Come in altre letterature, quella latina ha anch’essa le sue “cruces”: “croci” nel senso di lacune, luoghi incerti o problemi insoluti, anche se appassionatamente indagati. Talora il dibattito filologico riguarda l’attribuzione stessa di intere opere: è il caso dell’ “Appendix virgiliana”, o del “Dialogus de oratori bus” d’incerta paternità tacitiana, degli “Epigrammata”, tramandati come senecani o, comunque, di scuola senecana. I settantadue “Epigrammi” sono stati ora tradotti in italiano da Luca Canali, che ne ha curato l’edizione con testo latino a fronte per la collana “I Classici della Bur”. L’opera è introdotta da una brillante premessa dello stesso Canali, mentre le note sono di Luigi Galasso.
Gli “Epigrammi” sono una novità assoluta per il largo pubblico dei lettori di Seneca e meritano perciò di essere segnalati. Il clima che vi si respira è certamente quello del mondo di Seneca al punto che, se si tratta di un falso, si deve riconoscere che l’ignoto autore gareggia degnamente con il grande modello. Una delle caratteristiche dell’epigramma è quella di dire in breve l’essenziale su di un argomento. L’autore, chiunque sia, insiste su filoni tematici ben precisi: non solo le persone, ma le città e gli imperi sono mortali; la caducità riguarda non l’una o l’altra cosa, ma il mondo stesso (hic aliquo mundus tempore nullus erit); le guerre civili scatenano nei capi e nei popoli i peggiori istinti e portano alla tirannia; la speranza è “dulce malum” e addirittura “summa malorum”, ma pur sempre conforto agli infelici, “solamen miseris”; i più celebri personaggi della lotta politica, se sconfitti, sono trasfigurati in esempi di saggezza stoica.
Dei settantadue componimenti alcuni ci sono sembrati veramente belli. Ecco due versi lapidari sul tempo e la morte: “Il tempo vorace tutto distrugge, tutto ghermisce… / La morte tutto richiede. É legge, non pena, morire”. In latino: “Omnia tempus edax depascitur, omnia carpit… Omnia mors poscit. Lex est, non poena, perire” (Epigr. 1, 1, 7). Che rimarrà nei secoli – si chiede l’autore – delle Piramidi e del Mausoleo di Cleopatra, dei marmorei edifici che costellano la via Appia? “Tutto ciò sarà scosso e abbattuto dal tempo…. / Solo la poesia è esente da tale destino e respinge la morte; / e tu, Omero, vivrai in eterno per i tuoi carmi” (carminibus vives semper, Homere, tuis – Epigr. 26, 7, 9-10). Ci furono città che un giorno, a ragione, gli antichi ammirarono; ebbene là ora tu vedi piccoli sepolcri di grandi eventi: “magnarum rerum parva sepulcra vides” (Epigr. 20, 7-8). Né meno intenso è l’ “Epigramma 71” che io intitolerei “Congedo”.
Certamente in questi versi fa capolino qua e là, anche la passione amorosa, rappresentata ora nella sua ispirazione più nobile, ora con sorridente indulgenza per l’umana debolezza. E per un filosofo stoico non si tratta di una concessione da poco arrivare a scrivere: “Vi sembro folle. E non mi rammarico di sembrarlo. / Ma perché vi sembra che io lo sia? Orsù, ditelo: / … ‘Perché sei sempre innamorato, e sempre lo sei stato’. / Ma questa follia, o dei, possa non abbandonarmi mai!” (Epigr. 42, 1-4). Il colorito senecano di alcuni epigrammi risulta anche dal richiamo insistente al lungo esilio in Corsica, reso ancor più insopportabile “quando si fa sentire la feroce canicola” e dall’alternarsi della misura della ragione e di quel fascino dell’orrido che, come si sa, appesantisce le tragedie di Seneca.
In conclusione, leggendo e rileggendo questi “Epigrammi”, pur con tutto il rispetto per l’accanimento della critica nei loro confronti, sono sempre più indotto a pensare, come alla fin fine confessa lo stesso Canali, che “l’ipotesi della paternità senecana di tutti gli epigrammi non può essere esclusa interamente”. Perché Seneca, in epoche diverse della sua vita, non avrebbe potuto concedersi lo sfizio di poetare, tenendo solo per sé le sue composizioni divertenti e insieme dolenti?
Giornale di Brescia, 11.2.1997.