Conclusosi il bicentenario della Rivoluzione francese, accantonate le strumentalizzazioni operate dal dibattito ideologico (abbiamo sentito qualche marxista pentito esaltare Voltaire, mentre a mio avviso è assai urgente, in un Paese come il nostro, riscoprire Montesquieu!), si avverte il bisogno di recuperare una veduta d’insieme almeno sulle questioni di maggior rilievo. Qui ci limitiamo a qualche osservazione su una di esse: il complesso, tormentato rapporto tra Chiesa cattolica e Rivoluzione.
Innanzitutto si deve notare la differenza tra il primo centenario della Rivoluzione e il bicentenario. La storiografia cattolica ha smesso di denunciare il carattere diabolico della Rivoluzione e ha riscoperto quanto fosse mirabile, anche nell’affrontare quell’argomento, l’equilibrio critico di un Alessandro Manzoni e, in genere, della scuola cattolico-liberale. Dal canto loro, gli storici contemporanei, nella stragrande maggioranza, hanno abbandonato le mode e gli opportunismi degli schieramenti ideologici, pervenendo così ad un giudizio assai più realistico e sfumato sulla Rivoluzione.
A prima vista, la celebrazione della Rivoluzione francese non doveva suscitare alcuna riserva, in quanto è possibile riconoscervi alcune premesse storiche della democrazia come pure dei diritti dell’uomo. Eppure un certo disagio si accompagna alla rievocazione di quell’evento: disagio che nasce principalmente dal fatto che l’interpretazione della Rivoluzione francese è servita a lungo a creare opposti blocchi ideologici, di “sinistra” o di “destra”, a seconda che si esaltasse o maledicesse quell’evento. Il volto della Rivoluzione francese è, invece, realmente bifronte come quello di Giano: quell’evento, infatti, introduce sia alla democrazia liberale, che al totalitarismo, giacobino prima e napoleonico poi. Chi giudica positivamente la prima direttrice etico-politica non può che respingere la seconda, che ne è la negazione violenta e disumana. Insomma: se la cosiddetta “modernità” si riconosce nel progresso della libertà e della giustizia sociale, deve rifiutare tanto la barbarie terroristica dei totalitarismi che gli egoismi di classe. È indubbio, però, che siamo stati tutti aiutati a vedere con accresciuto spirito critico il complesso di idee e fatti che designiamo col termine di Rivoluzione francese dall’evento cui abbiamo assistito nel 1989, cioè dalla primavera dei popoli oppressi nell’Est europeo e dal collasso, per inefficienza e disumanità, dei regimi comunisti.
La Chiesa viene a trovarsi necessariamente coinvolta nelle controversia e nelle riflessioni suscitate dalla Rivoluzione, in quanto di essa è stata uno dei protagonisti e senza dubbio una delle vittime. Eppure, malgrado lo slittamento in senso antichiesastico di una civiltà fecondata dal Vangelo, non si può non vedervi la trasposizione in ambito sociale e politico di precetti autenticamente evangelici. Destino questo – lo notava Federico Chabod – a cui gli europei non possono sfuggire: il cristianesimo è un fattore che, al pari del codice genetico, “informa” quelle concezioni dell’uomo e della società che sono ancor oggi fonte di speranza per coloro che si riconoscono nella tradizione culturale e spirituale del nostro continente, siano essi credenti o non credenti.
Ci si chiede: quando avvenne lo slittamento della Rivoluzione in senso anticristiano e antichiesastico? Quali che siano gli antecedenti che si possano rintracciare in una storia molto più antica (e una storia intessuta di equivoci e incomprensioni), il conflitto fu originato da decisioni parziali e successive, che finirono col saldarsi tra loro generando meccanismi precursori, e non nacque certo da una preordinata, programmatica “congiura”, che De Maistre e De Bonald pensarono, invece, operante sin dai primordi della Costituente. Per François Furet lo slittamento prese forma con la “Costituzione civile del clero”, il cui testo definitivo fu adottato il 12 luglio 1790. Solo allora sorse il contenzioso tra Chiesa e Rivoluzione. Furono non pochi, a partire da quel 12 luglio 1790, i cristiani pronti a pagare con ogni sorta di persecuzione e con la stessa vita la loro fedeltà a Cristo e alla Chiesa. La Rivoluzione, alienandosi allora i consensi della coscienza cristiana, imboccò sempre più decisamente una via che era la negazione di quei principi che pure stanno alla base della sua più alta conquista: la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, votata una anno prima. I perseguitati e i martiri cristiani, essendo “dissidenti” per motivi di coscienza, sono così divenuti i testimoni di quei diritti che poggiano sul principio della libertà religiosa. Anche questa è una delle precisazioni che la riflessione sul bicentenario ci obbliga a fare.
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Riuscì “la passione religiosa”, così la chiama Tocqueville, ad aver partita vinta nella vicenda rivoluzionaria? In molte regioni francesi, in molti spiriti conquistati agli ideali della Rivoluzione, la scristianizzazione non fu una parentesi. Parrocchie senza pastori, fedeli senza sacramenti, fanciulli senza istruzione religiosa: ecco una situazione nuova che, col passare del tempo, divenne per molti motivi permanente. I preti e i vescovi costituzionali, che prestarono cioè giuramento al potere rivoluzionario, furono sentiti come estranei dal popolo e gran parte del popolo si estraniò dalla Chiesa. Le religioni sostitutive ideate dalla Rivoluzione fallirono, ma la Chiesa non riuscì a rimarginare le sue ferite. Gli eroi e i martiri furono numerosi, ma la stanchezza e l’indifferenza dominavano ormai la grande maggioranza. La scristianizzazione fu qualcosa di più che un semplice processo – per alcuni aspetti comprensibile e necessario – di declericalizzazione. Non fu una vicenda di poca importanza, “presto scatenata, presto dimenticata” come la vede Richard Cobb.
Tuttavia, se per scristianizzazione si intende la perdita del sentimento religioso, la questione è molto più difficile da risolvere, se non impossibile. Si è potuto arguire una reviviscenza di questo sentimento durante la Rivoluzione: "Mai", scrisse il canonico Duchastainer, “vi furono tante buone Messe quanto sotto il Terrore…Robespierre ha popolato il cielo, purificato e salvato la religione in Francia, mentre gli ignoranti sostengono e credono che l’abbia distrutta”. Ma una simile affermazione – osserva giustamente Mona Ozouf, coautrice col Furet del mirabile “Dizionario critico della Rivoluzione francese” (trad. it. Bompiani) – nega da una parte ciò che dall’altra concede, poiché postula che questa rinascita miracolosa – che dipenderebbe dal fatto che la società cristiana si è liberata dai tiepidi ed epurata dai conformisti – si stagli sullo sfondo di una vita sociale che ha cessato di essere religiosa e pretende di bastare a se stessa.
Questa tesi ha una sua contropartita nella crescente individualizzazione dell’impegno religioso e nella convinzione – in seguito sempre presente nella vita politica francese – che, come ebbe a constatare tristemente Madame De Staël, “gli amici della libertà sembrino essere i nemici della religione”. Il corso della Rivoluzione diede così corpo a un pregiudizio – che difficilmente riescono a concepire coloro che invece ritengono libertà e uguaglianza i valori del Vangelo applicati alla vita civile – che all’alba della Rivoluzione sarebbe parso peregrino alla maggioranza dei suoi protagonisti: quello di un’incompatibilità fra i nuovi principi e l’antica religione.
Giornale di Brescia, 15.4.1990.