Giornale di Brescia, 17 agosto 1991
Nel 1991 ricorre il primo centenario della nascita di uno dei più grandi scrittori russi, Michail Bulgakov, l’autore di un libro come “Il maestro e Margherita”, e l’editrice il Melangolo di Genova bene ha fatto a raccogliere in un volumetto le “Lettere a Stalin” che Bulgakov effettivamente scrisse, quelle si cui si hanno semplici abbozzi e quelle che non furono mai inviate. Bulgakov non ha la tempra dell’uomo che, una volta compresa la disumanità del sistema sovietico, lotta e getta la sua anima in un’impresa che segnerà la sua vita. Bulgakov non è Pasternak, né tanto meno Solzenicyn. Egli non aspira che a essere lasciato in pace a scrivere, a svolgere cioè l’unico compito di cui, a ragione, si sente capace e che per lui è l’unico modo di servire la patria. Ma le dittature ideocratiche non consentono nemmeno questo. Di qui la necessità di rivolgersi al Grande Capo per chiedere un qualsiasi posto di lavoro che gli permetta di sopravvivere e la cessazione degli attacchi da parte della critica ufficiale.
Nella seconda metà degli anni Venti la situazione di Bulgakov s’era fatta pesante. Le riviste non accettavano più i suoi racconti e le sue opere teatrali, principale fonte del suo sostentamento, furono tutte, una dopo l’altra, messe al bando. Nel tentativo di sottrarsi a questo stato di morte civile, Bulgakov decise allora di scrivere agli uomini di Governo, all’onnipotente e ambiguo nume dell’arte socialista, Gor’kij, e allo stesso Stalin. Ormai disperato, il povero Bulgakov cercò invano un posto di portiere o di tipografo e meditò il suicidio. Da questo stato d’animo nacque la lettera inviata il 28 marzo 1930 ai dirigenti dell’Urss, in cui al punto 8 dichiara con disarmante ingenuità: “Chiedo al Governo sovietico di considerare il fatto che io non sono un uomo politico ma un letterato”. Quella fu l’unica lettera che abbia avuto una risposta, e da parte dello stesso Stalin, che conosceva il valore letterario di Bulgakov e che per telefono, tre settimane dopo l’invio della lettera, gli assicurò che sarebbe stato assunto in un teatro come aiuto-regista. Era il 18 aprile 1930 e ventiquattro ore prima della telefonata di Stalin si erano svolti i funerali di un poeta che aveva voluto essere l’alfiere della rivoluzione comunista e che era finito suicida, Majakovskj. Quel cadavere era troppo ingombrante per Stalin e i suoi accoliti. In un simile momento il suicidio di un altro letterato sarebbe stato disastroso per l’immagine che il regime comunista voleva dare di sé sia in Urss, sia soprattutto presso la numerosissima ed influente legione di artisti e scrittori che in Occidente erano comunisti o filocomunisti.
Questo era forse il pensiero dell’enigmatico Stalin; ma Bulgakov come credeva di potersi rapportare al potere? Bulgakov nelle opere dedicate a uno dei suoi autori preferiti, Molière, adombrò nella sua interpretazione dei rapporti tra il grande commediografo e il Re Sole, Luigi XIV, una sorta di modello per le relazioni tra Stalin e lui, tra il potere e l’artista di genio: il monarca, seppur altezzoso e spietato, comprendeva i diritti dell’arte e difendeva l’artista dagli attacchi dei suoi zelanti e gretti sottoposti. Ma Stalin non era Luigi XIV e l’assolutismo monarchico non aveva nulla a che fare con la spietata brutalità delle dittature ideologiche del Novecento. La sperata operazione Bu1galov-Molière, non fu mai possibile sperimentarla. Dopo il sollievo procuratogli dalla famosa telefonata, le pesanti limitazioni imposte alla sua attività di sceneggiatore aiuto regista e la persistente, implacabile condanna al silenzio fecero ripiombare lo scrittore in un profondo smarrimento. Di qui l’ultimo progetto , quello di far pervenire al dittatore una lettera-confessione in cui esporgli le ragioni per cui uno scrittore condannato a vivere in Urss chiede di potersi recare all’estero. La lettera, che non fu mai inviata al despota, porta la data del 30 maggio 1931 e comincia come al solito secondo uno schema compositivo rigido e formale, che si potrebbe dire di “supplica al sovrano”, ma poi esplode letteralmente in uno sfogo di una sincerità commovente e di implicita ma inesorabile denuncia. “Nella vasta arena letteratura russa – scrive Bulgakov – in Urss io ero l’unico lupo. Mi hanno consigliato di tingermi il pelo. Consiglio assurdo. Sia tinto sia tosato, un lupo non assomiglierà mai a un barboncino. Braccato dentro un cortile chiuso, secondo le regole del vivaio letterario, alla fine sono crollato. Anche una belva può stancarsi. Ma uno scrittore che rifiuta la sua professione, uno scrittore che tace vuol dire che non è un vero scrittore”.
L’emarginazione e il silenzio continuarono sino alla fine che giunse pietosa il 10 marzo del 1941. Ma, come ricorda giustamente nella bella introduzione il traduttore e curatore, Mario Alessandro Curletto, “il 3 luglio di quello stesso 1941, mentre l’avanzata tedesca sembrava inarrestabile, quando Stalin parlò attraverso la radio al popolo sovietico esortandolo a resistere sino in fondo, usò la formula: “Mi rivolgo a voi, amici miei”, le stesse parole che Bulgakov pone sulle labbra del protagonista nel dramma ‘Turbin’ nel terzo atto”. E prima che la censura avesse vietato la rappresentazione di quel dramma, accusando l’autore di sentimentalismo reazionario, dai registri della compagnia teatrale risulta che Stalin – anche qui imperscrutabile – vi aveva assistito ben quindici volte. Ammirazione segreta per un genio che non gli si opponeva apertamente, ma che egli avvertiva come estraneo e, nel profondo, oggettivamente ostile?