Sono nato come quarto figlio in una povera famiglia di contadini di un piccolo villaggio della Pannonia. I miei genitori si sono trasferiti a Budapest quando ero ancora piccolo; integrando l’entrata dell’affitto del piccolo podere con la paga di operaio di nostro padre, riuscirono a far studiare i loro figli.
Nostro padre, oltre al lavoro di operaio, accettò anche di fare il portinaio in cambio del piccolo appartamento di servizio, e noi ragazzi abbiamo imparato ben presto ad aiutarlo, spazzando la neve dal marciapiede nei mesi invernali prima di andare a scuola. E siamo cresciuti mangiando patate, fagioli, piselli secchi e pan bruschetta, e la domenica qualche volta anche la carne.
Avevo undici anni quando le armate naziste hanno invaso il mio Paese e hanno instaurato una tragica dittatura, coadiuvati da un governo fantoccio composto da fanatici estremisti,
La nostra casa venne inglobata nel ghetto degli ebrei, la strada chiusa da una palizzata; si poteva uscire ed entrare solo muniti di una tessera con fotografia, sotto il controllo di guardie armate. Mi ricordo i manifesti attaccati sui muri dai nazisti, detti della “freccia crociata”, che promettevano di giustiziare immediatamente sul posto chiunque osasse aiutare gli ebrei, umiliati e segnati con una grande stella gialla sui vestiti. Eppure nostra madre ci mandava ogni giorno nella casa di fronte a portare ad un vecchio ebreo paralizzato un piatto di minestra con un pezzo di pane.
Così fui iniziato dai miei genitori a diventare “fuorilegge” per rispettare una legge superiore a quella, spesso ingiusta, degli uomini.
Soltanto qualche anno dopo fui inviato con la stessa missione e con lo stesso metodo furtivo a casa dell’ex vice-prefetto, finché non fu deportato per ordine del nuovo potere comunista in chissà quale prigione.
Per me allora era solo un’avventura eccitante; solo più tardi sono giunto a capire il volto pallido di mia madre e di mio padre quando non rientravo in fretta a casa.
Anche da mio padre, semplice contadino-operaio, ho ricevuto lezioni di vita. Mentre ammiravo le sue numerosissime decorazioni di guerra, medaglie d’argento, d’oro, croci di guerra e così via, desideroso di sentire la storia dei suoi atti eroici, fui zittito da un unico racconto: quando, in un momento di calma sul fronte cruento delle battaglie di Doberdò, andò nelle retrovie per trovare qualcosa che calmasse la sua fame. E come, entrato nella baita di una povera montanara con i suoi commilitoni, con un pretesto la fece uscire di casa con i bambini per poter rubare le patate che cuocevano nel paiolo. E come capirono – nonostante la lingua sconosciuta – la disperazione e le maledizioni della povera donna… “Nella guerra gli uomini diventano bestie, figlio mio”, concluse mio padre e non disse mai altro sulla guerra ad eccezione di questa confessione penosa.
Prima dell’arrivo delle armate sovietiche, mio padre fu arrestato e trascinato via dai nazisti. Ricordo il nostro spavento e il pianto di nostra madre, già gravemente cardiopatica. Ma poi tornò, per essere riportato via poco dopo, il primo giorno della ‘liberazione’. Imparai subito la prima frase russa della mia vita: “Davaj, piccolo robot” – vieni, c’è un piccolo lavoro, Alcuni non sono mai tornati da questi “piccolo robot”.
Ma la buona stella di nostro padre lo fece tornare; appena arrivato a casa prese dalla cantina la vanga e il piccone e ci portò – senza che ci fosse alcun comando – in una piazza non lontana, luogo abituale dei nostri giochi d’infanzia, a dar sepoltura alle numerose vittime di quei giorni tremendi.
In un enorme magazzino, ex deposito di mobili, erano accatastati fino al soffitto i cadaveri di poveri ebrei, vittime di una pazzia furiosa e assassina. La terra era ghiacciata e si faticava a fare dei buchi, e i cadaveri andavano spostati con cautela, perchè si spezzavano per il gelo, come i ghiaccioli che pendevano dalle grondaie.
Poi lentamente riprese la vita tra immani rovine.
Ogni tanto si partiva a visitare i parenti di campagna, per mendicare un sacchetto di fagioli, piselli secchi, patate, e qualche pezzetto di lardo rancido, cibo da gran signori. Quando il lardo finiva, tagliavamo la cotenna in piccole strisce e la masticavamo con il pane: in quel momento era companatico saporito.
