Il tema che mi è stato proposto può essere trattato sotto l’aspetto tecnico e sotto l’aspetto culturale-politico. L’aspetto tecnico riguarda, ad esempio, il tipo dei prodotti da inviare in occasione delle calamità, i mercati a cui attingere (Nord-Sud oppure Sud-Sud), la priorità da dare ai trasporti; oppure il sistema di controllo dei risultati dei progetti (non limitarsi a finanziare progetti, ma verificare il loro effettivo risultato sullo sviluppo), modificare il sistema dei prestiti (ad es. il tasso di interesse e le modalità di pagamento dei debiti) ecc. L’aspetto culturale-politico riguarda gli obiettivi, il modo con cui ci si pone di fronte ai paesi poveri; i valori che vengono implicati nei rapporti con loro. Preciso subito che non ho né la competenza, né la veste, né, perciò, l’intenzione di trattare l’aspetto tecnico. Cercherò di indicare, invece, quattro aspetti del cambiamento di rotta che mi sembra necessario e che in parte è già in atto negli aiuti ai paesi in via di sviluppo sotto l’aspetto culturale-politico.
Un amico giornalista mi diceva che alla Tv non vogliono più sentir parlare di programmi sulla fame nel mondo, perché la gente non vuole vedere immagini di fame. Ciò non vuol dire che la gente non voglia più sentir parlare di terzo mondo: io non vedo mai sale così affollate come quando si trattano i problemi del terzo mondo. La questione è che bisogna presentare il problema nella sua vera natura, che non è di assistenza e beneficenza, ma di giustizia nei rapporti internazionali.
Molti ormai conoscono i dati del sottosviluppo: un miliardo e mezzo di persone affette da cattiva nutrizione; 460 milioni di persone soffrono di gravi forme di denutrizione che spesso ne causano la morte; 15 milioni di bambini muoiono ogni anno prima di aver raggiunto il quinto anno di età; più dell’80% della popolazione mondiale non gode di alcuna assistenza sanitaria; 1 miliardo e 250 milioni di persone sono sprovviste di acqua potabile, in Africa il 73% della popolazione è analfabeta, in Asia il 58%, in America Latina il 30%, in Europa il 3,6%.
Non molti, però, si chiedono: perché c’è questa situazione? Non è frutto del caso, e neppure dipende da un’inferiorità potenziale e costitutiva degli abitanti dei paesi poveri, come talvolta vorrebbero far credere occidentali razzisti o interessati. Questa situazione ha cause ben precise. Cause culturali: mancanza di istruzione, di educazione di formazione umana e tecnica. Cause strutturali: mancanza di capitali, di disponibilità di tecnici, di formazione di quadri politici e tecnici. Questi pesanti condizionamenti finiscono col mortificare e bloccare le energie e producono passività, inerzia, fatalismo. Su queste cause i popoli ricchi hanno precise responsabilità: i popoli più sviluppati non hanno messo a disposizione dei popoli poveri le loro esperienze, la loro cultura, il loro progresso. Anzi, mano mano che li hanno conosciuti e sono entrati in rapporto con loro, hanno occupato il loro territorio, anche con guerre sanguinose e sterminatrici (pensiamo all’America Centrale) e hanno sfruttato le loro risorse di prodotti e di uomini: dall’Africa in quattro secoli sono partiti per l’America non meno di cento milioni di schiavi. Quando il colonialismo si è reso improduttivo e pericoloso, lo sfruttamento è continuato e continua attraverso il neo-colonialismo economico . Alla sua radice il problema del sottosviluppo non è un problema assistenziale e non si risolve soltanto con l’assistenza. Il presentare il problema soltanto sotto l’aspetto della fame, dello sterminio per fame e, quindi dell’aumento di stanziamenti per salvare dalla fame, rischia di dare un’immagine sbagliata del problema, di camuffare e nascondere la sua vera natura. La gente normalmente muore di fame, o a causa della fame, non perché nei mercati manchino i generi alimentari, ma perché è molto povera e non ha i soldi per comperarli; ed è molto povera anche perché noi, come popoli, abbiamo costruito il nostro benessere sulla loro povertà.
“Il vero problema non è la nostra fame di cibo, ma la vostra fame di soldi”, mi diceva un giovane africano. Allora il problema vero è di cambiare noi per aiutarli ad uscire dalla loro povertà: dobbiamo cambiare i rapporti economici, politici, culturali. Questo forse ci obbligherà a modificare qualche cosa nel nostro sistema di vita. E’ questo il senso della campagna ecclesiale sintetizzata nel motto: “Contro la fame cambia la vita”.
