Non si può parlare di Europa senza chiedere: che cosa è l’Europa, che cosa significa essere europei? L’interrogativo è non solo inevitabile, ma decisivo perché noi attendiamo dalla nostra memoria storica e dal nostro modo di porci dinanzi ad essa, dalla nostra capacità di riscoprire e di riassumere il nostro patrimonio comune la spinta più decisiva e l’orientamento ai valori che devono guidarci nella costruzione della nuova Europa, l’Europa del Terzo Millennio. Essere o divenire europei, infatti, non è tanto un dato originario, o un luogo di nascita, quanto una forma mentis e una visione della vita, e dunque una scelta, una vocazione, un compito che si può accettare o tradire; è riconoscersi in certi valori ed è rifiutare, di conseguenza, i disvalori e i contro-valori che li negano.
Dal punto di vita geografico non siamo che «un promontorio dell’Asia», come diceva Paul Valèry. Dal punto di vista razziale siamo il risultato di un processo di commistione durato almeno quattro mila anni: dapprima tra le popolazioni indigene e gli indoeuropei; poi tra le popolazioni romanizzate e i germani; infine, tra il IX e l’XI secolo, entrano a far parte della comune civiltà a Est gli Slavi e gli Ungheresi, a Nord i Danesi, i Vichinghi, i Normanni. Non esiste dunque geograficamente un continente europeo che abbia una fisionomia distinta come l’Africa o le Americhe, o l’Australia; e non esiste neppure un Urvolk, una razza pura europea. Esiste, però, ed è fatto di immensa portata, un’Europa culturale, morale, politica con sue proprie radici e con sue proprie caratteristiche, ed è in quelle radici e in quelle specifiche caratteristiche che si identifica la realtà storica del nostro continente. L’esistenza dell’Europa culturale, morale e politica è attestata da un sistema di vita e di educazione che ha creato nel corso dei secoli una somiglianza di consuetudini sociali e forme di vita per cui, come notò nel secolo scorso il Guizot, «nessun europeo potrebbe essere completamente esule in alcuna parte d’Europa» e una cert’aria di famiglia si avverte tanto a Brescia, a Firenze, a Vienna, a Budapest come a Cracovia, a Praga, a Londra, a Barcellona. La nostra, infatti, è una civiltà, le cui radici e i cui grandi influssi formatori sono gli stessi, in Italia come in Polonia e in Ungheria: sono la Grecia classica, Roma e il Cristianesimo. E finché in Europa ci saranno europei, eredi cioè e continuatori della più alta e multiforme civiltà che la storia conosca, sarà ancora sempre lì, su quelle fondamenta, che il nostro continente ritroverà le ragioni delle sue identità, il suo ubi consistam.
La Grecia classica ha fondato in ogni campo, dalla poesia alla scienza, dalla filosofia alla storiografia, la nostra tradizione culturale e ha forgiato per sempre il tipo dell’uomo europeo. Grazie a Socrate la Grecia ha inaugurato la civiltà del dialogo e il metodo della discussione critica quale solo strumento di cui disponiamo per avvicinarci alla realtà. E tuttavia, malgrado il suo splendore, la paideia greca era confinata tra l?Egeo e l’Adriatico, tra Atene e Antiochia e Alessandria. Ci volle Roma per allargare la superiore paideia greca a tutto l’Occidente barbarico, dando così al nostro continente la sua unità culturale. Fu questa la misiione più alta di Roma, unitamente alla creazione del diritto, alla cui certezza non v’è alternativa se non quella dell’arbitrio e della disumanità, dentro gli Stati e fra gli Stati. Senza Atene e senza Roma, dunque, niente Europa; e tuttavia l’Europa non sarebbe ugualmente senza il Cristianesimo e senza la Chiesa Cattolica, suo tramite storico e centro propulsore della sua unità; ed è stato ed è tuttora il Cristianesimo a dare all’Europa la sua unità morale e religiosa.
Ma se quelle sono le sorgenti, gli influssi formatori dal cui reciproco intreccio è sbocciata la civiltà europea, quali sono i caratteri della nostra civiltà, così come si sono venuti svolgendo, attraverso una storia lunga e drammatica, ad opera delle diverse nazioni? Qual è insomma il «genio» dell’Europa, ciò che fa dell’Europa una individualità storica, una tradizione, una forma di civiltà che può fare appello a tutta una serie di nomi, di fatti, di pensieri che le hanno dato nei secoli un’impronta incancellabile, che la fa diversa rispetto alle tradizioni, memorie e speranze dei cinesi, degli indiani, degli africani o degli arabi? Ebbene dal 490 a. C., data di inizio dell’impari lotta delle città-stato greche contro l’Impero Persiano che voleva assoggettarle, al meraviglioso autunno del 1989, che ha visto la liberazione dei popoli dell’Europa Centrale dal giogo comunista, la risposta a quella domanda è sorprendentemente la stessa: il genio dell’Europa, la sua forza, il suo dinamismo sta nell’aver coniugato l’identico e il diverso, l’unità e la pluralità come nessun’altra civiltà. La nostra è una civiltà varia e anche tempestosa, in cui l’esistenza stessa di una molteplicità dialettica di nazioni, di forze sociali, di orientamenti culturali e di famiglie spirituali in perenne confronto fra loro è talmente organica da non permettere mai ad uno solo di quei principi di assoggettare del tutto l’intero continente e nemmeno un intero Paese.
L’Europa è, aristotelicamente, pollacos, cioè multisignificante e multiforme; non è aplos, non è parmenidea, cioè monistica e uniforme. E poiché la libertà nasce dall’impossibilità accompagna tutta la sua storia, da Serse a Hitler e Stalin, l’Europa è la madre della libertà; e la libertà è diventata nello stesso tempo, il risultato della storia d’Europa e il valore, dal cui riconoscimento pratico trae origine e regola la varietà del principi e delle istituzioni che caratterizzano la nostra civiltà. Non che l’assoggettamento del tutto a un solo principio a una sola razza, a una sola ideologia non sia stato tentato, e più volte; ma è sempre fallito, e il tentativo più colossale, quello operato nel nostro secolo dalla barbarie totalitaria, comunista e nazista, è sprofondato nella sconfitta e nell’ignominia. L’Europa, però, ha potuto resistere alle violente negazioni della sua civiltà generate dal suo interno, e farsi portatrice di libertà nel mondo, perché il messaggio religioso che l’ha fecondata, il Vangelo, porta dentro di sé il principio stesso della pluralità delle sfere della vita. Per questo noi non cesseremo mai di ringraziare gli evangelisti che hanno raccolto dalla bocca di Cristo e ci hanno trasmesso le grandi, energiche, inequivocabili parole: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mt. 22, 21 – 22). Parole con cui Cristo condanna senza appello l’integralismo, la cui logica perversa comanda la cancellazione delle differenze e della distinzione tra fede e politica, Chiesa e Stato, religione e partito.
Giornale di Brescia, 18 giugno 1991.