Marco Tullio Cicerone non è solo il nome in forma completa di un famoso padre, ma anche quello del figlio omonimo. Questi era nato nel 65 a.C., nel periodo in cui il padre stava percorrendo le tappe della carriera politica che l’avrebbero portato, due anni dopo, al consolato. Nel tempo libero dagli officia, Cicerone padre si interessava dell’educazione del figlio, anzi volle esserne la prima guida culturale e morale: ma subito il giovane si rivelò pigro e svogliato nello studio. Da alcune lettere dell’epistolario paterno sappiamo di questa indole mostrata dal figlio e del tentativo del genitore di suscitarne gli interessi, mediante un lungo viaggio in Asia Minore, nella speranza di una sua maturazione completa. Visitò la Cilicia, incontrò alcuni intellettuali e il re Deiotaro, un sovrano locale che nella guerra civile tra Cesare e Pompeo si sarebbe schierato dalla parte repubblicana. Verso i diciassette anni Marco Cicerone ebbe un incarico militare in Grecia, durante la prima fase della guerra civile; poi la vittoria di Cesare bloccò per un certo periodo la vita pubblica di padre e figlio, e proprio in quel momento si riacutizzarono le tensioni famigliari legate all’indolenza del giovane. E non solo: emersero allora le prime tracce di una non meglio precisata negligenza morale, che faceva sì che egli alternasse momenti di dissipazione ad altri con propositi più costruttivi. Ce lo testimonia una lettera da lui scritta all’amico Tirone, nella quale promette di rimettersi in carreggiata e si autoaccusa degli errori della sua vita che, scrive, gli hanno recato molto dolore e tormento. Anzi: non ne vuole più sentire parlare, perché il solo ricordo gli brucia. Tanta serietà di intenti doveva però durare poco, se quasi nello stesso periodo il padre decideva di scrivere un’opera a lui indirizzata con intenti educativi, anche se l’apparenza del contenuto era diversa. Si era nell’inverno all’inizio dell’anno 45 e il trattato ciceroniano in questione si intitola Partitiones oratoriae: queste sono le ripartizioni dell’oratoria, cioè l’organizzazione del discorso nelle diverse componenti, al fine di arrivare a una forma di eloquenza prestigiosa. Come si vede dal titolo e dalla sintesi del contenuto, le Partitiones oratoriae sono, e così infatti sono state definite, una sorta di «catechismo di retorica»: e non sembrano prestarsi per niente a veicolare le preoccupazioni morali del padre. Ma proprio in questo sta la sua abilità, perché Cicerone è capace di trasformare un discorso tecnico, di pura retorica, in una esortazione generale al figlio, col quale immagina di stabilire un dialogo fatto di domande del giovane e di risposte paterne. Gli argomenti trattati prendono avvio dalle ripartizioni tradizionali della retorica, ma si allargano fuori misura a elencare i vizi da evitare e le virtù da perseguire. Ed è su questi punti che si accentua il messaggio paterno, per esempio nel passo in cui indica al figlio il ritegno e il senso della modestia come virtù fondamentali da possedere. Anzi, questo ritegno è una sorta di cassaforte di tutte le virtù, è l’opposto del disonore ed è una forma di tensione verso la buona reputazione. Nel seguito del trattato Cicerone padre inserisce con tono appassionato l’elogio della pulizia morale, cioè la pudicitia , seguita da un’insolita tirata polemica contro il piacere: un pezzo decisamente fuori luogo all’interno di un’opera, se fosse un semplice manuale di retorica. Questo messaggio morale trasmesso dalle Partitiones oratoriae sembra aver dato qualche risultato, almeno per un po’, cioè nel periodo in cui Marco figlio studiava filosofia in Grecia alla scuola del maestro Cratippo. Ma gli eventi precipitavano. Nel marzo 44 veniva assassinato Cesare e poco tempo dopo sopravvenne la morte di Cicerone padre, raggiunto dai sicari di Antonio nel dicembre del 43. Finirono così anche le ansie e le pressioni educative esercitate sul figlio, ormai adulto e libero nelle sue scelte di comportamento. Sappiamo che militò un po’ con Sesto Pompeo nel seguito della guerra civile, schierato quindi contro Antonio, mandante dell’uccisione di suo padre. Ma sappiamo anche, dalla testimonianza di Plinio il Vecchio, di un’altra sua forma di rivalità con Antonio: quella che mirava a togliere al nemico personale anche la reputazione di maggior ubriacone di Roma. Antonio era riuscito a ottenere questo primato, ma Cicerone figlio riuscì a strapparglielo, facendosi conoscere in città per l’abitudine di bere due coppe abbondanti di vino, una di seguito all’altra.
Giornale di Brescia, 24.8.2005