Non appena il sottosegretario on. Francesco Forte è stato chiamato a gestire la legge 73 che stanzia 1900 miliardi per un intervento straordinario contro la fame nel mondo, si è incontrato con la Caritas, con Mani Tese, con l’Ufficio Nazionale di cooperazione missionaria e ha chiesto la loro collaborazione. C’era forse anche una motivazione politica: noi, infatti, eravamo stati molto critici nei confronti della proposta di legge Piccoli che chiedeva lo stanziamento di 4.000 miliardi da spendere in dodici mesi per salvare tre milioni di vite umane, proposta che è giunta in porto, appunto, come legge 73.
Forse qualcuno ha suggerito all’on. Forte, che non ci conosceva per nulla, di assicurarsi la nostra collaborazione per non avere un avversario in più . Ma c’era un motivo più serio, più profondo e più sostanziale che ci ha fatto sentire subito sulla stessa lunghezza d’onda. L’on. Forte, come economista e studioso dei problemi del sottosviluppo, sostiene una tesi che oggi comincia ad avere credito anche presso gli organismi internazionali: allo sviluppo dei popoli poveri servono di più i micro-progetti che i macro-progetti. I grandi progetti di infrastrutture, che costano centinaia di miliardi e possono essere finanziati soltanto dai governi e dagli organismi internazionali e realizzati da grandi imprese specializzate, sono utili allo sviluppo soltanto se sono di supporto a una rete capillare e diffusa di piccoli progetti di sviluppo (pozzi, aziende agricole, allevamenti, dispensari, scuole di villaggio ecc.), che costano pochi milioni, ma che sono concretamente al servizio delle persone e gestiti da loro.
Questi progetti possono essere attuati soltanto dalle parrocchie, dai missionari, dal volontariato. Questa è oggi anche la tesi dell’on, Natali, Commissario del Parlamento Europeo per lo sviluppo. Si capisce allora perché l’on. Forte ha cercato subito un rapporto di collaborazione con il volontariato, con i missionari, con gli organismi della Chiesa. E finora è stato coerente su questa linea. Anche recentemente è stato nel Sud Sudan, in Kenya e in Uganda: ci ha chiesto gli indirizzi delle missioni, ci ha pregato di preavvertire i missionari della visita, li ha incontrati, ha chiesto la loro collaborazione. E’ un fatto nuovo, perché fino a due-tre anni fa il mondo politico italiano e le istituzioni ufficiali ignoravano, completamente gli organismi volontari.
Con la legge 73 è sorto un problema per il volontariato, perché i 1900 miliardi non sono denaro nuovo: per l’80% sono soldi tolti al Dipartimento per la cooperazione allo sviluppo, e trasferiti a finanziare la nuova legge. Così gli organismi di volontariato internazionale si sono visti bloccare i progetti e dimezzare i fondi. Sembra che il problema sia stato risolto: il dipartimento continuerà a curare la parte burocratica dei progetti e il F.A.I. fornirà i fondi necessari. A parte questo incidente di percorso, il secondo cambiamento di rotta negli aiuti ai paesi in via di sviluppo è la priorità ai micro-progetti partecipati e gestiti dalla popolazione locale e la valorizzazione del volontariato internazionale e locale.
Nella primavera di quest’anno si è tenuta a Roma la seconda Conferenza nazionale sulla cooperazione allo sviluppo, promossa dal Dipartimento per la cooperazione allo sviluppo e organizzata dall’Ipalmo. Una iniziativa, preparata con molta cura e condotta con molto impegno, ha attirato oltre un migliaio di partecipanti, in gran parte operatori economici, e l’attenzione di tutto il mondo politico e dei partiti. Il mio breve intervento, con mia meraviglia, ha guadagnato un lungo applauso dell’assemblea. Dico “con meraviglia” perché le cose dette erano le più ovvie. Avevo fatto una semplice, dolorosa constatazione: “Noi abbiamo discusso per quattro giorni sulla cooperazione allo sviluppo dei paesi del terzo mondo. Ma abbiamo sempre parlato noi; non abbiamo mai chiesto come loro desiderano essere aiutati”.
