particolare, è l’oggetto dell’inesauribile ricerca filosofica di padre Florenskij, il problema cruciale di tutta la sua vita, che lo sollecita a pensare ininterrottamente «al legame tra fenomeno e noumeno, alla presenza visibile del fenomeno nel noumeno, alla sua manifestazione e alla sua incarnazione» .
Non è possibile accedere alla profonda intenzionalità della vasta opera del pensatore russo prescindendo da questi suoi fondamenti costitutivi, che dischiudono come la conoscenza logica e simbolica, l’antinomia della ragione e della verità, l’intera “epistemologia del confine” che si regge sulla relazione vitale tra i “due mondi”, la sua filosofia della religione come ermeneutica della rivelazione, abbiano il loro fulcro teoretico e spirituale nella “filosofia dell’omousìa”, che sgorga dall’ontologia trinitaria, dall’unisostanzialità trinitaria.
Nel maggio del 1998 ha visto finalmente la luce un volume che raccoglie per la prima volta, tutte le Lettere dal lager di P. Florenskij che è stato possibile ritrovare. Si tratta naturalmente di una documentazione, che per molteplici ragioni, assume un rilievo di particolare eccezionalità. Un epistolario di commovente bellezza e intensità che lascia trasparire tutta l’umanità e la grandezza spirituale di padre Florenskij, testimone e martire della fede ortodossa in terra russa.
Nell’epistolario dal lager non emergono, per ovvie ragioni (legate anche alle drammatiche condizioni di vita dei prigionieri), le elaborate e raffinatissime architetture speculative che avevano caratterizzato gran parte delle sue opere prima dell’arresto. No! Qui il tempo per la meditazione è divorato dall’infernale macchina carceraria, e sembra affiorare una tonalità più intima, una spontaneità nativa di un cuore messo a nudo, ormai privato di tutto, persino della possibilità di riflettere sul suo intimo e vitale legame con il Dio di Gesù Cristo e con la sua Chiesa, amata nella più totale dedizione. Tutto questo a lui sacerdote è rigorosamente negato dal ferreo e intransigente controllo della censura. Così le Lettere si configurano come uno dei primi ed estremi tentativi di riflessione teologica che esclude la possibilità di far ricorso alle sue categorie e al suo linguaggio, a partire dalla stessa nominazione di Dio. Un’esperienza esistenziale e linguistica al limite del paradosso del dire Dio lasciandolo non detto.
Affondate nella privatezza, nella miseria materiale, umana e spirituale, scritte nei rari frammenti di tempo strappati alla stanchezza, dopo giornate e notti di massacrante e spesso insensato lavoro, le lettere florenskijane sono l’appassionata confessione di un’anima lacerata, che aderisce con fede e speranza alle terribili situazioni esistenziali, all’intimità e verità del “vissuto”, anche se ormai sempre più spogliato di ogni umanità e dignità. Da questo punto di vista le lettere offrono soprattutto un nitido riflesso della tragicità epocale vissuta dalla cristianità ortodossa sotto il giogo del totalitarismo sovietico, e forse ne costituiscono uno dei momenti più alti di autocoscienza di quel “tempo di crisi e di persecuzione”. Una documentazione ricchissima, nella quale biografia e teoria, vita e pensiero, si congiungono intimamente nell’esperienza tragica di una testimonianza tra le più autentiche e radicali del nostro secolo, paragonabile per molti versi a Resistenza e resa di Dietrich Bonhoeffer, o ai Diari di Etty Hillesum. Insieme a Dietrich Bonhoeffer, Florenskij condivide non solo la testimonianza di fede in Cristo pagata con la vita, ma sorprendentemente, nonostante la diversità di contesto culturale, anche molti aspetti ermeneutici inerenti la storia della salvezza, la genesi del totalitarismo a partire dalla forma dilagante della stupidità (Dummheit), così pure la centralità teologica del rapporto tra responsabilità e memoria.
