Che cosa rimarrà di questa mia vita?
La domanda mi si fa sempre più frequente, ora che i miei anni, data l’età non proprio giovanile, «van giù rovinosi in pendio» (Cardarelli).
Che cosa riuscirà a sopravvivere alla mia morte?
Ritengo importante questa domanda, la ritengo molto opportuna per me e per tutti, indispensabile a predisporre con maggiore saggezza opere e giorni, a introdurci nell’arte di discernere ciò che veramente conta e vale da ciò che non ha vera consistenza.
Sempre più spesso, di conseguenza, mentre mi arrabatto tra una faccenda e l’altra, mi sorprendo a chiedermi se ciò di cui mi sto occupando avrà o no un futuro, una durata e una sopravvivenza al di là del tempo che mi è concesso quaggiù. Parlo, evidentemente, del futuro ultimo, non di quel futuro ancora legato al tempo, nel quale una certa sopravvivenza resterà certamente, nel ricordo, se non altro, che qualcuno conserverà di me, in qualche insegnamento recepito da allievi troppo attenti, in qualche impronta spirituale lasciata, in amici più giovani, che mi avranno, bontà loro, in po’ ascoltato e seguito. Una sopravvivenza questa che – non posso proprio illudermi – avrà una durata non molto lunga, legata com’è alla precarietà di ogni vita umana.
La possibilità di una sopravvivenza vera e propria è invece legata all’esistenza eterna di un Dio, di una memoria infinita, in cui qualche cosa almeno di me, di ciascuno di noi, non possa mai cessare di esistere.
Secondo il Vangelo, la risposta a questa domanda è netta e senza possibilità di equivoci. Rimarrà, di ciò che avremo vissuto, ciò che avremo vissuto con amore, con l’amore vero, di carità. Rimarrà l’amore e ciò che per amore avremo donato.
Non rimarrà niente, invece, di ciò che ho strappato agli altri, che ho trattenuto presso di me; non resteranno i miei conti in banca, i successi perseguiti per vanagloria, le vittorie ottenute a scapito dei più deboli, le affermazioni raggiunte usando come mezzo il mio prossimo, magari umiliandolo e avvilendolo…
Anche nei confronti di altre realtà più belle e degne, soltanto l’amore di carità non verrà meno.
«La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. Quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà» (1 Cor 13, 8-10).
Nella visione cristiana, di perfetto, nella vita di un uomo, non c’è che la carità. Essa è «vincolo della perfezione» (Col 3, 14) che non sarà mai sciolto. Rimarrà in eterno poiché Dio, l’Eterno, è carità e «chi sta nella carità sta in Dio» (1 Gv 4, 16).
Resterà, dunque, ciò che per amore avremo donato dei nostri beni, del nostro tempo,delle nostre sollecitudini, di noi stessi. Donato è cioè dato senza speranza di contraccambio, disinteressatamente, senza neanche la riserva dell’intima soddisfazione che deriva appunto dall’avere dato. Secondo il Vangelo, resterà il pane donato all’affamato, il bicchiere d’acqua dato all’assetato, il vestito dato all’ignudo. Tali cose, dice Gesù, le avremo date a lui, poiché non è possibile donare veramente agli altri, amare il prossimo, senza contemporaneamente donare anche a Dio e amarlo. Gesù dice che, se avremo sfamato l’affamato, avremo sfamato Dio.
«Hai dato il pane? Lo hai dato a me… Ma quando, Signore, questo è avvenuto? Quando lo davi al tuo fratello» (cfr. Mt 25).
Ne deriva che questi pani donati, questi bicchieri d’acqua, questi vestiti, li avremo dati a Dio stesso, anche senza sapere che stavamo soccorrendo Dio, l’onnipotente. E come potrebbe Dio dimenticare di essere stato riunito e assistito da noi?
«In verità vi dico: si cingerà le vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli» (Lc 12, 37).
All’incredulo Nicodemo, Gesù dice: «Chi opera la verità viene alla luce»; similmente prega la Chiesa, nelle grandi invocazioni del Venerdì Santo; essa prega affinché gli atei, operando il bene nell’amore, possano pervenire a riconoscere il vero Dio, il Dio di Gesù Cristo che è Amore.
Per gli sposati, del loro matrimonio resterà la «parte migliore», ciò che avranno vissuto nell’amore reciproco, ablativo, preveniente e verso tutti. Tutto il resto apparirà chiaramente come mezzo rispetto al fine (cfr. Mt 22, 23-33).
Per me prete, non ci sarà più la messa come rito, ma soltanto la carità di Cristo che in essa i ha nutrito per tanti anni, e che ho poi cercato di trasfondere, riuscendovi solo in parte, nel mio pellegrinaggio terreno. In cielo, mio nutrimento sarà Dio, soltanto lui nel suo mistero eterno e non più nel sacramento. Avverrà per me quello che avvenne per gli Ebrei che, entrati nella terra promessa, mangiarono finalmente i frutti di quella terra,essendo ormai venuta a cessare la manna (cfr. Gs 5, 11-12).
La teologia chiama « penultime » queste realtà che sono necessarie e importantissime qui in terra, ma che hanno come unico fine quello di condurci alle realtà «ultime», quelle che troveremo nella città permanente, la Gerusalemme celeste dove Dio sarà «tutto in tutti» (1 Cor 15, 28).
Quale metro ben diverso da quello che usiamo di solito ci mette in mano la parola di Dio!
Con esso possiamo misurare veramente l’autentica nostra ricchezza, e l’autentico successo della nostra vita. Ricchi e riusciti, coram Deo, davanti a Dio, e cioè veramente. Ecco la scommessa nella quale impegniamo l’intera nostra esistenza!
Invitati a sperare, Morcelliana, Brescia 1996, pp.53-57.