Ci troviamo di fronte ad una situazione estremamente complessa che condiziona sempre di più – e ce ne accorgiamo man mano che passano le settimane – la nostra vita. E non è un caso che questa conferenza porti il titolo “Capire la crisi: gli scenari dell’economia e della finanza”, mentre ancora sei mesi fa si parlava di crisi finanziaria. Era una crisi che sembrava ristretta ad un aspetto della realtà, mentre adesso è “la crisi”. Crisi, secondo il termine greco, è il momento determinante in cui cambiano le situazioni.
Le dimensione della crisi che si interconnettono sono molteplici. Al centro c’è questo cuore economico che andremo ad esplorare per primo, e che si divide in due aspetti: quello microeconomico, legato alla sensazione di caduta dei mercati e all’aumento dei disoccupati e cose del genere, e quello macroeconomico, cioè i grandi squilibri che si sono accumulati nel mondo durante gli ultimi quindici anni e che alla fine hanno portato ad una rottura. C’è anche, come vedremo, una dimensione politica interna: in ognuno dei grandi Paesi, con la coesione sociale che comincia a scricchiolare, la politica interna non è più sicura. Abbiamo poi una dimensione “strategica”, cioè di politica internazionale, e in fondo a tutto questo si avverte un interrogativo che questa società lascia senza risposta – possiamo considerarlo un interrogativo di tipo esistenziale, filosofico, umano – che è il problema dei valori.
Se non inquadriamo tutto questo, le spiegazioni della crisi rimangono parziali e insoddisfacenti.
Facciamo un passo indietro, e partiamo dalla situazione politico-strategica a metà degli anni Settanta. Dopo aver esaminato come tutto questo dà origine ad una serie di fenomeni economici, torneremo a parlare di politica, strategia e valori.
Che cosa succede verso la metà degli anni Settanta? Succede che gli Stati Uniti perdono la prima guerra della loro storia: la guerra del Vietnam. Fu un disastro: 30000 morti tra i soldati americani, gli americani costretti a scappare da Saigon. Due anni prima era finita la convertibilità del dollaro in oro: il dollaro stava scendendo, c’era l’inflazione da tutte le parti, c’era stata la prima crisi petrolifera. Uno shock che aveva lasciato il segno. Dopo il Vietnam, in tutti i Paesi del sud-est asiatico c’erano movimenti di guerriglia analoghi a quello dei Vietcong che aveva sconfitto l’esercito più potente del mondo. Quindi in Malesia, in Indonesia, nelle Filippine, sarebbe stata una questione di tempo prima che i governi nelle capitali dovessero perdere il potere. Come diceva un noto rivoluzionario cinese che era ai vertici della Cina, Lin Biao, “le campagne del mondo assediavano le città”.
Che cosa fecero gli americani in questa situazione? Questo si deve soprattutto al presidente Johnson, che succedette al presidente Nixon, il quale aveva iniziato la guerra: optarono per una strategia economica. Decisero cioè di aprire alla Cina. La Cina era un Paese fermamente comunista e che aveva un passato recentissimo di maoismo che provocò 20 milioni di morti.
Decisero dunque che non si poteva non parlarsi tra la nazione più popolosa del mondo e la nazione più ricca. L’apertura alla Cina si accompagnò ad una analoga apertura verso tutti i Paesi del sud-est asiatico.
Questa apertura significava la disponibilità americana ed europea – allora si era molto in sintonia – di portare l’industria moderna in questi Paesi. La non imposizione di dazi sulle esportazioni di tali Paesi verso l’Occidente. La decisione di mettere un tasso di cambio favorevole per far sì che questa merce costasse poco. L’idea era quella di dare loro delle buone condizioni economiche di base, per costruire una società più ricca, più libera, e che non vorrà ottenere la rivoluzione delle campagne, ma la ricchezza delle città. I cinesi accettarono e fecero lungo la costa del Pacifico delle regioni economiche speciali in cui non valevano le regole del socialismo. Queste zone si svilupparono, e queste merci diventarono sempre più complesse ed esportate verso i Paesi occidentali e soprattutto verso gli Stati Uniti, geograficamente più vicini.