L’epistolario dal carcere è una documentazione estremamente preziosa per scoprire la complessa polifonia spirituale di questo singolare pope ortodosso, per ricostruire il suo dialogo con il mondo e con la vita attraverso gli affetti più cari, un dialogo ininterrotto nel quale si congiungono, fino agli ultimi giorni, profondità e delicatezza, ragione e passione, intelligenza e sentimento. La maggior parte delle lettere scritte dal campo delle isole Solovki sono indirizzate alla famiglia, in particolare a sua moglie Anna Mikajlovna, e il fatto che si siano conservate è soprattutto merito suo. Florenkij diede una particolare numerazione alle lettere, forse con l’intento di conservare la loro integrità e unitarietà. Generalmente ogni testo veniva scritto su una doppia pagina di un quaderno a quadretti, suddivisa in più parti distinte: alla moglie, ai figli e alle figlie. Cosicché ognuno poteva leggere separatamente la sua lettera personale. L’epistolario resta di fatto l’unico strumento di comunicazione con il mondo esterno, che si va progressivamente riducendo al “mondo vitale” degli affetti famigliari. Come egli stesso confessa in una lettera del 12.1.1937: «Ho la sensazione che a questo punto non c’è più niente che di per sé sia interessante e soltanto il fatto che io, in qualche modo, riesca ancora a comunicare con voi, risveglia il mio pensiero».
E’ piuttosto complesso tentare una ricostruzione sistematica della struttura interna dell’epistolario, tuttavia, sia pure nella diversità di tono e di stile, sono individuabili alcune costanti:
In queste lettere l’autore descrive spesso le proprie condizioni di vita, cercando sempre di attenuare e mitigare sia per non incorrere nelle implacabili ripercussioni della censura, sia per non impressionare e addolorare oltremodo i famigliari. Emerge comunque una situazione desolante, un ambiente di sofferenza fisica, morale e di incombente abiezione, ciò nonostante, al fondo si avverte sempre un solido radicamento spirituale che lo porta a sperare contro ogni speranza, lo porta con disincanto e realismo, fatica e coraggio a ricercare la quiete interiore nonostante l’inferno che lo circonda. La vita quotidiana nelle isole Solovki con i riti della deportazione, la miseria di creature in balia dell’arbitrio e della violenza, tutto l’infernale meccanismo è colto con grande dolore, ma non affiora né odio né rivolta, neppure giudizio. Su tutto si stende uno sguardo di amarezza, misericordia e preghiera. Quanto più acuta si fa la percezione della fine, tanto più la sua voce diventa limpida e sicura. Immerso nel pieno dell’orrore resiste fino all’ultimo per “respingere ogni atomo di odio”, perché renderebbe il mondo ancora più “inospitale”. Nel suo capolavoro filosofico e teologico del 1914 La colonna e il fondamento della Verità, Florenskij aveva infatti definito l’essenza del peccato come “autoaffermazione inospitale”, un’autosufficienza che rende inetti al dono e ad ogni accoglienza, fino a portare la persona alla frantumazione del suo nucleo interiore. Questa disposizione interiore di Florenskij a «vedere nell’altro realmente una persona che ami» (28.4.1936) è invincibile, e trova la sua ragione anche nella «ferma convinzione che al mondo niente si perde, né di bene né di male, e presto o tardi lascerà il suo segno» (23.2.1937). Padre Florenskij guarda con sofferto disincanto e realismo questa tragica vicenda della storia contemporanea e ne avverte lucidamente gli esiti, senza aspettarsi nessuna palingenesi dell’umanità, ma al contempo matura una ferma consapevolezza: «La mia più intima persuasione è questa: nulla si perde completamente, nulla svanisce, ma si custodisce (misteriosissimamente) in qualche tempo e in qualche luogo. Ciò che è immagine del bene ed ha valore rimane, anche se noi cessiamo di percepirlo – e conclude osservando che – senza questa consapevolezza la vita si perderebbe nel vuoto e nel non senso». Ma forse uno dei frammenti più intensi, che meglio esprime la forza della sua filosofia della persuasione, la ritroviamo in una lettera a Natalija Ivanovna (moglie del figlio Vasili) dopo la notizia della nascita del primo nipotino, «l’unica notizia che mi annuncia qualcosa di veramente nuovo, senza privarmi di quanto ancora mi appartiene, accrescendo quei beni del cuore che sono rimasti». Qui Florenskij annota: «La vita vola via come un sogno e spesso non riesci a far nulla prima che ti fugga l’istante della sua pienezza. Per questo è fondamentale apprendere l’arte del vivere, tra tutte la più ardua e essenziale: colmare ogni istante di un contenuto sostanziale, nella consapevolezza che esso non si ripeterà mai più come tale» (20.IV.1937).