A seguito di quella Conferenza stiamo mettendo insieme dieci commissioni di studio, quante erano quelle che hanno lavorato nella Conferenza, formate però da studenti laureandi, del terzo mondo, che esamineranno i documenti prodotti dagli esperti italiani ed esprimeranno il loro parere, le loro osservazioni, i loro suggerimenti in un’appendice della Conferenza, nella prossima primavera, alla quale inviteremo gli organizzatori e i partecipanti della prima. Forse non emergeranno contributi scientifici rilevanti – nella prima Conferenza hanno parlato eminenti cattedratici, nella seconda parleranno degli studenti – ma speriamo che l’iniziativa costituisca una rottura di mentalità e che ci aiuti a superare il complesso del ricco che sa lui e decide lui quello che va bene per il povero.
Lo stesso problema è emerso di recente al Convegno internazionale indetto dalla Fiera di Parma sul tema “Nuove tecnologie agroalimentari per lo sviluppo dei paesi del terzo mondo”.
Mi hanno chiamato a partecipare ad una tavola rotonda. In sintesi ho fatto questo discorso: “E’ molto positivo che estendiate la vostra attenzione e il vostro impegno ai paesi del terzo mondo, non solo per un motivo umanitario ma anche economico. Voi non siete dei missionari, siete degli operatori economici e la vostra attività rivolta al terzo mondo deve portarvi un profitto. Ci può essere una convergenza di interessi: la vostra produzione economica, le vostre tecnologie possono essere utili allo sviluppo dei paesi poveri. Però c’è un problema: da chi partire? Partite da voi e producete ed esportate quello che serve a voi per avere maggior profitto, o partite da loro e producete ed esportate quello che serve maggiormente al loro sviluppo? Nel primo caso siamo in pieno neo-colonialismo, cioè nell’ottica dello sfruttamento più raffinato dei popoli poveri. Nel secondo caso siamo nella cooperazione allo sviluppo. Però se scendiamo questa seconda strada non possiamo decidere noi quello che serve a loro”.
Facevo notare anche a Parma che avevamo sempre parlato noi: nessun esponente del terzo mondo era stato chiamato a dire quali tecnologie servivano a loro e quali non servivano. Ecco il terzo cambiamento profondo, che richiede un rovesciamento di mentalità: superare il complesso del ricco; non partire da noi, ma da loro.
E qui però sorge un problema: chi può essere l’interlocutore?
Non i governi, che spesso non rappresentano i bisogni e gli interessi delle loro popolazioni; non i diplomatici che raramente sono a contatto con la vita dei loro popoli e comunque difficilmente possono dire quello che pensano. Ho più volte espresso la convinzione che gli interlocutori privilegiati debbono essere gli studiosi provenienti dai paesi poveri, anche se sono pochi. Perché non chiamare loro a dirci quello che serve a loro? Per la verità il Presidente della Fiera di Parma, alla conclusione del Convegno, ha accolto una proposta concreta che avevo fatto nel mio intervento: preparare la prossima Rassegna con una commissione mista, formata da esperti del terzo mondo e da esperti italiani. Avevo fatto anche un’altra proposta: in Italia ci sono studenti del terzo mondo che saranno domani le guide dello sviluppo dei loro paesi.
Perché, dicevo, la Fiera di Parma non potrebbe incentivare con dei premi tesi di laurea che avviino ricerche nel caso specifico sulle tecnologie più adatte a promuovere reale sviluppo nei loro paesi?
Ripropongo qui il discorso, allargandolo. I paesi occidentali negli ultimi venti anni hanno riversato sui paesi sottosviluppati capitali enormi in aiuti alimentari e in grandi progetti di sviluppo. Però hanno sempre investito sulle cose; non hanno mai dato priorità agli investimenti nel capitale umano. Eppure sta qui la vera chiave dello sviluppo.
Lo sviluppo non è merce esportabile: o è auto-sviluppo o non è. Ma l’autosviluppo è possibile soltanto con la diffusione della istruzione e della formazione a tutti i livelli, dalle elementari all’università, alla ricerca. Questa non va attuata nei paesi occidentali, bensì nei loro propri paesi per evitare l’adeguamento e la conformazione ai nostri modelli culturali che potrebbe diventare un’altra forma, molto raffinata, di colonialismo e di manipolazione. Inoltre lo sviluppo non sarà possibile se non cambiano i rapporti dei paesi ricchi con i paesi poveri, se gli attuali rapporti di subordinazione e dipendenza non si trasformeranno in rapporti di eguaglianza e parità: ma questo non sarà un dono, sarà una conquista. Questo processo di cambiamento sarà molto difficile perché il ricco difficilmente accetta di trattare il povero alla pari. Ma sarà impossibile se i paesi poveri non potranno esprimere leaders di eguale valore culturale di quelli dei paesi ricchi. Occorre tener presente che i popoli poveri spesso non abitano paesi poveri: i loro paesi spesso sono ricchi di risorse naturali, la popolazione spesso è ricca di potenzialità umane (intelligenza, intuizione, saggezza) e spesso sono popoli giovani. La diffusione dell’istruzione e della formazione, la coscientizzazione può sviluppare le loro risorse umane e renderli capaci di contrattare i loro rapporti con i paesi ricchi. Ecco perché la chiave dello sviluppo è l’istruzione e la formazione intesa come coscientizzazione.