Esportando molto verso gli Stati Uniti, questi Paesi venivano pagati in dollari che non avevano un utilizzo immediato, ma restavano investiti in America, poiché non esistevano altre monete così forti da poter ospitare tutti questi crediti. I Paesi dell’Asia accumulavano dollari, con cui compravano titoli di Stato, i quali erano per la Banca Centrale l’investimento più sicuro. Questo ha voluto dire che gli Stati Uniti non hanno avuto alcun problema ad emettere titoli di Stato, avendo condizioni finanziarie favorevoli, dato che i cinesi e i paesi asiatici prestavano i soldi. Con questa base si finanziò il boom della Borsa negli anni Novanta. C’era la possibilità, per gli Stati uniti, di fare qualunque cosa con il denaro prestato: gli americani hanno potuto fare le guerre, hanno potuto fare una politica del tutto sganciata dalle loro possibilità interne poiché il resto del mondo dava loro fiducia. La situazione si è un po’ modificata quando è arrivato l’euro, a cui questi Paesi asiatici hanno dedicato una parte, seppur minoritaria, delle loro riserve. Quindi lentamente si sono sbloccati.
Il risultato è che, in questo momento, almeno un terzo del debito pubblico degli Stati Uniti è detenuto da Cina, Corea e Giappone. Anche il debito pubblico italiano ha, come suo maggior detentore di bot, di btp e di cct, la Cina, la quale ne detiene circa il 15%.
Crescendo, questa situazione diventa insostenibile. Qualche settimana fa, Thomas Friedman, uno dei maggiori commentatori americani, ha scritto sul New York Times: “Costruiamo supermercati con soldi presi in prestito dalla Cina, per vendere merci cinesi importate a basso costo, che danno lavoro ai cinesi, i quali finanziano la costruzione di nuovi supermercati”. Questo circolo da un lato virtuoso e da un lato insostenibile è andato avanti per circa trent’anni anni. In questi trent’anni, all’ombra di questo fenomeno e di questa apparente superiorità americana, si è verificato il più grosso spostamento di pesi delle economie degli ultimi duecento anni.
Oggi più di metà della produzione industriale viene dai Paesi emergenti. Soltanto 15 anni fa, il 75% era prodotto in Occidente e in Giappone. La classica distribuzione del reddito che si trova ancora adesso nei libri di testo, cioè quella che afferma che il 20% più ricco della popolazione detiene l’80% delle risorse, è cambiata. Ad occhio, siamo in un momento in cui questo 20% detiene circa il 50-60 % delle risorse. C’è poi un 60% che ne detiene il 30%. Infine l’ultimo 20% ne ha pochissime, circa il 5-10%.
Quindi c’è un circuito che ha cominciato ad interessare l’economia mondiale, da cui però ci sono degli esclusi. Questi esclusi sono circa un miliardo di persone, soprattutto l’Africa sub-sahariana e alcuni Paesi dell’Asia. Ma soprattutto il cambiamento dei pesi ha portato a mutamenti nelle politiche e nelle priorità economiche dei vari Paesi e dei vari gruppi.
All’inizio, chi esportava dalla Cina erano le stesse società americane che avevano costruito filiali in Cina per poi riportare in patria le merci prodotte a basso prezzo. Oggi questo è solo il 10% del totale. Le multinazionali cinesi, indiane, coreane sono emerse negli ultimi trent’anni imparando le nostre tecnologie. Tra l’altro, i cinesi hanno un ottimo livello di scolarità, gli indiani hanno un’ottima preparazione matematica. Ci troviamo in una realtà alla quale non ci siamo ancora abituati, e in cui ci stiamo avviando verso una posizione periferica.
Vi faccio qualche esempio. Oggi il primo Paese esportatore di materiale elettronico del mondo è la Cina, che ne esporta più di metà negli Stati Uniti. Nel 2000 gli Stati Uniti erano davanti alla Cina. L’India produce circa la metà di tutto il software elettronico del mondo. L’industria cinematografica indiana è la maggiore del mondo. In Cina ci sono circa seicento milioni di telefonini. Noi siamo quasi esclusi da questa realtà. La Malesia, che ha circa quaranta milioni di abitanti, ha più allacciamenti internet dell’Italia: su tutti i banchi di scuola della Malesia c’è un computer. Questo è il mondo che sta cambiando. E forse purtroppo noi non gli stiamo dando l’attenzione che merita. L’acciaio e il ferro sono fatti prevalentemente in Asia. L’auto ha cominciato a spostarsi prevalentemente verso quella direzione. Abbiamo dunque uno spostamento strutturale, che è avvenuto sotto l’ombrello del dollaro forte il quale otteneva dei tassi molto bassi che hanno permesso delle rivoluzioni industriali il cui beneficio non è andato agli Stati Uniti, ma è andato in tutto il mondo. Ciò ha creato delle tensioni che, quando è avvenuta una causa scatenante, hanno dato luogo al terremoto della crisi finanziaria.
[Il prof. Deaglio mostra una copertina dell’Economist]. Guardando questa copertina dell’Economist, vediamo una terra screpolata: prima era verde, ora si è inaridita. Un signore, vestito da impiegato, si trascina solo su questa terra. Sullo sfondo si vede un sole-moneta: è la moneta che asciuga l’economia. Ci siamo quindi trovati in questa situazione di improvvisa siccità che ha travolto tutto. Ma come avviene questa siccità?