L’attenzione e la preoccupazione pedagogica di padre Pavel è sempre rivolta alla crescita umana, culturale e spirituale dei suoi cinque figli. A tutti insieme e ad ognuno singolarmente si rivolge con l’intensa partecipazione affettiva del padre in esilio, cercando continuamente di valorizzare creativamente ogni aspetto della loro personalità, e coltivare con premura e delicatezza gli specifici talenti e interessi personali di ognuno. Forte è il richiamo a perseverare nel cammino sulla via della perfezione interiore, della comunione fraterna, della generosità. L’invito rivolto ad ognuno è di essere l’immagine della virtù, «essere e non apparire, costruire una disposizione d’animo chiara e trasparente, una percezione del mondo integrale, e coltivare con attenzione e in modo disinteressato il pensiero» (13.V.1937), per poter penetrare con precisione e cura nell’essenza più profonda delle cose, evitando ogni approssimazione. Un ammonimento ricorrente nelle lettere, che era già presente nel suo Testamento del 1917: «… non fate le cose in maniera confusa, non fate nulla in modo approssimativo, senza persuasione, senza provare gusto per quello che state facendo. Ricordate che nell’approssimazione si può perdere la propria vita!». L’attenzione, come nel pensiero di Simone Weil, è essenzialmente una categoria spirituale, che dà forma all’architettura dell’anima, per questo in un secondo Testamento scritto nel 1922, dal tono ancora più intenso, leggiamo: «Cari figli miei, guardatevi dal pensare in maniera disattenta. Il pensiero è un dono di Dio ed esige che ci si prenda cura con tutte le forze del suo oggetto» . A ciascuno infonde sempre speranza, rivolgendo il caloroso invito a non smarrire mai il radicamento nella comunione in Cristo, a superare con coraggio, anche i momenti più tristi: «Quando proverete tristezza nel vostro animo guardate le stelle oppure il cielo di giorno. Quando siete tristi, offesi, sconsolati o sconvolti per un tormento dell’anima, uscite all’aria aperta e fermatevi in solitudine immersi nel cielo. Allora la vostra anima troverà la quiete».
Nell’epistolario si rincorrono le riflessioni su aspetti naturalistici e scientifici (in gran parte riguardanti le sue ricerche di laboratorio), ma anche la botanica, la mineralogia, la cosmologia, ecc.. Richiamando l’attenzione su questi aspetti, più volte egli sottolinea come il fondamento di ogni suo interesse scientifico vada ricercato nel suo rapporto con il mistero: «Colgo l’occasione per dire a te e ai bambini che tutte le idee scientifiche che mi stanno a cuore, scaturiscono dal mio sentimento per il mistero. Tutto ciò che esula da tale sentimento, non trova dimora nel mio pensiero, al contrario tutto ciò che da esso scaturisce resta vivo in me e prima o poi diventa oggetto di uno sforzo scientifico» (24.3.1937, alla moglie). Ma numerose sono anche le digressioni di carattere estetico, musicologico (soprattutto nelle lettere alla figlia Olga), filologico, letterario, filosofico, e di aspetti che potremmo definire di teologia della storia. A prevalere, tuttavia, sono soprattutto le questioni inerenti la genealogia, la ricerca, quasi ossessiva, dei tratti costitutivi della stirpe, intesa come qualcosa di integro, la sintesi delle diverse esperienze di vita nel tempo. Le “lezioni” che ci provengono dalla stirpe dovrebbero essere assimilate e dovrebbero entrare a far parte della coscienza, per far fruttare al meglio i propri talenti. Di qui l’importanza del legame con il flusso ininterrotto del tempo della memoria come eterno presente. «Vivo di ricordi – confessa spesso Florenskij ai suoi cari – mi rammento dei più piccoli dettagli su ciascuno di voi» e sebbene essi riaffiorino «come ferite che straziano la mia anima», appartengono comunque a quel tempo della memoria come salvezza. Per questo si fa in lui sempre più matura la convinzione che: «…il passato non è passato, ma è custodito e rimane per sempre, ma noi lo dimentichiamo e ci allontaniamo da esso. Tuttavia in seguito, lungo il susseguirsi imprevedibile delle circostanze, esso riappare di nuovo come un eterno presente – e citando i versi del mistico Silesio conclude – La rosa che il tuo occhio esteriore vede, è fiorita in Dio dall’Eternità». (alla moglie, 27.5.1935). E in un altro passo dell’epistolario «Il passato non è passato, esso si conserva eternamente da qualche parte, in qualche modo e continua ad essere reale e ad agire» (22.XI. 1936). Il tempo della memoria come simbolo dell’eternità e della Verità come Eterna Memoria, che è uno dei temi dominanti dell’opera teologica e filosofica, ritorna ora nelle lettere con più intensa venatura esistenziale.
