La Cooperativa cattolico-democratica di cultura ha proposto un incontro sul tema “Carcere e diritti umani”; ne è emerso che la legislazione è adeguata e anzi, spesso all’avanguardia, ma l’applicazione corretta è carente
Cesare Beccaria, nel 1764, con il suo capolavoro “Dei delitti e delle pene”, pone la questione della pena giusta, che sia corrispondente al reato ma che, nello stesso tempo, non mortifichi i diritti basilari dell’uomo ed eviti «l’inutile prodigalità dei supplicii».
Oggi, in Italia, abbiamo raggiunto, sul piano del diritto e dei princìpi costituzionali, stadi notevoli di civiltà: possiamo dire che i nostri codici e la nostra Costituzione sono tra i più evoluti del mondo.
Eppure, nella realtà, esistono ancora gravi problemi, legati alla detenzione, alla struttura e al sovraffollamento delle carceri, al rispetto dei detenuti. L’incontro, organizzato dalla Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura, nella Sala Bevilacqua dei padri Filippini di Brescia, lo scorso 10 marzo, dal titolo “Carcere e diritti umani”, ha affrontato proprio tali questioni. Il presidente della CCDC, Alberto Franchi ha svolto il ruolo del moderatore, Alberto Carlo Romano, docente di Criminologia presso l’Università di Brescia ha introdotto l’argomento, il relatore è stato Luigi Pagano, Provveditore regionale per le carceri lombarde.
Romano, usando le statistiche ufficiali del Ministero della Giustizia, fa emergere un quadro drammatico: in Lombardia, le carceri potrebbero ospitare circa 5.000 detenuti, ma attualmente ne ospitano più di 9.000; più della metà di questi deve scontare una pena inferiore ai tre anni; il numero degli stranieri è elevato e molti di loro sono in attesa di giudizio. I dati, nella loro nuda oggettività, mostrano una situazione difficile, che, come sottolinea Romano, spesso colpisce persone fragili, sole, emarginate dalla società. Il criminologo, perciò, propone un ripensamento radicale del sistema delle pene, che sia in grado di favorire l’inserimento dei detenuti nella vita sociale, e che non mortifichi la loro dignità di esseri umani.
Secondo l’analisi di Pagano, in Italia sono state fatte ottime leggi: quella del 1975, con una riforma del sistema giudiziario, la legge Gozzini del 1986, la Simeoni-Saraceni del 1998, che prevede forme alternative al carcere, volte alla rieducazione dei detenuti. Purtroppo, non sempre si riesce a seguire lo spirito di queste leggi, che, spesso, restano applicate male o solo parzialmente. Secondo il Provveditore, gli stessi padri costituenti, con l’articolo 27, hanno voluto indicare un percorso di inserimento delle persone condannate: la pena, in questo senso, non deve isolare, emarginare i detenuti dal contesto sociale, ma dovrebbe favorire la loro “correzione”, la loro formazione morale, la loro rinascita umana.
A tale proposito, il relatore propone di rivedere lo stesso concetto di “carcere”: esso è un luogo chiuso, di isolamento, di abbruttimento, che ha a che fare solo col “corpo”. Bisogna lavorare per rendere gli istituti penitenziari più adatti al reinserimento dei detenuti, come è stato fatto a Bollate e a Padova, dove sono state create occasioni di lavoro, che permettono il passaggio dalla pena alla vita sociale. Pagano vorrebbe ridurre l’uso del carcere puro ai casi di criminalità più gravi, estendendo le forme alternative di punizione, quali il lavoro e le attività sociali. Secondo lui, non dobbiamo dimenticarci del fatto che molti detenuti, in particolare i tossicodipendenti, non hanno bisogno di strumenti punitivi, ma devono essere “guariti”, con cure adeguate.
Allora dobbiamo riflettere su questi problemi, che riguardano la nostra civiltà. La pena deve, sì, corrispondere al reato, per un principio di giustizia, ma, nello stesso tempo, deve rispettare la persona, sia il suo corpo sia la sua anima, avendo come fine ultimo la morte del “vecchio” uomo ferito e la nascita di un uomo “nuovo”, sanato nella sua coscienza e quindi veramente libero.
Voce del popolo, 28 aprile 2011