Il motivo scatenante di tutto questo è stato un mutamento nel meccanismo dei prestiti immobiliari.
Vi illustrerò qual è il sistema tradizionale dei mutui per la casa, e che cosa invece hanno fatto gli americani e in parte gli inglesi.
Nel sistema tradizionale c’è da una parte un mutuatario, il quale otterrà il mutuo, e dall’altra una banca. Tra questi due soggetti si stabiliscono due flussi: il prestito che la banca fa al mutuatario e il contratto di mutuo firmato dal mutuatario, in cui c’è scritto che il mutuatario dovrà pagare, ad una data scadenza, un importo fisso o variabile, il cosiddetto “servizio del prestito”. Il “servizio del prestito” è formato dalla restituzione del prestito e dagli interessi sul debito residuo. Che cosa succede a questo punto?
La banca normalmente conosce il mutuatario. Se il mutuatario non paga la prima rata, la banca lo sollecita. Se poi non paga definitivamente, la banca ci perde. Certo, può avere l’ipoteca sulla casa e potrà metterla in vendita, ma questo processo in un Paese come l’Italia richiede mediamente sette anni.
Se molti mutuatari non pagano, la banca fallisce. Prima del fallimento, la Banca d’Italia pilota una fusione di tale banca con una banca “buona” che la assorbe. Il sistema, nel complesso, regge. Quindi gli effetti dell’inadempimento si limitano a questo circuito finanziario.
Ci possono certamente essere delle crisi, come quella determinata dal crollo dei prezzi dell’edilizia, ma sono comunque circoscritte.
Nel sistema attuale, così come è stato applicato e sviluppato in America negli ultimi quindici anni, le cose sono diverse. C’è sempre un mutuatario, ma di fronte a lui non c’è più una banca, c’è una catena di diverse istituzioni finanziarie. Queste istituzioni mandavano direttamente un funzionario a casa del mutuatario, che di solito in America era un immigrato con i redditi precari, poiché tutti coloro che avevano i redditi “a posto” avevano già un mutuo. Volendo dunque espandere il business, si va a toccare delle fasce di reddito a cui normalmente non si dà un mutuo, poiché non danno garanzie.
Supponiamo che ci sia il signor Gonzalez, immigrato dal Messico, che vive a Los Angeles e da due anni svolge lavori precari. Gli viene proposto di acquistare la casa in cui vive, firmando un contratto e ricevendo un prestito.
Qui cominciano le differenze. Mentre la nostra banca si tiene il pezzo di carta in cassaforte, l’istituzione A lo rivende il giorno stesso ad un’altra istituzione B, la quale lo rivende a sua volta all’istituzione C, e così via.
Dunque l’istituzione B raggruppa tutti i mutui di un certo tipo e li classifica in base al loro rischio, cioè la possibilità che il mutuatario non paghi. Questi mutui sono rivenduti all’istituzione C, che raggruppa tutti i mutui e i debiti fatti con le carte di credito e altri tipi di debito, e li usa per costruire un edificio. Abbiamo dunque il processo di “cartolarizzazione”: questo debito che stava nella banca diventa liquido, aumentando le sue potenzialità. L’istituzione A riceve subito i soldi di tutto il mutuo e può subito fare un altro prestito. Da questo punto di vista il sistema sembra molto efficiente, anche se richiede un difficile calcolo del rischio. Quello che è successo è che il rischio non è stato bene calcolato, come nel caso del signor Gonzalez. Hanno concesso il mutuo a persone che non erano in grado di pagarlo. Perché l’hanno fatto? Perché c’era un interesse specifico del funzionario di tali istituzioni finanziarie: il suo stipendio, infatti, era determinato dal numero di contratti stipulati. Non si prestava attenzione all’effettivo rimborso del prestito.
A questo punto abbiamo l’istituzione D, che confeziona un prodotto su misura per i clienti, cioè i fondi pensione, le compagnie di assicurazione, i capitali privati, i quali hanno bisogno di liquidità ad una certa data. É la cosiddetta “industria finanziaria”.
Nella sola Gran Bretagna l’industria finanziaria occupava due milioni di persone, ed è diventata la principale industria inglese. La Gran Bretagna si trova in una brutta situazione poiché ora non c’è più nessuno che può farsi fare il prestito.