Forse la chiave di volta per entrare nei meandri dell’epistolario è già tutta inscritta in un frammento di un quaderno di appunti degli anni Venti: «Non tradire mai le tue più profonde convinzioni interiori per nessuna ragione al mondo. Ricorda che ogni compromesso porta a un nuovo compromesso, e così all’infinito». Non rinnegare per nessun motivo la Verità, ma sii sempre fedele ad essa! Questa annotazione la possiamo intendere come una delle esigenze più intime e radicali di tutta la sua vita e opera.
Ora vorrei rendere più esplicita questa fedeltà insopprimibile ad una verità bagnata dal sangue. Tutta la vita di Florenskij è un’appassionata ricerca della verità e una totale dedizione ad essa, ma una verità non come adequatio, come formale corrispondenza logica tra fenomeno e parola, ma come adesione profonda alle concrete nervature del reale, al senso più profondo della vita e della storia, come fedeltà alla propria persuasione, fino alla “sequela” della Croce. Facendo propria la teoria della “sostituzione” e l’identificazione con la colpa e con il male degli altri, assume in proprio (sulla propria carne), il destino tragico e le sofferenze della Russia, accettando una vita di “abbandono” e di “svuotamento”.
Già in occasione del primo arresto del 1928 egli percepisce con estrema lucidità il senso della sfida in atto quando in una lettera della prigionia osserva: «Ci sono stati dei giusti che hanno avvertito con particolare acutezza il male e il peccato presenti nel mondo e che nella loro coscienza non si sono separati da quella corruzione; con grande dolore hanno preso su di sé la responsabilità per il peccato di tutti, come se fosse il loro personale peccato, per la forza irresistibile della particolare struttura della loro personalità» . Anche nei mesi immediatamente successivi alla sua scarcerazione, pur essendo perfettamente consapevole della recrudescenza del clima di persecuzione nei confronti della cultura ecclesiale e della sua persona, rinuncia alla possibilità dell’esilio a Parigi più volte offertagli, scegliendo di condividere fino in fondo il destino del suo popolo, di rimanere a fianco della sua comunità che vive le stesse violenze e gli stessi soprusi. A tale proposito sempre S. Bulgakov ha scritto che «Padre Pavel non voleva e non poteva organicamente diventare un émigré, separarsi volontariamente o involontariamente dalla sua patria. Lui e il suo destino sono la gloria e la grandezza della Russia, e nello stesso tempo il suo più grande delitto» . Persino dopo il suo secondo e decisivo arresto del 28 maggio del 1933, Florenskij rifiuta ogni intervento in suo favore in vista di una possibile liberazione; e argomenta le sue ragioni facendo proprie le parole dell’apostolo Paolo nella lettera ai Filippesi (Fil 4,11-13): «Non dico questo per bisogno, poiché ho imparato a bastare a me stesso in ogni occasione; ho imparato a essere povero e ho imparato a essere ricco; sono iniziato a tutto, in ogni maniera: alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in Colui che mi dà la vita». Uno dei brani neotestamentari più ricorrenti negli atti dei martiri. Nessuna scappatoia gli appare accettabile per mettere in salvo solo se stesso; e quando alcuni suoi studenti e figli spirituali a lui più vicini gli chiedono un consiglio sulla possibile scelta della via dell’esilio, la sua risposta è: «Quelli tra voi che si sentono abbastanza forti da resistere devono restare, e quelli invece che hanno timore e non si sentono saldi e sicuri possono andare» . Non si costringe nessuno a restare. La fedeltà alla propria coscienza, soprattutto nel momento gravoso della sofferenza, esige la più perfetta libertà.
Incamminandosi consapevolmente lungo questa via crucis, Florenskij subisce tutte le umiliazioni e le violenze che conosciamo, fino all’atto estremo del sacrificio di sé per rendere possibile la liberazione di altri compagni di cella (come attestano gli atti del processo farsa ordito contro di lui e resi pubblici solo nel 1990).