Giunse poi il giorno in cui mio padre si trasformò per il potere in un ricco contadino, kulak in russo, nonostante le rendite del piccolo appezzamento di terra e una buona fetta dello stipendio di operaio bastassero a mala pena a pagare le tasse. La parola d’ordine era “la fabbrica agli operai e la terra ai contadini” e dopo tante vessazioni e minacce mio padre dovette rinunciare al suo piccolo appezzamento di terreno a favore dello Stato, il quale d’altronde vietava l’allevamento di polli e conigli in città.
Da quel momento sparì il pane casereccio dalla nostra mensa e il nostro povero padre cominciò a consolarsi con il calice di vino, frequentando le osterie dei dintorni.
Ma vi furono casi ben più tristi: il padre del mio migliore amico preferì impiccarsi piuttosto che cedere alle pesantissime insistenze dei “compagni”, che scendevano dalle fabbriche come sciami di vespe inferocite per la campagna di collettivizzazione, girando villaggio per villaggio, casa per casa. E si gridava: “duro è il pugno del proletario / quando serve spacca il muso”.
Così si viveva o, meglio, si sopravviveva.
Grazie all’affettuoso interessamento del mio parroco e di un vecchio professore, mi iscrissi al liceo classico, dove i laureandi della vicina facoltà di lettere svolgevano lezioni di tirocinio.
Passavo da una classe all’altra senza infamia e senza lode. Studiavo poco, ma leggevo tanto: nella piccola biblioteca della parrocchia mi vedevano due volte la settimana e per pochi centesimi prendevo a prestito due-tre volumi. Naturalmente ero guidato nelle mie letture, per cui dai racconti di Verne, di Carlo May e dalle storie indiane passai alla Divina Commedia in traduzione ungherese e a Così parlò Zarathustra di Nietzsche.
Rammento ancora oggi il nostro divertimento quando i giovani tirocinanti, tremanti di paura, ci tenevano le prime lezioni della loro vita.
E come dimenticare quando il bidello entrò in classe per togliere il crocifisso: ebrei, protestanti e cattolici, insieme, protestammo vivacemente, mentre il bidello urlava da sopra l’armadio da cui non poteva scendere, avendogli tolto la scaletta. E tutto finì con la ramanzina del professore di lettere.
Ma gli avvenimenti urgevano alle porte.
Non molto tempo dopo il capoclasse venne sostituito dal “segretario di classe per il Partito”, e il professore di religione si ammalò sempre più spesso. Più tardi venni a sapere la strana malattia che lo colpiva. Arrestato in seguito a denuncia anonima, veniva interrogato in piedi, ad un passo dal muro, costretto ad appoggiare il peso del suo corpo contro una matita puntata sulla fronte, Quando sveniva dal dolore, veniva fatto rinvenire e ricominciava questo trattamento perché “confessasse”. Me lo ha confidato, senza rancore, lo stesso sacerdote mentre mi teneva lezioni di inglese a casa sua in cambio di un piccolo pane.
Per le strade frattanto si stagliavano grandi striscioni con le massime del ‘piccolo padre’ Stalin: “Nel nostro mondo il massimo valore è l’uomo”!
Mentre frequentavo la settima classe – la penultima prima della maturità – ebbi un’accesa discussione con un professore tirocinante che stava laureandosi dopo avere seguito un corso accelerato di sei mesi. L’oggetto della divergenza era una poesia medioevale intitolata Sull’immortalità dell’anima, che lo zelante attivista, in linea con la visione scientifica del mondo, commentò come un esempio di materialismo dialettico che negava il trascendente. Dopo una breve discussione nella quale manifestai tutto il mio scetticismo, il giovane docente mi invitò a presentare il mio punto di vista per scritto, come compito a casa.
Il giorno seguente mi toccò leggere le poche righe polemiche, ma rispettose. Fu la fine del mondo. Insulti, accuse di appartenere ad una cospirazione clerical-fascista, interrogatorio per “avere i nomi dei capi”, che non esistevano, richiesta di autocritica. L’unico che in quell’atmosfera di paura mi strinse la mano fu un ebreo agnostico, mio vicino di banco.
Da parte mia rifiutai di ritrattare alcunché; mi sentivo offeso a morte perché ritenuto incapace di pensare con la mia testa.
I1 preside, un buon uomo terrorizzato, per evitare l’arresto chiesto con insistenza dalla cellula del partito, decise di calcare la mano nei provvedimenti disciplinari: fui espulso dalla mia scuola come da tutti gli istituti superiori del Paese.