Prima il “servizio del prestito” andava alla banca. Ora invece i soldi pagati dai mutuatari sono inclusi in altri strumenti finanziari, e possono essere sparsi in ogni parte del mondo. Quindi il titolo del signor Gonzalez, che non riesce a pagare, potrebbe essere posseduto da un cinese o da una banca italiana, anche se queste per fortuna sono state controllate in maniera ferrea. Le banche degli altri Paesi scoprono, dunque, di possedere titoli di mutuatari non paganti. E questa mancanza di trasparenza è stata una delle principali cause scatenanti della crisi. Vale dunque la metafora del contagio: un elemento “malato”, venendo a contatto con altri elementi, trasferisce la malattia. Il mutuo non pagato, racchiuso in certi strumenti finanziari, annullava il valore dell’intero prodotto finanziario. Si trattava di strumenti finanziari troppo complicati: tutti hanno cominciato a scambiare titoli che non riuscivano a controllare.
É appunto il contagio che si diffonde nel mondo delle banche e della finanza.
Il primo episodio risale all’inizio del 2007, quando falliscono due società di tipo A. Improvvisamente la situazione esplode nell’agosto 2007, con una serie di effetti che si diffondono come delle “ondate” di crisi.
Il primo effetto è quello diretto: il titolo contagiato di Gonzalez, il mutuatario che non paga. Non si sapeva nemmeno quale fosse il numero esatto di mutuatari non paganti, poiché queste cose erano state fatte di nascosto in società “veicolo”, in cui le banche avevano meno del 50%. Gli effetti diretti sono abbastanza chiari. L’infezione colpisce i prodotti strutturati, e causa perdite alle banche di più di mille miliardi di dollari.
Gli effetti indiretti, poi, hanno aggravato la situazione. Esiste una sorta di mercato notturno del denaro: quando le nostre banche chiudono alle 17:30, controllano la cassa e scoprono di avere una certa liquidità; questi soldi vengono prestati ad una banca in Giappone o in Corea, per esempio, che sta per aprire gli sportelli; alle 8 del mattino, quando le nostre banche riaprono, i soldi vengono restituiti. Questo è il cosiddetto mercato “overnight”, ed è la linfa della globalizzazione. Questo sistema funziona da trent’anni 30 anni, con banche che si conoscono da moltissimo tempo.
Le banche hanno cominciato a prestarsi meno soldi, in seguito alla mancata fiducia causata dalla presenza di mutui subprime. L’effetto indiretto della crisi è dunque la sfiducia reciproca tra le banche, che era un requisito fondamentale dei rapporti tra queste istituzioni. La sfiducia reciproca tra le banche provoca un aumento dei tassi: chi vuole un prestito, deve pagarlo di più. L’aumento dei tassi ha portato ad una riduzione dell’attività delle banche.
Prima dell’estate del 2007, la banche stesse si rivolgevano alle imprese italiane per prestare denaro a buone condizioni. La mancanza di liquidità ha rallentato l’attività dei prestiti delle banche alle imprese.
Oltre a tutto questo, si è inserito un terzo elemento: l’effetto “immobili” negli Stati Uniti. Negli Stati Uniti, dalla fine della guerra, il prezzo delle case non è mai sceso. La banca, la quale prestava denaro con garanzia immobiliare, sapeva che avrebbe ricevuto un immobile che valeva la stessa cifra iniziale, se non di più. Quindi le banche prestavano tutta la somma richiesta. Improvvisamente, per effetto della crisi, il valore delle case è sceso. Le case che erano state date in garanzia ad una banca hanno perso valore. Improvvisamente compaiono delle cadute generalizzate dal prestito degli immobili, che determinano perdite legate ai prestiti con garanzia immobiliare.
Alcuni colossi bancari, per esempio Bank of America o City Group, hanno avuto improvvisamente otto miliardi di perdite a causa del crollo delle loro garanzie immobiliari.
Queste ondate di crisi si sovrappongono, come un effetto domino, e danno luogo alla crisi finanziaria realizzata.
La prima ondata, quella dei mutui subprime, comincia nel giugno 2007. Nel settembre 2007 si sovrappone la sfiducia tra le banche. All’inizio 2008, quando si redigono i bilanci dell’anno precedente, si aggiunge il crollo delle garanzie immobiliari. Poi arriva la quarta ondata che stiamo vivendo adesso, cioè l’ondata degli effetti sull’economia reale. La crisi è diventata una realtà concreta, non più vista come una realtà distaccata.
Il 12 settembre 2008 uscivano gli annunci dei bilanci trimestrali di diverse società automobilistiche, come Toyota, General Motors e Volkswagen. Queste società si sono accorte che non stavano più vendendo auto: si registravano perdite del 30-40%. Questo si è trasferito sull’economia reale.
