Giornale di Brescia, 12 febbraio 2014.
Nella prima Lettera ad un amico tedesco scritta nel 1943 e destinata alla pubblicazione clandestina resistenziale nella Francia sottoposta al giogo nazista, Albert Camus scriveva: “lottiamo proprio per delle sfumature, ma sfumature importanti quanto l’uomo stesso”.
Le “sfumature”, la visione poliedrica e non monistica della vita e del mondo, sono uno dei tratti distintivi dello scrittore franco-algerino di cui si è celebrato da poco il centenario della nascita (era infatti nato a Mondovi in Algeria il 13 novembre 1913).
Qualche anno prima, nel 1937 a Firenze, in piena crisi esistenziale, il giovane pensatore aveva fissato nel racconto Il deserto il nucleo fondamentale della sua riflessione, che si ritrova approfondita e chiarificata negli scritti successivi se è vero, come scrive nella Prefazione a Il Rovescio e il Diritto, che ogni artista custodisce nel fondo del proprio animo “un’unica sorgente che nel corso della vita alimenta quel ch’egli è e quello che dice”.
A formare questa “sorgente” è l’oscillazione tra luce e povertà, bellezza e dolore, giustizia e libertà, rifiuto e consenso, natura e storia, spogliazione e voluttà, solidarietà e solitudine, per citare solo alcune delle più note antinomie camusiane.
Questa duplicità costitutiva è propria della natura umana e caratterizza il pensiero occidentale sin dalle origini. Non può risolversi scegliendo solo un corno del dilemma senza una perdita secca per l’umanità. Al pensiero totalitario, proprio dei “pensatori pigri del Nord” che hanno l’ossessione dell’unità, Camus contrappone nella sua opera più controversa, L’uomo in rivolta, il pensiero meridiano, che si collega direttamente ai greci e alla loro idea di misura.
La contraddizione è insita nella storia dell’uomo ed è determinata dal limite “che sembra inseparabile dalla natura umana”. Non si può dunque completamente eliminare, ben sapendo che “ogni mutilazione dell’uomo può essere soltanto provvisoria e che non si serve in nulla l’uomo se non lo si serve tutto intero” (Prometeo agli inferi).
In un momento come quello della metà del Novecento in cui l’intellettuale doveva essere organico a una parte e si metteva l’elmetto e il paraocchi, Camus scelse il ruolo scomodo dell’intellettuale non organico, disponibile a far lega solo “con chi si fa testimone di libertà”.
Isolato nella cultura à la page del suo tempo, Camus rimane attuale e straordinariamente moderno ancora oggi, a differenza dei suoi detrattori di allora.
Nell’inquietudine del suo pensiero si riscontra una certa affinità con Agostino, il grande filosofo africano studiato in occasione della tesi di laurea in filosofia su Métaphysique chrétienne et néoplatonisme, ma anche con il pensiero di Pascal (“Io – scriverà nei Taccuini – sono di quelli che Pascal sconvolge e non converte. Pascal, il più grande di tutti, ieri e oggi”), Kierkegaard e Nietzsche, autori che ben conosceva.
Lo scandalo del male e il silenzio di Dio interrogano Camus in tutta la sua opera, fin dai primi racconti. “Noi siamo davanti al male. E per me io mi sento veramente come Agostino prima della conversione al cristianesimo. Anch’io mi pongo lo stesso interrogativo: Cercavo donde venga il male e non ne uscivo. Ma è anche vero che io so ciò che occorre fare se non per diminuire il male quanto meno per non aumentarlo. Noi non possiamo impedire, forse, che in questo mondo i bambini siano torturati. Ma noi possiamo diminuire il numero dei bambini torturati. E se voi cristiani non ci aiutate, chi dunque nel mondo potrà aiutarci?”(conferenza del 1948 tenuta presso il convento dei domenicani di Latour-Maubourg).
Camus era convinto che le due “fedi”, quella religiosa e quella laica, potessero incontrarsi nell’impegno etico, per rendere la società più civile e solidale.
Lui, non credente, mette in bocca a Jean Tarrou, una delle figure più riuscite de La peste, una frase memorabile giustamente famosa: “Se si può essere un santo senza Dio, è il solo problema concreto che oggi conosca”.