A quei tempi il quotidiano del partito comunista si intitolava La libertà…
In qualche modo sono comunque riuscito a sostenere la maturità presso i padri scolopi, dopo di che mi sono iscritto a teologia. L’anno successivo per punire il vescovo “antiprogressista e reazionario”, reo di aver accettato in seminario gli studenti di teologia degli ordini religiosi dichiarati fuorilegge e di non aver voluto nominare nei posti chiave della diocesi i sacerdoti raccomandati dal partito, il seminario venne chiuso. Lo stesso vescovo fu in seguito arrestato e processato.
Continuai gli studi in un altro seminario per quattro anni. Furono anni felici, di notevole arricchimento spirituale e culturale. Naturalmente ogni estate lavoravo come manovale, dovunque trovassi un posto, per aiutare mio padre a mantenermi; ero molto fiero di guadagnare quanto bastava per potermi comprare un paio di scarpe.
Poi venne il 1956, 1’anno degli “avvenimenti spiacevoli” secondo la fraseologia ufficiale.
Io vivevo in casa e frequentavo le lezioni all’Università di Budapest. I ricordi di quei giorni si accavallano contrastanti: le facce sorridenti, i progetti di speranza, lo stato d’animo di un sollievo inspiegabile, la grossa cassa di munizioni piena di banconote con la scritta su un pezzo di cartone: “per aiutare i familiari dei nostri caduti”, senza che alcuna guardia armata fosse nei pressi.
Ma anche i cadaveri di due ufficiali della polizia politica, appesi con la testa in giù in una piazza della città, denudati fino alla cintola e sputacchiati. La vendetta disumanizza l’uomo e impedisce giustizia legale. Scappai via dalla piazza di Budapest piangendo dalla vergogna.
Ma piansi anche di gioia quando i nostri insorti salvarono dalla folla imbestialita, sparando sopra le teste, un povero soldato russo disarmato saltato fuori da un’autoblindo.
Volle il destino che fossi presente insieme a decine di migliaia di cittadini, quando in Piazza Kossuth si chiese a gran voce che Imre Nagy fosse nominato a capo del governo, e riuscii a salvarmi scappando di corsa non appena la polizia politica iniziò a sparare sulla folla disarmata dai tetti delle case che circondavano la piazza.
Non aspettai la conclusione della “normalizzazione”.
In Italia, a Brescia, ho potuto riprendere la mia strada verso il ministero sacerdotale.
Ho lavorato per molti lustri come insegnante, sforzandomi di educare i miei alunni piccoli e grandi, all’amore della verità, al rispetto dell’uomo, al lavoro serio e onesto, alla solidarietà con tutti quelli che hanno bisogno. Ero un insegnate severo, anche se col passare del tempo la comprensione e la simpatia per i giovani hanno avuto ben presto la meglio. Ma posso affermare serenamente che, a parte qualche individuo fanatizzato dall’ideologia rossa o nera e qualche rampollo viziato dal troppo benessere, ho avuto molta gratitudine e tante gioie in questi cinquant’anni. Dire che tutto questo è stato possibile soltanto con l’aiuto del Signore, è tanto ovvio da non doverlo nemmeno sottolineare. Ora quando incontro i miei ex alunni, essi ricordano, sorridendo, le ‘girate’ ricevute, le gite, le chiacchierate serie, le uscite in canotto e i gulas del padre magiaro.
Per vivere la mia vocazione di sacerdote-educatore ritengo indispensabile seguire con occhio attento e fiducioso l’andamento della vita nel mio paese d’origine, in questa mia seconda patria, l’Italia, e nel mondo intero.
Spero in un mondo più libero e più bello.
Respingo la tesi dei sapienti, o meglio dei furbi calcolatori, che tacere è oro.
Odio ogni sistema di pensiero, ideologico o politico-sociale che intenda togliere agli uomini la fatica di cercare con responsabilità la verità, perché questa ricerca è un dovere per ogni uomo e ogni generazione, in ogni momento.
Concludo citando un mio stimato maestro, che nei primi anni del Novecento fece una tesi sui minatori belgi, partecipò a due guerre per condividere le sofferenze dei giovani nelle trincee, lottò contro il fascismo con la penna e la parola tanto da essere cercato a morte dai potenti del momento e finire in esilio, e morì come parroco dei poveri, da cardinale. Si chiamava padre Giulio Bevilacqua. Scrisse al gerarca locale, che minacciava il prete che osava resistere alla dittatura ormai al potere: “Si ricordi l’onorevole che le idee valgono non per quello che rendono, ma per quello che costano… Potete uccidermi. Ma, attenzione, la verità continuerà a vivere”.
NOTA: testo non rivisto dall’Autore della conferenza tenuta a Brescia il 10.11.2006 su invito della Cooperativa cattolico-democratica di Cultura.