Quella che cominciamo a temere di vedere è la quinta ondata, cioè l’ondata del malessere politico-sociale. E l’abbiamo visto a partire dai Paesi finanziariamente più deboli, come la Grecia, in cui ci sono manifestazioni ogni settimana, con attacchi alle banche e alle vetrine dei negozi di lusso. L’Islanda è praticamente fallita e ha dovuto cambiare il governo. Anche i Paesi Baltici sono in difficoltà. Dappertutto si segnalano manifestazioni e situazioni di instabilità, come per esempio in Thailandia, che prima esportava negli Stati Uniti e che ora non esporta più nulla. Le tensioni si acutizzano, portando a queste situazioni di estrema instabilità.
É dunque una situazione che nasce come un fattore tecnico, legato ai mutui americani nelle periferie povere, e che ora arriva ad influenzare l’economia reale e forse la politica reale. Questa è la situazione che dobbiamo tenere presente.
Possiamo fare un’altra considerazione: questa estensione del virus è stata favorita da vari fattori. Un fattore è sicuramente l’informazione. Il modo in cui la crisi è stata presentata dai mezzi di comunicazione è stato incompetente. Sono state diffuse maggiormente le notizie negative piuttosto che le eventuali notizie positive, e ciò ha accelerato questo passaggio. É facile leggere sul giornale: “la borsa oggi brucia 300 miliardi di euro”. Poi magari se li riprende il giorno dopo, ma sul giornale questa notizia non compare in prima pagina. C’è dunque una responsabilità dei media, insieme ad un uso dei termini inappropriato. C’è anche il sistema dei bonus che incentiva i manager a guardare ai risultati nel breve termine, poiché i bonus sono annuali. Ogni anno c’è una componente sempre più importante nei nostri sistemi retributivi, anche ai livelli medi, legata ai risultati specifici ottenuti dalla persona. Questo bonus rappresenta una società un po’ troppo schiacciata sul presente. Poi, più in generale, c’è anche questa visione che è la parte deteriore del liberalismo ormai diventato liberismo: i vizi privati diventano pubbliche virtù, secondo un detto classico. Se sei ambizioso, dinamico, egoista, ti scontri con altri ambizioni ed egoisti e da questo scontro esce qualcosa che beneficia tutti. Questa è poi la base del modello di mercato portato all’eccesso.
Adam Smith diceva; “noi non abbiamo il pane per la benevolenza del fornaio, ma abbiamo il pane perché il fornaio ha il suo guadagno”. Era implicito, per Smith, che il fornaio non mettesse del veleno nella farina. Invece, nel nostro sistema, ad un certo punto si è potuto mettere tranquillamente il veleno dei subprime. C’è anche l’idea che qualcuno l’abbia anche fatto apposta, pensando che il signor Gonzalez (il mutuatario) non avrebbe pagato e sarebbe stato sfrattato; la casa, nel frattempo aumentata nel suo valore, sarebbe diventata proprietà dell’istituzione finanziaria. Invece, poi, le case hanno perso valore e sono sorte le difficoltà.
Quindi questa è la situazione che ci troviamo davanti.
Probabilmente tutta la questione dei valori che vengono rimessi in discussione deve partire dalla motivazione dell’azione economica, dai tempi su cui si deve valutare questa azione, e dai fenomeni collaterali dell’informazione e delle retribuzioni. Purtroppo su questo il dibattito non è ancora cominciato. Va detto, per esempio, che la Chiesa cattolica, uno degli enti che in questo periodo ha maggiormente tenuto sotto osservazione la situazione, ha un’approfondita dottrina sociale, ma non ha una vera conoscenza: non ha mai effettuato un’analisi seria su quello che succede nel mondo della finanza. L’unico lavoro che conosco, in questo senso, è quello del cardinale Tettamanzi, che tre o quattro anni fa all’Istituto di Studi di Banca e di Borsa ha fatto una relazione in cui ha cercato di interpretare i contratti e i movimenti sotto un profilo morale. Ma da allora non è successo molto, anche perché per parlare di queste cose occorrono una serie di nozioni tecniche che normalmente non ci sono.
Vediamo ora cosa è stato fatto per combattere questa situazione.
Ci sono stati vari tentativi, ma tutti sono andati piuttosto male. Usando un’altra metafora medica, possiamo dire che se uno ha l’influenza, e voi non avete il vaccino, non si può fare molto e occorre aspettare che finisca. L’unica cosa che potete fare è dargli degli antibiotici, sapendo che l’antibiotico non cura l’influenza, ma può ridurre i suoi effetti collaterali.
L’antibiotico usato dalle banche centrali e dai governi è stato quello di fare delle “iniezioni” di denaro, dove questo mancava.