Nessuno avrebbe mai potuto sospettare che le pagine incandescenti di quel capolavoro della teologia e della filosofia cristiana contemporanea che è La colonna e il fondamento della Verità, pagine tutte protese verso la ricerca insonne della verità come «fuoco divorante», e il pieno accoglimento della sua Luce, (cfr. La Luce della Verità), mediante la kenosi dell’Io e la consegna di sé, sarebbero diventate dopo oltre un ventennio il suo banco di prova personale. Di questa Verità ne va della propria vita e Florenskij, filosofo dell’omousia e della sapienza dell’amore trinitario come “consegna”, sa bene che l’esperienza di fede cristiana non è vuoto ornamento o retorica, ma la fibra essenziale della vita, fino al dono di sé: «la fede che ci salva è il principio e la fine della Croce e della con-crocifissione al Cristo», scriveva lucidamente nella sua teodicea ortodossa.
Ma come ci ricordano le ultime lettere dal lager, la sorte di questo dono per il mondo è paradossalmente il disprezzo e il negligente rifiuto. La Croce come Amore è il vero paradosso e la vera antinomia della ragione. «Il destino della grandezza è la sofferenza, quella causata dal mondo esterno e la sofferenza interiore. Così è stato, così è e così sarà. Perché sia così è assolutamente chiaro: c’è una sorta di ritardo della coscienza rispetto alla grandezza e dell“io” rispetto alla sua propria grandezza … E’ chiaro che il mondo è fatto in modo che non gli si possa donare nulla se non pagandolo con sofferenza e persecuzione. E tanto più disinteressato è il dono, tanto più crudeli saranno le persecuzioni e atroci le sofferenze. Tale è la legge della vita, il suo assioma fondamentale (…). Per il proprio dono, la grandezza, bisogna pagare con il sangue» (13.2.1937). Ora è fin troppo evidente che la “grandezza” di cui parla qui Florenskij, non è altro che la stessa esperienza della santità, che implica il dono dell’amore “sino alla fine” (Gv 13,1), vale a dire sino alla croce. L’amore porta a pieno compimento il dono, anche se “i suoi non l’hanno accolto” (Gv1,11). Per Florenskij la santità non può essere ridotta in senso kantiano ad una «pienezza delle perfezioni morali», ad una caratterizzazione etica, ma implica innanzitutto il suo riferimento primario alla dimensione ontologica. L’autentico significato della parola “santo” evoca non la perfezione morale, quanto piuttosto la perfezione ontologica, nel senso della provenienza originaria dell’essere, del suo legame costitutivo con qualcosa che possiede un’altra realtà. La santità richiama direttamente la realtà eterna e preesistente che come “Luce invisibile” di Dio stesso, è da sempre presente nel mondo e nella sua storia, essendo il suo «pilastro ontologico». Di conseguenza la persona santa si distingue essenzialmente per questo stato particolare dell’esistenza, che consiste nella partecipazione ontologica alla “Luce divina” e quindi nell’esistere veramente e realmente come creature permeate dallo Spirito di Verità.
Per Florenskij, la santità inerisce essenzialmente ad uno stato dell’esistenza che ha come caratteristica fondamentale la testimonianza. Ciò emerge con prorompente decisività teoretica mettendo a confronto alcuni brani dell’epistolario con le sue opere filosofiche e teologiche precedenti (in particolare il VII capitolo di Filosofija kul’ta, intitolato molto significativamente “Testimoni” – Svidetel’) . Ogni cristiano è chiamato a essere testimone, nella realtà storica terrena, delle realtà invisibili, perché le creature sante sono essenzialmente i «visibili testimoni del mondo invisibile». Testimoni nel senso ancora più originario del termine, martyr. Il martire è il testimone più autentico e credibile della Verità rivelata, non solo per la parola pronunciata, ma soprattutto per il sangue, che si fa Parola di vita, sull’esempio originario e la sequela del primo Testimone (Ap 1,5; Gv 18,37). Gesù Cristo che è venuto al mondo per dare testimonianza alla Verità, non si è limitato ad essere testimone in parole, ma come “Verbo fatto carne”, ha testimoniato la sua unisostanzialità con il Padre, fino alla Croce.
In questo tentativo estremo di Florenskij di pensare, affermare e testimoniare la Verità nel centro della tragedia, è racchiuso forse il senso più autentico e segreto dell’epistolario dal lager. In esso il motivo biografico si dilata fino a congiungere l’integralità della vita e del pensiero con la sofferenza di Gesù, e senza neppure nominarlo, sprofondato ormai nel più agghiacciante silenzio delle Solovki, a Lui si conforma in ogni piccolo gesto, fino al Dono di sé.
NOTA: il testo, che è stato rivisto dall’Autore, si trova nell’allegato PDF completo di note. Riporta la conversazione tenuta a Brescia il 28.3.2003 su invito della cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.