Che cosa significa tutto questo per noi che viviamo nell’Occidente del benessere e del consumismo? In che cosa l’Occidente deve cambiare per giovare ai popoli in via di sviluppo? Pongo alcune indicazioni provocatorie che possono aprire concrete prospettive operative.
a) Primo cambiamento: occorre passare da una visione assistenzialistica dei problemi del terzo mondo (salvare chi muore di fame) ad una visione di giustizia (cambiare gli attuali rapporti ingiusti).
Che cosa fanno e possono fare i vari gruppi e movimenti? Che cosa fa e può fare la Caritas diocesana? Qui mi si può ritorcere l’argomento: la Caritas fa frequenti appelli per l’aiuto immediato, che è necessariamente assistenza, alle popolazioni del terzo mondo, soprattutto nelle varie calamità. Allora uno può chiedere: ma gli aiuti contro la fame, i viveri e medicinali che manda la Caritas, con le offerte della popolazione italiana in Eritrea, in Malì, in Burkina Faso, i cereali acquistati in Malawi per il Mozambico, le microrealizzazioni dei missionari non servono a nulla? Certo che servono. Se uno ha fame oggi, devo dargli subito qualche cosa. Ricordo la riconoscenza di un padre cistercense eritreo che ho incontrato giorni fa a Roma. D’altronde una sola vita umana vale più di tutto il mondo materiale. Il pozzo che stiamo costruendo in Eritrea (e ne costruiamo altri 211) con il denaro raccolto dalla parrocchia di Scilla in Calabria (lire dieci milioni e mezzo), assicurerà l’acqua ad un intero villaggio.
Ma questi interventi, che hanno un grande valore umano, non scalfiscono il fenomeno nel suo insieme, non cambiano la situazione globale. Ci aiutano a cambiarla se servono a cambiare noi, ad aprirci gli occhi, a farci porre in un modo diverso di fronte ai problemi del terzo mondo, per esigere poi che anche i nostri governi si pongano in un modo diverso.
b) Secondo cambiamento: passare dai macro-progetti ai microprogetti, le microrealizzazioni. Com’è diffuso qui da voi questo strumento, che è insieme di aiuto allo sviluppo, di informazione e di formazione? La Caritas italiana ancora dodici anni fa ha lanciato uno slogan: “ogni parrocchia una micro”. Oggi forse ci sono le condizioni per tradurlo in realtà: già molte parrocchie lo fanno, dunque è possibile. Anche il governo italiano si muove in questa direzione.
c) Terzo cambiamento: imparare a metterci in ascolto. Penso che d’ora in poi non dovremo più organizzare incontri senza chiamare al tavolo rappresentanti del terzo mondo per ricercare insieme con loro quello che possiamo fare per collaborare allo sviluppo dei loro paesi.
d) Quarto cambiamento: dare priorità agli investimenti nel capitale umano.
Perché i gruppi giovanili e le scuole non potrebbero farsi carico di una borsa di studio ciascuno per uno studente del terzo mondo? Non solo in Italia, ma anche nei paesi di origine: anzi meglio, nei paesi di origine. La Caritas italiana e l’Ufficio missionario potrebbero farsi punto di riferimento e coordinamento dell’iniziativa. Non potremmo proporre al Comune, che so molto attento e sensibile a questi problemi, di farsi carico di quella iniziativa proposta alla Fiera di Parma: incentivare con dei premi tesi di laurea di studenti del terzo mondo che affrontino il tema di un utilizzo delle nuove tecnologie per un reale sviluppo dei paesi poveri? Come vedete, il cambio di rotta nell’aiuto ai paesi del terzo mondo non è un problema che tocca soltanto le organizzazioni internazionali dell’Onu o i governi dei paesi industrializzati, ma che ci tocca tutti, oggi.
NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura il 15.11.1985.