Le banche si trovano senza soldi, come successe ad una grossa banca francese: alle 8 del mattino telefonò alla Banca Centrale facendole notare la mancanza di liquidità e quindi l’impossibilità di aprire gli sportelli. Tramite la Banca Centrale Europea diedero alla Banca francese 500 milioni di euro a due giorni, dato che la banca era solida, ma non aveva liquidità. Nessuno glieli prestava, a causa della mancanza di fiducia, mentre fino a sei mesi prima glieli avrebbero prestati tutti.
Si è dunque continuato con queste “iniezioni” di denaro nei punti scoperti, soprattutto in Europa.
In America, dove tutte le banche segnalavano la mancanza di liquidità, invece, hanno ridotto a zero il costo del denaro. Tutte le banche potevano chiedere alla Federal Reserve (Fed), la loro banca centrale, quantità di denaro secondo certe modalità. Ad un certo punto alcune grosse istituzioni finanziarie si sono trovate in difficoltà. Per esempio, ci sono due istituzioni semi-pubbliche, che tra loro avevano 25 milioni di mutui, che sono state comprate dal Governo. Sono dunque forme di nazionalizzazione, ma che non hanno lo stesso scopo. Questo processo è stato chiamato “socialismo riluttante”. Nel caso di Lehman Brothers, il Ministro del Tesoro di Bush, non fu attuata la nazionalizzazione: questo portò al fallimento della società, nel momento in cui la crisi diventava incontrollabile.
Tra l’altro, questo Ministro del Tesoro era stato presidente di Goldman Sachs, grande istituzione finanziaria e grande nemica della Lehman Brothes fallita, e quindi non si escludono ipotesi di animosità.
Ne risulta dunque un comportamento in cui manca totalmente la trasparenza e in cui, qualche volta, c’è la volontà di violare le norme. É quello che accadde nel caso Madoff, il finanziere molto segreto che sembra abbia perso 250 miliardi di dollari.
Questi rimedi di iniettare denaro per salvare le imprese hanno sicuramente attutito gli effetti, ma non sono la soluzione. Hanno quindi cercato di trovare la soluzione. Potrei usare un’altra metafora medica, quella del tumore. Se non si riesce a eliminarlo tramite interventi di chemioterapia o di radioterapia, allora occorre tagliarlo e rimuoverlo. Cosa significa questo?
Questo è stato pensato dall’amministrazione Bush, e poi è stato adottato anche da Obama: si costituisce un Fondo Pubblico in cui si raccolgono moltissimi soldi. I soldi, se non vengono prestati dal mercato, vengono stampati dalla Banca Centrale. Questi soldi servono a comprare i cosiddetti “titoli tossici”, cioè i titoli infetti di cui abbiamo parlato. L’idea è quella di comprarli e toglierli dal mercato per “disinfettare” le banche. Una volta disinfettate, tali banche si riprendono e torna la fiducia nel mercato. A questo punto una parte di questi “titoli tossici” viene pagata per recuperare i soldi pubblici prestati.
Questo processo funziona, ma occorre stabilire a che prezzo comprare tali titoli.
Questi titoli infettabili sono numerosissimi, pari a dieci volte il pil americano. Si è dunque messo in atto questo procedimento, che assomiglia abbastanza all’Istituto per la Ricostruzione Industriale, istituito nel 1933 in una situazione simile: le banche possedevano azioni che avevano improvvisamente perso il loro valore. La Banca d’Italia aveva prestato moltissimi soldi ed era in difficoltà. L’IRI acquistò tutti i debiti. Nonostante fosse stata stabilita la durata di 18 mesi, l’IRI durò 70 anni. La prospettiva di una presenza pubblica nelle banche che possa durare a lungo è una prospettiva abbastanza credibile.
In sostanza, le uniche misure vere sono queste, e devono essere attuate dagli americani.
Poi c’è il ruolo del coordinamento mondiale, di cui si è discusso al G20 di Londra. In quella occasione si è parlato non di G20, ma di G2, cioè di un mero dialogo tra Stati Uniti e Cina. I cinesi hanno investito molti soldi in Buoni del Tesoro americani, e quindi sono interessati nel sostenere il dollaro americano, chiedendo qualcosa in cambio. Non sappiamo cosa i cinesi abbiano chiesto in cambio, ma una settimana dopo la Banca Centrale cinese ha autorizzato le banche delle cinque provincie costiere, dove si registra il maggior traffico con l’estero, a condurre operazioni esclusivamente in Yuan, senza usare il dollaro, per cercare di rendere lo Yuan una moneta internazionale. Penso che questo sia uno degli accordi raggiunti dai cinesi in cambio del sostenimento della politica americana: dunque sembra che i cinesi abbiano messo una mano sul timone.
Cosa può succedere ora?
Le soluzioni, secondo me, possono essere tre, creando degli scenari e calcolando la migliore e la peggiore situazione e poi una situazione intermedia. Questi esercizi non servono per fare delle profezie, ma servono per capire quali sono i punti sensibili e l’ampiezza del problema.
Cominciamo dallo scenario positivo: non ci sono segni di ripresa, ma ci sono segni che la caduta sta rallentando, tralasciando il pessimo servizio dei giornali. È normale che questa caduta arrivi alla fine: sotto un certo limite di produzione e di progresso non si può scendere. Da qui si dovrebbe incominciare a risalire. Questo limite si dovrebbe raggiungere in America nel corso del 2010 e in Europa verso la fine del 2009. Dopodiché, per effetto di queste pulizie e ripompaggi, l’economia dovrebbe ripartire. Io ho, però, qualche perplessità, perché non capisco cosa spingerà l’economia a ripartire. Ci deve essere la domanda per farla ripartire. Le famiglie americane, negli ultimi cinque anni, non hanno più risparmiato nulla e si sono addirittura indebitate. Una famiglia americana media ha 20 carte di credito. La media dell’indebitamento delle famiglie su queste carte di credito è di 17mila dollari. Cioè sono 17mila dollari che le famiglie hanno già speso, e che forse non incasseranno più, poiché per esempio perdono il lavoro. Quindi, in questa situazione, è difficile pensare che le famiglie ritornino a spendere come prima. Se le famiglie non spendono, secondo la ricetta Obama, si può puntare sull’alta velocità, sulle energie rinnovabili, l’ambiente, eccetera. Dai primi conti che si possono fare, questi provvedimenti bastano a tamponare, ma difficilmente portano ad una ripresa. Quindi non si riesce a vedere cosa succederà quando finirà la caduta.
Il secondo caso è quello intermedio. Noi abbiamo un caso precedente, che è stato osservato con molta attenzione: il Giappone. Il Giappone ebbe una crisi analoga, di tipo edilizio, con prezzi altissimi che improvvisamente crollarono: le banche si trovarono in possesso di costruzioni che valevano un decimo del valore iniziale, e dunque fallirono. Non c’era in Giappone molta esposizione mediatica e trasparenza. Le banche furono fuse una con l’altra, “cattiva” con “buona”, e il sistema nel complesso ha retto. Nel frattempo la Banca Centrale ha iniettato soldi, elaborando piani di crescita e di espansione. Il Giappone ha retto; non ci sono state tensioni sociali, ma il debito pubblico è passato dal 60% del pil al 200% del pil. Il Giappone è stato strozzato da questo debito pubblico che gli ha impedito la crescita. Tranne che nel periodo 2003-2004, in cui fu trainata dalla Cina, la produzione giapponese ha dei caratteristici rimbalzi che la portano ad aumentare per due o tre mesi, per poi diminuire. I prezzi tendono a scendere invece che a salire e le persone, di conseguenza, rimandano gli acquisti pensando di pagare meno in futuro. È dunque una situazione piatta, senza contrasti sociali. Finire in questa situazione è una possibilità per l’America, non per l’Europa. Cina e India sono i due Paesi che non hanno cadute produttive: la crisi si traduce solamente in una minor velocità di crescita. La Cina, secondo i giornali, dovrebbe crescere del 6% . Secondo i calcoli che i cinesi ci hanno mostrato per anni, loro hanno bisogno di crescere dell’8%, poiché contano di trasferire ogni anno 15 milioni di lavoratori dalle campagne alle città, per i quali sarà necessario creare occupazione. A questi si sommano tutti i diplomati e laureati inseriti nel mondo del lavoro. Facendo i conti, alla Cina serve una crescita dell’8%. Negli ultimi anni è cresciuta di più, mentre ora, essendo prevista una crescita solo del 6%, ci sono dei segnali negativi. Loro stessi ammettono delle situazioni di disagio nelle città. L’India, invece, dovrebbe crescere un po’ meno velocemente, ma sempre con una crescita positiva. Anche il Brasile dovrebbe essere in questa condizione. I Paesi che soffriranno maggiormente sono i più poveri. Un Paese africano che, per esempio, vive esportando una sola materia prima, troverebbe difficoltà in un momento in cui tale materia prima non serve, a causa dei bassi livelli di produzione e crescita degli altri Paesi.
Ora esaminiamo la situazione estrema, che tra l’altro è considerata una soluzione estrema in varie parti del “mondo ricco”. In questo scenario ad un certo punto crolla tutto. Le società che emettono le carte di credito falliscono. Non si può comprare più nulla. Questo comporta un assalto ai supermercati, disordini sociali, periferie ingovernabili. Si guarda con preoccupazione all’estate, poiché è il momento in cui si vive peggio. Tra l’altro vicino a Los Angeles stanno costruendo delle baraccopoli organizzate dal sindaco stesso per le persone sfrattate. Se il problema raggiunge queste dimensioni, allora si è in una situazione fuori dal controllo, in cui è difficile fare previsioni. L’unica previsione possibile è quella di grande instabilità.
Per concludere, esaminiamo la nostra situazione. L’Italia è ai margini della crisi per due motivi. Le nostre banche erano arretrate, e quindi le nuove formule per gli strumenti finanziari non hanno funzionato. La nostre banche hanno comprato pochissimi titoli tossici. Dall’altra parte, la Banca d’Italia effettua dei controlli molto efficaci, riuscendo a capire in anticipo se una banca è in difficoltà.
Anche qui si potrebbero accusare i giornali, i quali hanno irresponsabilmente detto che le nostre banche erano sull’orlo del fallimento. Le nostre banche, pur non distribuendo dividendi, hanno chiuso il loro bilancio in attivo, senza gravi situazioni scoperte. Solo alcune consociate estere hanno situazioni scoperte. Si tratta di consociate estere di cui le banche italiane possiedono solo una quota di minoranza e che la Banca d’Italia non ha potuto controllare, ma che non dovrebbero incidere più di tanto.
Quindi almeno da questo punto di vista siamo tranquilli.
Il problema è che il governo non ha soldi. C’è un debito molto grande.
I francesi e i tedeschi, che hanno un debito pari al 60% del pil, possono anche pensare di spendere molto e di convincere la commissione europea che presto “sistemeranno i conti”. Per l’Italia non è così: possiamo spendere pochissimo, avendo un debito a livelli altissimi.
L’unica politica di governo possibile è quella di aiutare le famiglie a spendere, rimuovendo degli ostacoli. Per esempio, è per questo che hanno inventato il condono edilizio. Le famiglie italiane, a differenza di quelle inglesi e americane, non sono indebitate. Una famiglia media ha 70mila euro in attività finanziarie, oltre alle case. Nella classifica mondiale della ricchezza familiare, ai primi posti ci sono l’Italia, Spagna e Francia.
In un modo o nell’altro, se si riesce a dare alle famiglie la possibilità di spendere, ovviamente non in cose frivole, ma in cose “di struttura”, allora avremo lo stesso effetto ottenuto dagli altri stati che hanno soldi da investire.
Noi abbiamo ereditato dal passato una struttura produttiva e sociale piuttosto flessibile. C’è ancora un legame città-campagna, anche se non è più come parecchi anni fa. Chi è in cassa integrazione, probabilmente ha ancora un parente a cui può dare una mano durante il raccolto o in altri lavori. Anche l’economia sommersa (l’insieme di tutte le attività economiche che contribuiscono al prodotto interno lordo ufficialmente osservato ma che non sono registrate e tassate), che in Italia ha dimensioni rilevanti, pur essendo un male assoluto, può essere considerata come una situazione favorevole, in tempi di crisi.
Si fa poi affidamento sulle capacità che storicamente l’industria piccola-media italiana possiede, cioè la capacità di intervenire rapidamente e cambiare i prodotti.
La caduta di settembre del settore automobilistico è un indice di un cambiamento di valori. Improvvisamente gli abitanti di tutti i Paesi ricchi hanno smesso di comprare automobili. Si tratta dunque di creare prodotti che abbiano le solite caratteristiche distintive italiane, ma che costino molto meno dei prodotti attuali. Tutto il made in Italy deve rifarsi, facendo qualcosa che sia adatto alle classi medie della Cina o dell’India, ma ad un prezzo che sia pari al 30% del prezzo attuale.
Noi usciamo dalla crisi con una situazione del genere. Dalla crisi del dopoguerra, per esempio, siamo usciti creando la Vespa e la Lambretta, che derivavano dai residuati bellici. Per cavarcela dobbiamo ripetere i successi della Vespa.
Dall’altra parte, la grande industria deve cercare di fare quello che sta facendo la Fiat: deve cercare di giocare in ogni caso la sua partita. Fa piacere leggere che Assicurazioni Generali è diventata la prima assicurazione in assoluto di tutta la Cina. Anche Eni ed Enel si stanno difendendo abbastanza bene sulle questioni dell’energia e dell’elettricità, così come Finmeccanica nel settore delle navi e degli elicotteri.
Oltre a questi, non abbiamo altre certezze.
Quello che possiamo dire è che, forse, una partita da giocare ce l’abbiamo ancora.
NOTA: testo non rivisto dall’Autore della Conferenza tenuta a Brescia il 17.4.2009 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.